Storia d'Italia/Libro XVI/Capitolo I
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I
Essendo adunque, nella giornata fatta nel barco di Pavia, non solo stato rotto dall’esercito cesareo l’esercito franzese ma restato ancora prigione il re cristianissimo e morti o presi appresso al suo re la maggiore parte de’ capitani e della nobiltá di Francia, portatisi cosí vilmente i svizzeri i quali per il passato aveano militato in Italia con tanto nome, il resto dello esercito spogliato degli alloggiamenti non mai fermatosi insino al piede de’ monti, e (quello che maravigliosamente accrebbe la riputazione de’ vincitori) avendo i capitani imperiali acquistato una vittoria sí memorabile con pochissimo sangue de’ suoi, non si potrebbe esprimere quanto restassino attoniti tutti i potentati d’Italia; a’ quali, trovandosi quasi del tutto disarmati, dava grandissimo terrore l’essere restate l’armi cesaree potentissime in campagna, senza alcuno ostacolo degli inimici: dal quale terrore non gli assicurava tanto quel che da molti era divulgato della buona mente di Cesare, e della inclinazione sua alla pace e a non usurpare gli stati di altri, quanto gli spaventava il considerare essere pericolosissimo che egli, mosso o da ambizione, che suole essere naturale a tutti i príncipi, o da insolenza che comunemente accompagna le vittorie, spinto ancora dalla caldezza di coloro che in Italia governavano le cose sue, dagli stimoli finalmente del consiglio e di tutta la corte, voltasse, in tanta occasione bastante a riscaldare ogni freddo spirito, i pensieri suoi a farsi signore di tutta Italia; conoscendosi massime quanto sia facile a ogni principe grande, e molto piú degli altri a uno imperadore romano, giustificare le imprese sue con titoli che apparischino onesti e ragionevoli.
Né erano travagliati da questo timore solamente quegli di autoritá e forze minori ma, quasi piú che gli altri, il pontefice e i viniziani: questi, non solo per la coscienza di essergli mancati, senza giusta causa, ai capitoli della loro confederazione ma molto piú per la memoria degli antichi odii e delle spesse ingiurie state tra loro e la casa d’Austria e delle gravi guerre avute, pochi anni innanzi, con l’avolo suo Massimiliano, per le quali si era, nello stato che e’ posseggono in terra ferma, rinfrescato maravigliosamente il nome e la memoria delle ragioni, quasi dimenticate, dello imperio; e per conoscere che ciascuno che avesse in animo di stabilire grandezza in Italia era necessitato a pensare di battere la potenza loro, troppo eminente: il papa, perché, dalla maestá del pontificato in fuora, la quale ne’ tempi ancora della antica riverenza che ebbe il mondo alla sedia apostolica fu spesso mal sicura dalla grandezza degli imperadori, si trovava per ogn’altro conto molto opportuno alle ingiurie, perché era disarmato, senza danari e con lo stato della Chiesa debolissimo nel quale sono rarissime terre forti, non popoli uniti o stabili alla divozione del suo principe, ma diviso quasi tutto il dominio ecclesiastico in parte guelfa e ghibellina e i ghibellini, per inveterata e quasi naturale impressione, inclinati al nome degli imperadori, e la cittá di Roma sopra tutte l’altre debole e infetta di questi semi. Aggiugnevasi il rispetto delle cose di Firenze, le quali, dependendo da lui ed essendo grandezza propria e antica della sua casa, non gli erano forse manco a cuore che quelle della Chiesa; né era manco facile lo alterarle, perché quella cittá, poiché nella passata del re Carlo ne furono cacciati i Medici, avendo sotto nome della libertá gustato diciotto anni il governo popolare, era stata malcontenta del ritorno loro, in modo che pochi vi erano a’ quali piacesse veramente la loro potenza.
Alle quali occasioni, tanto potenti, temeva sommamente il pontefice che non si aggiugnesse volontá non mediocre di offenderlo, non tanto perché dalla ambizione de’ piú potenti non è mai sicuro in tutto chi è manco potente quanto perché temeva che, per diverse cagioni, non fusse in questo tempo esoso a Cesare il nome suo: discorrendo seco medesimo che, se bene, e vivente Lione e poi mentre era cardinale, si fusse affaticato molto per la grandezza di Cesare, anzi Lione ed egli con grandissime spese e pericoli gli avessino aperta in Italia la strada a tanta potenza, e che, come fu assunto al pontificato, avesse dato danari, mentre che l’ammiraglio era in Italia, a’ suoi capitani e fattone dare da’ fiorentini, né levate dell’esercito le genti della Chiesa e di quella republica; nondimeno, che presto, o considerando che allo offizio suo si apparteneva essere padre e pastore comune tra i príncipi cristiani, e piú presto autore di pace che fomentatore di guerre, o cominciando tardi a temere di tanta grandezza, si era ritirato da correre la medesima fortuna; in modo che non aveva voluto rinnovare la confederazione fatta per la difesa d’Italia dal suo antecessore; e quando, l’anno dinanzi, l’esercito suo entrò col duca di Borbone in Provenza non aveva voluto aiutarlo con denari; il che se bene non dette giusta querela a’ ministri di Cesare (non essendo egli, anche per la lega di Adriano, tenuto a concorrere contro a’ franzesi [che] nelle guerre di Italia), nondimeno erano stati princípi di fare che non lo riputassino piú una cosa medesima con Cesare, anzi diminuissino assai della fede che insino a quel dí in lui avuta avevano; come quegli che, menati solo o dallo appetito o dal bisogno, avevano quasi per offesa se alle imprese loro particolari, fatte per occupare la Francia, non mettevano le spalle anche gli altri, come prima si era fatto alle universali cominciate sotto titolo di assicurare Italia dalla potenza de’ franzesi. Ma cominciorono e scopersonsi le querele e i dispiaceri quando il re di Francia passò alla impresa di Milano. Perché se bene il papa, secondo che scrisse poi nel breve suo querelatorio a Cesare, desse occultamente qualche quantitá di danari nel ritorno di Marsilia, nondimeno dipoi non si era stretto e inteso con loro, ma subito che il re ebbe acquistato la cittá di Milano, parendogli che le cose sue procedessino prosperamente, aveva capitolato con lui; e ancora che egli se ne scusasse con Cesare, allegando che in quel tempo, non avendo i capitani suoi per spazio di venti dí significatogli alcuno de’ loro disegni, e dipoi disperando della difesa di quello stato e temendo eziandio di Napoli, e spingendosi il duca d’Albania con le genti verso Toscana, era stato necessitato pensare alla sicurtá sua, ma non avere però potuto in lui tanto il rispetto del proprio pericolo che e’ non avesse accordato con condizioni per le quali non manco si provedeva alle cose di Cesare che alle sue, e che e’ non avesse disprezzato partiti grandissimi offertigli dal re di Francia perché entrasse seco in confederazione; nondimeno non avevano operato le sue escusazioni che e’ non se ne fusse turbato molto Cesare e i suoi ministri, non tanto perché e’ si veddono privati al tutto della speranza di avere piú da lui sussidio alcuno quanto perché e’ dubitorno che la capitolazione non contenesse piú oltre che obligazione di neutralitá, e perché e’ parve loro che in ogni caso l’avesse dato troppa riputazione alla impresa franzese, e perché temerono ancora che il papa non fusse mezzo che i viniziani seguitassino lo esempio suo; il che essere stato vero si certificorono dipoi, per lettere e per brevi che dopo la vittoria furono trovati nel padiglione del re prigione. Aveva in ultimo acceso questi sospetti e mala sodisfazione quando il papa acconsentí che per il dominio suo passassino, e fussino aiutate a condurre, le munizioni delle quali il duca di Ferrara accomodò il re di Francia mentre era a campo a Pavia, ma molto piú l’andata del duca di Albania alla impresa del reame di Napoli, perché non solo come amico fu per tutto lo stato della Chiesa e de’ fiorentini ricettato e onorato, ma ancora si fermò molti giorni intorno a Siena per riformare a stanza sua il governo di quella cittá: il che se bene allungava l’andata del duca al reame di Napoli, e a questo effetto principalmente era stato procurato da lui per essergli molesto che uno medesimo diventasse signore di Napoli e di Milano; nondimeno gli imperiali avevano per questo fatta interpretazione che tra il re di Francia e lui fusse stato fatto altro legame che semplice promessa di non offendere. Però temeva giustamente il pontefice non solo di essere offeso, come temevano tutti gli altri, dai cesarei, col tempo e con l’occasione, ma che ancora, senza aspettare opportunitá maggiore, non assaltassino subito o lo stato della Chiesa o quello di Firenze. E gli accrebbe il timore che, essendosi il duca d’Albania, come ebbe avviso della calamitá del re, ritirato, per salvarsi, da Monteritondo verso Bracciano, e fatti ancora andare lá cento cinquanta cavalli che erano in Roma, i quali il papa fece accompagnare insino lá dalla sua guardia, perché il duca di Sessa e gli imperiali si preparavano per rompere le genti sue, accadde che, venendo da Sermoneta circa quattrocento cavalli e mille dugento fanti delle genti degli Orsini, seguitati da Giulio Colonna con molti cavalli e fanti, furno rotti da lui alla abbazia delle Tre Fontane; ed entrati fuggendo in Roma per la porta di San Paolo e di San Sebastiano, le genti di Giulio, entrate dentro con loro, ne ammazzorono insino in Campo di Fiore e in altri luoghi della cittá: la quale con tumulto grande si levò tutta in arme, prima con grande timore e poi con grande indignazione del pontefice, che all’autoritá sua non fusse avuto né rispetto né riverenza alcuna.
Ma in questa sospensione e ansietá grandissima dell’animo, gli sopravenneno i conforti e offerte de’ viniziani: i quali, costituiti nel medesimo timore di se medesimi, con efficacissima instanza si sforzavano persuadergli che, congiunti insieme, facessino calare subito in Italia diecimila svizzeri, e soldato una grossa banda di genti italiane si opponessino a cosí gravi pericoli; promettendo, come è costume loro, di fare per la loro parte molto piú che poi non sogliono osservare. Allegavano che i fanti tedeschi che erano stati alla difesa di Pavia, né avevano, giá molti mesi, avuto denari, veduto che dopo la vittoria continuavano le medesime difficoltá de’ pagamenti che prima, si erano ammutinati, avevano tolto l’artiglierie e fattisi forti in Pavia; che per la medesima cagione tutto il resto dello esercito di Cesare era sollevato e per sollevarsi ogni dí piú, non avendo i capitani facoltá di pagarlo: in modo che, armandosi e loro e lui potentemente, e si assicuravano gli stati comuni e si nutriva l’occasione che gli imperiali, impegnati in queste difficoltá e necessitati a tenere del continuo grosse forze alla guardia del re prigione, si disordinassino per loro medesimi. Aggiugnersi, che e’ non era da dubitare che madama la reggente, in mano della quale era il governo di Francia, desiderosissima di questa unione, non solo farebbe subito cavalcare, a stanza loro, il duca di Albania con le sue genti e quelle quattrocento lancie del retroguardo che si erano ritirate dalla giornata a salvamento, ma ancora, con volontá di tutto il regno di Francia, concorrerebbe alla salute d’Italia con grossa somma di denari, conoscendo che da quella dependeva in grande parte la speranza della recuperazione del re suo figliuolo. Essere ottima senza dubbio questa deliberazione se si facesse con prestezza, ma la lunghezza dare a’ cesarei facoltá di riordinarsi; e tanto piú che chi non si risolveva ad armarsi era necessitato di accordarsi con loro e porgergli denari, che non era altro che essere instrumento di liberargli da tutte le difficoltá e stabilirsi da se medesimo in perpetua suggezione. Davano anche speranza d’avere a essere seguitati dal duca di Ferrara, il quale, e per la dependenza antica da’ franzesi e per gli aiuti dati in questa guerra al re, non era senza grandissimo timore: la congiunzione del quale pareva di non piccolo momento, per la opportunitá grande del suo stato alle guerre di Lombardia; [per essere] la cittá di Ferrara fortissima ed egli abbondantissimo di munizioni e di artiglierie e, come era fama, ricchissimo di denari.