Storia d'Italia/Libro XVI/Capitolo II
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II
Né la speranza di avere a vincere una impresa sí difficile né la considerazione de’ pericoli piú lontani, a’ quali il tempo suole spesso partorire rimedi non pensati, arebbe inclinato Clemente a prestare orecchi a questi ragionamenti, se non l’avesse indotto il timore di non essere assaltato di presente, a volere piú presto esporsi al pericolo manco certo che al pericolo che appariva maggiore e piú presente; e perciò si ristrinsono tanto le pratiche tra loro che, essendosi condotte insino allo estendere i capitoli, si aspettava che a ogn’ora si stipulassino; e in modo che il papa, persuadendosene la conclusione, spedí in poste al re d’Inghilterra Ieronimo Ghinuccio sanese, auditore della camera apostolica, per cercare destramente di disporlo a opporsi a tanta grandezza di Cesare. Quando opportunamente sopravenne lo arcivescovo di Capua, antico segretario e consigliere suo, e che molti anni era stato appresso a lui di grandissima autoritá; il quale, subito che aveva udito la vittoria degli imperiali, era da Piacenza andato in campo a don Carlo del Lanoi viceré di Napoli, e risoluto della sua intenzione corse subito in poste al pontefice, portandogli speranza certa di accordo. Perché il viceré e gli altri capitani avevano per allora due pensieri: l’uno di provedere a’ denari per sodisfare l’esercito, col quale per non avere modo di pagarlo si trovavano in grandissima confusione; l’altro di condurre la persona del re di Francia in luogo che la difficoltá del guardarlo non gli avesse a tenere in continuo travaglio; e stabilite bene queste due cose, giudicavano restare in grado da potere sempre mettere a effetto i disegni loro: però desideravano l’accordo col papa, presupponendo di cavarne quantitá grande di denari. E per disporvelo tanto piú col fargli spavento, e anche per sgravare degli alloggiamenti de’ soldati lo stato di Milano che era molto consumato, avevano mandata ad alloggiare in piacentino quattrocento uomini d’arme e ottomila tedeschi, non come inimici, ma ora dicendo che il ducato di Milano non poteva nutrire sí grosso esercito ora minacciando di volergli fare passare in terra di Roma a trovare il duca di Albania, in caso che le genti condotte dagli Orsini non si dissolvessino. Ma erano superflue queste diligenze; perché come il papa fu certificato potere fuggire i pericoli presenti, lasciati gli altri pensieri, si voltò con tutto l’animo alla concordia: perciò, subito udito l’arcivescovo, fece fermare l’auditore della camera per il cammino; e per levare tutte l’occasioni che potessino interromperla operò che il duca di Albania dissolvesse, dai cavalli e fanti oltramontani in fuora, tutto ’l resto dello esercito e gli dette le stanze a Corneto, ricevuta promessa da’ ministri di Cesare di licenziare anche essi le genti loro che erano intorno a Roma, e fermare Ascanio Colonna e altre genti che venivano del regno; e si interpose ancora che i Colonnesi, che cominciavano a molestare le terre degli Orsini, desistessino dall’armi.
Desiderava il pontefice e faceva ogni opera perché nella concordia che e’ trattava col viceré si includessino i viniziani, ma la difficoltá era che essi ricusavano di volere pagare i denari dimandati loro dal viceré; perché dimandava che gli pagassino tanti danari quanti arebbono spesi nelle genti che avevano a contribuire, e che in futuro contribuissino non con gente, ma con danari; dimandando anche il medesimo a tutti quegli i quali erano compresi nella confederazione fatta con Adriano. Ma la durezza de’ viniziani facevano beneficio al pontefice, dando sospizione al viceré che pensassino a nuovi movimenti. Le quali cose mentre si trattano, con speranza certissima d’aversi a conchiudere, i fiorentini, per ordine del pontefice, mandorono al marchese di Pescara, per intrattenimento dello esercito, venticinquemila ducati; ricevuta promessa il pontefice da Giambartolomeo da Gattinara, il quale appresso a lui trattava per il viceré, che questa quantitá sarebbe computata nella somma maggiore che arebbono a pagare per vigore della nuova capitolazione.
La quale innanzi si conchiudesse, pochissimi dí, il duca di Albania, il quale per tornarsene in Francia aveva aspettato l’armata, venuta quella al Porto di Santo Stefano e mandategli le galee, si imbarcò a Civitavecchia sopra quelle e sopra le galee del pontefice, prestategli con consentimento del viceré, benché né all’armata né alle galee non dessino salvocondotto; e con lui Renzo da Ceri, con l’artiglieria avuta da Siena e da Lucca, con quattrocento cavalli mille fanti tedeschi e pochi italiani, perché il resto della gente si era sfilata e il resto de’ cavalli parte venduti parte lasciati. I progressi del quale erano stati tali che si comprese apertamente essere stato mandato, o perché gli imperiali, temendo del regno di Napoli, partissino, per soccorrerlo, del ducato di Milano o perché per questo timore si inducessino alla concordia; e per questa cagione essere proceduto lentamente, mancando forse al re [denari] bastanti a mandarlo con esercito potente.
Ma finalmente, lasciati da parte i viniziani, si conchiuse il primo dí di aprile in Roma, tra il pontefice e il viceré di Napoli come luogotenente cesareo generale in Italia (per il quale era in Roma con pieno mandato Giambartolomeo da Gattinara, nipote del gran cancelliere di Cesare), confederazione per sé e per i fiorentini da una parte e per Cesare dall’altra. La somma de’ capitoli piú importanti fu: che tra il papa e Cesare fusse perpetua amicizia e confederazione, per la quale l’uno e l’altro di loro fusse obligato a difendere da ciascuno con certo numero di gente il ducato di Milano, posseduto allora sotto l’ombra di Cesare da Francesco Sforza, il quale fu nominato come principale in questa capitolazione; e che l’imperadore avesse in protezione tutto lo stato che teneva la Chiesa, quello che possedevano i fiorentini, e particolarmente la casa de’ Medici con l’autoritá e preminenze che aveva in quella cittá; pagandogli però i fiorentini, di presente, centomila ducati per ricompenso quello che arebbono auto a contribuire nella guerra prossima, per virtú della lega fatta con Adriano, la quale pretendeva non essere estinta per la sua morte, per essere specificato ne’ capitoli che la durasse uno anno dopo la morte di ciascuno de’ confederati: che i capitani cesarei levassino genti dello stato ecclesiastico, né mandassino di nuovo ad alloggiarvene dell’altre senza consentimento del pontefice: a’ viniziani fu lasciato luogo di entrare in questa confederazione, in termine di venti dí, con oneste condizioni, che avessino a essere dichiarate dal papa e da Cesare: e che il viceré fusse tenuto a fare venire, fra quattro mesi, la ratificazione di Cesare di tutti questi capitoli. E obligorono i mandatari del viceré, in uno capitolo da parte confermato con giuramento, che, caso che Cesare non ratificasse fra il tempo questi capitoli, avesse il viceré a restituire i centomila ducati; dovendosi però, insino che i danari non si restituissino, osservare la lega interamente. Alla quale furono aggiunti tre articoli, non connessi nella capitolazione ma posti in scrittura separata, confermati eziandio per giuramento, che contennono: che in tutte, le cose beneficiali del regno di Napoli fusse permesso a’ pontefici usare quella autoritá e giurisdizione che si disponeva per le investiture del regno; che il ducato di Milano pigliasse in futuro il sale delle saline di Cervia, per quel prezzo e modi che altre volte fu convenuto tra Lione e il presente re di Francia, e confermato nella capitolazione che l’anno mille cinquecento ventuno fece il medesimo Lione con l’imperadore; e che il viceré fusse obligato a fare sí e talmente che il duca di Ferrara restituisse, immediate, alla Chiesa Reggio, Rubiera, l’altre terre che aveva prese, vacante la sedia romana per la morte di Adriano; e che per questo il pontefice, subito che e’ ne fusse reintegrato, avesse a pagare a Cesare centomila ducati, e a ogni sua requisizione assolvere il duca dalle censure e privazioni nelle quali era incorso, ma non giá dalla pena di centomila ducati promessa in caso di contravenzione allo instrumento fatto con Adriano: e nondimeno, ricuperata che il papa ne avesse la possessione, si avesse a vedere di ragione se quelle terre e Modena appartenevano alla Chiesa o allo imperio; e appartenendosi allo imperio si avessino a riconoscere in feudo da Cesare, appartenendosi alla Chiesa restassino libere alla sedia apostolica.
Fu questa deliberazione del pontefice interpretata variamente dagli uomini, secondo che sono varie le passioni e i giudizi. La moltitudine massime, alla quale sogliono piacere piú i consigli speciosi che i maturi, e che spesso ha per generosi quegli che non misurano le cose prudentemente, tutti coloro ancora che facevano professione di desiderare la libertá di Italia, lo biasimorono, come se per viltá d’animo avesse lasciato l’occasione di unirla contro a Cesare, e aiutato co’ danari propri l’esercito suo a liberarsi da tutti i disordini; ma la maggiore parte degli uomini piú prudenti giudicorono molto diversamente, perché consideravano che il volersi opporre con genti nuove a uno esercito grossissimo e vincitore non era consiglio prudente. Non potere essere che la venuta de’ svizzeri non fusse cosa lunga, e da arrivare facilmente passato che fusse il bisogno, quando bene fussino prontissimi a venire: di che, atteso la natura loro e la percossa ricevuta sí di fresco, non si aveva certezza alcuna. Né si dovere sperare meglio del reame di Francia, dove per tanta rotta non era restato né animo né consiglio; non vi era in pronto provisione di danari, non di gente d’arme, e quelle poche ancora che si erano salvate il dí della giornata, avendo perduto i carriaggi, avevano bisogno di tempo e di denari a riordinarsi: però, non avere questa unione altro probabile fondamento che la speranza che l’esercito inimico, per non essere pagato, non avesse a muoversi; il che quando bene succedesse non restare per questo privati del ducato di Milano, il quale mentre si reggeva a divozione di Cesare arebbe sempre il pontefice causa grandissima di temerne. Ma questa essere anche speranza molto incerta, perché era da temere che i capitani, con l’autoritá e arti loro, col proporre il sacco di qualche cittá ricca della Chiesa o di Toscana, non lo disponessino a camminare: essersi giá veduto che una parte de’ tedeschi, solo per avere piú grassi alloggiamenti, aveva passato il fiume del Po e venuta in parmigiano e piacentino; in modo che se si fussino deliberati di spingersi innanzi non potere essere se non tardi rimedio alcuno, e fondarsi con troppo pericolo una tanta deliberazione in su la speranza sola de’ disordini degli inimici, dalla volontá de’ quali dependevano finalmente lo svilupparsene. Fu adunque il consiglio di Clemente, secondo il tempo che correva, prudente e bene considerato. Ma sarebbe stato forse piú laudabile se in tutti gli articoli della capitolazione avesse usato la medesima prudenza, e voltato l’animo piú presto a saldare tutte le piaghe di Italia che ad aprire e inasprirne qualcuna di momento; imitando i savi medici, i quali, quando i rimedi che si fanno per sanare la indisposizione degli altri membri accrescono la infermitá del capo o del cuore, posposto ogni pensiero de’ mali piú leggieri e che aspettano tempo, attendono con ogni diligenza a quello che è piú importante e piú necessario alla salute dello infermo. Il che perché s’intenda meglio è necessario ripetere piú da alto parte delle cose giá narrate, ma sparsamente, di sopra, riducendole in uno luogo medesimo.