Storia d'Italia/Libro V/Capitolo XI
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XI
Ritornò adunque il Valentino, licenziato in Asti dal re, in Romagna, con tutto che prima avesse dato speranza, a quegli che temeano di lui, di condurlo seco per sicurtá comune in Francia. La cui ritornata commosse non solamente gli animi di coloro contro a’ quali si indirizzava il suo primo impeto ma eziandio di molti altri: perché il medesimo timore avevano Pandolfo Petrucci e gli Orsini, congiunti quasi nella medesima causa con Vitellozzo e con Giampaolo Baglione; e al duca di Ferrara dava maggiore spavento la perfidia e l’ambizione sua e del padre che non dava confidenza il parentado; e i fiorentini, ancora che avessino ricuperato le terre col favore del re, stavano con molto timore trovandosi poco proveduti di gente d’arme, perché il re, non confidandosi interamente del marchese di Mantova per la dependenza che avea avuta, quando temeva le sue armi, con lo imperadore, benché a Milano l’avesse ricevuto in grazia, non aveva consentito lo conducessino per loro capitano generale; e conoscevano [per] molti segni che avessino la consueta volontá contro a di loro, e specialmente perché, per tenergli in continuo sospetto, ricettavano ne’ luoghi vicini tutti i fuorusciti di Arezzo e di quell’altre terre.
Accresceva il timore di tutti questi il considerare quanto con l’armi co’ danari e con l’autoritá fussino potenti tali inimici, quanto in tutte le cose loro si dimostrasse propizia la fortuna, e che per tanti acquisti non si era moderata in parte alcuna la loro cupiditá, anzi, come se al fuoco fussino somministrati continuamente nuovi alimenti, era diventata immoderata e infinita. Temevasi che essi, conoscendo quanto rispetto avesse loro il re di Francia, non pigliassino animo a tentare qualunque cosa, eziandio contro alla sua volontá; e giá dicevano il padre e il figliuolo, palesemente, pentirsi de’ troppi rispetti e dubitazioni che avevano avute nelle cose d’Arezzo, affermando che ’l re, secondo la natura de’ franzesi, e i mezzi potenti che avevano nella sua corte, tollererebbe sempre le cose fatte benché gli fussino moleste. Né assicurava alcuno di questi che temevano, l’essere il re obligato alla sua protezione; perché erano freschi gli esempli che aveva permesso che sotto quella fusse spogliato il signore di Piombino, né risentitosi che il medesimo fusse accaduto al duca d’Urbino, accettatovi da lui quando mandò l’esercito a Napoli, perché dette in servigio suo cinquanta uomini d’arme. Ma piú presente e piú tremendo era l’esempio di Giovanni Bentivogli; perché, con tutto che il re avesse ne’ prossimi anni comandato al Valentino che non molestasse Bologna, allegando che le obligazioni che aveva col pontefice non si intendevano se non per le preeminenze e autoritá le quali, nel tempo che si confederorno insieme, vi possedeva la Chiesa, nondimeno in questo tempo, ricercandolo il Bentivoglio di aiuto per le preparazioni che si facevano contro a lui, variando la interpretazione delle parole secondo la varietá de’ fini suoi, e commentando le capitolazioni fatte piú tosto come giurisconsulto che come re, rispondeva che la protezione per la quale si era obligato a difenderlo non impediva la impresa del pontefice se non per la persona e beni suoi particolari; perché, se bene le parole erano generali, vi era specificato che la si intendesse senza pregiudicio delle ragioni della Chiesa, alla quale niuno negava appartenere la cittá di Bologna; e perché nella confederazione che aveva fatta col pontefice, anteriore di tempo a tutte quelle che aveva fatte in Italia, si era obligato, in qualunque convenzione facesse per l’avvenire con altri, eccettuare sempre ch’elle non si intendessino in pregiudicio delle ragioni della Chiesa. Nella quale deliberazione perseverò in modo senza vergogna che, confortandolo a cosí fare il cardinale di Roano, contro al parere di tutti gli altri del suo consiglio, mandò a Bologna uno uomo proprio a intimare che, essendo quella cittá appartenente alla Chiesa, non poteva mancare di non favorire la impresa del pontefice, e che per virtú della sua protezione sarebbe lecito a’ Bentivogli abitare privatamente in Bologna e godersi le loro sostanze.
Né solamente a tutti questi, ma insino a’ viniziani, cominciava a essere sospetta tanta prosperitá del duca Valentino; sdegnati eziandio che pochi mesi innanzi, dimostrando essere in piccola estimazione appresso a lui l’autoritá di quel senato, aveva fatto rapire la moglie di Giovambattista Caracciolo capitano generale delle loro fanterie, la quale, andando da Urbino a congiugnersi col marito, passava per la Romagna. Però, per dare causa al re di procedere piú moderatamente a’ suoi favori, dimostrando di muoversi come amici e gelosi dell’onore suo, gli ricordorono per gli oratori loro, con parole degne della gravitá di tanta republica, che considerasse di quanto carico gli fusse il dare tanto favore al Valentino, e quanto poco convenisse allo splendore della casa di Francia e al cognome tanto glorioso di re cristianissimo favorire uno tiranno tale, distruttore de’ popoli e delle provincie e sitibondo sí immoderatamente del sangue umano, ed esempio a tutto il mondo di orribile immanitá e perfidia; dal quale, come da publico ladrone, erano stati ammazzati sí crudelmente sotto la fede tanti nobili e signori, e che non si astenendo ancora dal sangue de’ fratelli e de’ congiunti, ora con ferro ora con veleno, avesse incrudelito nelle etá miserabili eziandio alla barbarie de’ turchi. Alle quali parole il re, confermandosi forse piú nella sentenza sua per la intercessione de’ viniziani, rispondeva non volere né dovere impedire il pontefice che non disponesse ad arbitrio suo delle terre che appartenevano alla Chiesa. In modo che, astenendosi gli altri per rispetto suo da opporsi all’armi del Valentino, quegli che erano giá prossimi allo incendio deliberorono provedervi per loro medesimi. Però gli Orsini, Vitellozzo, Giampagolo Baglione e Liverotto da Fermo, con tutto che come soldati del Valentino, il quale simulava di volere muovere l’armi solamente contro a Bologna, avessino ricevuto di nuovo danari da lui, ritirorno le genti delle loro condotte in luoghi sicuri, con intenzione di unirsi insieme per la difesa comune. Alla qual cosa gli fece accelerare la perdita della fortezza di Santo Leo, la quale per trattato di uno del paese, proposto quivi a certa muraglia, ritornò in potestá di Guido duca di Urbino; e da questo principio, richiamandolo quasi tutti i popoli di quello stato, egli, andato da Vinegia, dove era rifuggito, per mare a Sinigaglia, ricuperò subito, dalle fortezze in fuora, tutto il ducato.
Congregornosi adunque alla Magione, in quel di Perugia, il cardinale Orsino (il quale dopo la partita del re, temendo di ritornare a Roma, si era stato a Monteritondo), Pagolo Orsino, Vitellozzo, Giampagolo Baglione e Liverotto da Fermo, e per Giovanni Bentivogli Ermes suo figliuolo, e in nome de’ sanesi Antonio da Venafro ministro confidentissimo di Pandolfo Petrucci; dove, discorsi i pericoli loro sí evidenti, e l’opportunitá che avevano per la ribellione dello stato d’Urbino e perché al Valentino abbandonato da loro restavano pochissime genti, feciono confederazione a difesa comune e a offesa di Valentino e a soccorso del duca d’Urbino, obligandosi a mettere tra tutti in campo settecento uomini d’arme e novemila fanti, con patto che il Bentivoglio rompesse la guerra nel territorio d’Imola, e gli altri con maggiore sforzo procedessino verso Rimini e verso Pesero. Nella quale confederazione, avendo grandissimo rispetto a non irritare l’animo del re di Francia, e sperando che forse non gli sarebbe molesto che il Valentino fusse travagliato con l’armi di altri, espressono volere essere obligati a muoversi prontamente con le persone proprie e con le genti a sua requisizione contro a ciascuno; e per la medesima cagione non ammessono in questa unione i Colonnesi, ancora che tanto inimici e perseguitati dal pontefice. Ricercorono oltre a questo il favore de’ viniziani e de’ fiorentini, offerendo a questi la restituzione di Pisa, la quale dicevano essere in arbitrio di Pandolfo Petrucci per la autoritá che avea co’ pisani; ma i viniziani stetteno sospesi aspettando di vedere prima la inclinazione del re di Francia, e i fiorentini ancora, per la medesima cagione e perché avendo l’una parte e l’altra per inimici temevano della vittoria di ciascuno. Sopravenne questo accidente improviso al duca Valentino, in tempo che tutto attento a occupare gli stati altrui niente meno pensava che all’essere assaltati gli stati suoi. Ma non perduto per la grandezza del pericolo né l’animo né ’l consiglio, e confidando sommamente, come diceva, nella sua prospera fortuna, attese con somma industria e prudenza a’ rimedi opportuni. Principalmente trovandosi quasi disarmato, mandò senza dilazione a domandare con grande instanza aiuto al re di Francia, ricordandogli quanto in ogni caso potesse valersi piú del pontefice e di lui che degli inimici suoi, e quanto poco potesse confidarsi di Vitellozzo e di Pandolfo, che era principale capo e consultore di tutti gli altri, e che prima aveva aiutato il duca di Milano contro a lui e dipoi sempre avuta dependenza dal re de’ romani; e nondimeno attendeva sollecitamente a provedersi di nuove genti, non dimenticando però né ’l padre né egli l’insidie e l’arti fraudolente: perché il pontefice, ora scusando le cose palesi ora negando le dubbie, cercava con grandissima diligenza di mitigare l’animo del cardinale Orsino, per mezzo di Giulio suo fratello; e il Valentino, con varie lusinghe e promesse, si ingegnava di placare e assicurare ora l’uno ora l’altro di essi, cosí per fargli piú negligenti alle provisioni come per speranza che queste pratiche separate avessino a generare tra loro sospetto e disunione; deliberato, insino non avesse esercito potente, non si partire da Imola ma attendere a guardare l’altre terre, non dando soccorso alcuno al ducato d’Urbino. Per il che comandò a don Ugo di Cardona e don Michele uomini suoi, che erano in quegli confini con cento uomini d’arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti, che si ritirassino a Rimini: il che non eseguirono, per l’occasione che si presentò loro di ricuperare e saccheggiare la Pergola e Fossombrone, dove furono introdotti da’ castellani delle fortezze. Ma l’effetto dimostrò quanto sarebbe stato piú utile seguitare la deliberazione del duca; perché andando verso Cagli scontrorono appresso a Fossombrone Pagolo e il duca di Gravina, tutti due della famiglia Orsina, co’ quali erano seicento fanti di Vitellozzo, ed essendo venuti alle mani restorno rotti quegli di Valentino con morte di molti e molti prigioni; tra’ quali fu morto Bartolomeo da Capranica capitano di settanta uomini d’arme, e preso don Ugo di Cardona. Rifuggissi don Michele a Fano, onde per commissione di Valentino si ritirò a Pesero, lasciata Fano, come terra piú fedele, in potestá del popolo, poi che non avea tante forze che potesse difenderle amendue. E in questi dí medesimi le genti de’ bolognesi, che erano alloggiate a Castel San Piero, corseno a Doccia luogo vicino a Imola: e si riducevano certamente le cose del Valentino in molto pericolo se i collegati avessino usato piú prestezza a offenderlo.
Ma mentre che loro, o per non essere a ordine con le genti convenute nella dieta o tenuti sospesi dalle pratiche della concordia, guardano nel volto l’uno l’altro, cominciò a passare l’occasione che prima si era dimostrata favorevole; perché il re di Francia aveva commesso a Ciamonte che mandasse quattrocento lancie al Valentino, e si ingegnasse con tutti i modi possibili dare riputazione alle cose sue: il che come fu inteso da’ collegati, trovandosi molto confusi, cominciò ciascuno a pensare alle cose proprie. Però il cardinale Orsino continuava le pratiche cominciate col pontefice, e Antonio da Venafro mandato da Pandolfo Petrucci andò a Imola a trattare col Valentino; col quale trattava medesimamente Giovanni Bentivogli, avendo nel tempo medesimo mandato Carlo degli Ingrati oratore al pontefice e fatte restituire le cose predate a Doccia. Le quali pratiche essendo con sommo artificio aiutate e nutrite dal Valentino, e giudicando Pagolo Orsino dovere essere mezzo opportuno a disporre gli altri, simulando di confidare molto in lui, lo chiamò a Imola: per sicurtá del quale il cardinale Borgia andò nelle terre degli Orsini. Con Pagolo usò il Valentino dolcissime parole, lamentandosi non tanto di lui e degli altri, che avendolo insino a quel dí servito con tanta fede si fussino per sospetti vani alienati sí leggiermente da sé, quanto della imprudenza propria, non avendo saputo procedere di maniera che avesse data loro causa di non ammettere queste vane dubitazioni; ma sperare che questa diffidenza, nata al tutto senza cagione, in luogo di inimicizia partorirebbe tra sé e loro perpetua e indissolubile congiunzione: perché ed essi giá si dovevano accorgere che non potevano opprimerlo, poiché il re di Francia era tanto disposto a sostenere la sua grandezza, ed egli da altra parte, avendo meglio aperti gli occhi per la esperienza di questo moto, confessava ingenuamente di conoscere che dai consigli e dal valore dell’armi loro era proceduta tutta la sua felicitá e riputazione. Però, desiderosissimo di ritornare nell’antica fede con loro, essere parato ad assicurargli in qualunque modo volessino, e a finire, purché con qualche sua degnitá, le controversie co’ bolognesi ad arbitrio loro. Aggiunse, a quello che apparteneva a tutti, dimostrazione d’avere confidenza grandissima in Pagolo, empiendolo di speranze e di promesse per sé proprio, e con tanto artificio che facilmente gli persuase tutto quello che si esprimeva per lui, efficace molto per natura nelle parole e prontissimo di ingegno.
Le quali cose mentre che si trattavano, il popolo di Camerino richiamò Giovanmaria da Varano figliuolo del signore passato, che era all’Aquila, e Vitellozzo, con grave querela sua e di Pagolo Orsino, prese la rocca di Fossombrone; ed essendo similmente perduta la fortezza d’Urbino e poi quelle di Cagli e di Agobbio, non gli rimaneva in quello stato altro che Santa Agata, oltre ad avere perduto tutto il contado di Fano. E nondimeno Pagolo, continuando la pratica cominciata, poiché piú volte per dare forma alle cose de’ Bentivogli parenti suoi (era la figliuola maritata a Ermes figliuolo di Giovanni) fu andato da Imola a Bologna, convenne seco in questa sentenza, ma con condizione se la convenzione fusse approvata dal cardinale Orsino, all’autoritá del quale quasi tutti gli altri si riferivano. Cancellassinsi gli odii conceputi e la memoria di tutte le ingiurie passate; confermassinsi a’ collegati l’antiche condotte, con obligazione di andare come soldati del Valentino alla recuperazione del ducato di Urbino e degli altri stati ribellati, ma per sicurtá loro non fussino obligati ad andare a servirlo personalmente se non uno per volta, né il cardinale Orsino obligato a stare in corte di Roma; e che delle cose di Bologna si facesse compromesso libero nel duca Valentino nel cardinale Orsino e in Pandolfo Petrucci. Con la quale conclusione essendo andato Pagolo Orsino, fatto, ogni dí piú, capacissimo della buona intenzione di Valentino, a trovare gli altri per indurgli a ratificare, il Bentivoglio, non gli parendo né sicuro né onorevole né ragionevole che le cose sue in arbitrio d’altrui rimanessino, mandato il protonotario suo figliuolo a Imola e ricevuti uomini dal Valentino, conchiuse accordo col pontefice e con lui; al quale piú facilmente condiscesono perché comprendevano che il re di Francia, considerando meglio o la infamia o quel che importasse che la cittá di Bologna fusse in potestá loro, e però rimosso dalla prima deliberazione, non era piú per comportare che l’ottenessino. Le condizioni furno: lega perpetua tra il Valentino da una parte e i Bentivogli insieme con la comunitá di Bologna dall’altra; avesse il Valentino da’ bolognesi condotta di cento uomini d’arme per otto anni, che si convertiva in pagamento di dodicimila ducati l’anno; obligati i bolognesi a servirlo di cento uomini d’arme e di cento balestrieri a cavallo, ma solamente per uno anno prossimo; e che il re di Francia e i fiorentini promettessino l’osservanza per l’una parte e per l’altra; e che per maggiore stabilitá della pace si maritasse al figliuolo di Annibale la sorella del vescovo di Enna nipote del pontefice. Né cessava perciò Valentino di sollecitare la venuta delle genti franzesi e di tremila svizzeri condotti a suo soldo, sotto specie di usarle non piú contro a’ collegati ma per la ricuperazione del ducato di Urbino e di Camerino: perché i collegati si erano giá risoluti a ratificare l’accordo fatto, essendo stato tirato in questa sentenza il cardinale Orsino, che era allo Spedaletto in quello di Siena, dalle persuasioni di Pagolo e confortatone molto da Pandolfo Petrucci; a che, benché dopo lunga contradizione, consentirono Vitellozzo e Giampagolo Baglione a’ quali era sospettissima la fede del Valentino. Dopo la ratificazione de’ quali avendo medesimamente ratificato il pontefice, il duca d’Urbino, benché dal popolo che gli prometteva volere morire per la conservazione sua fusse pregato di non partirsi, nondimeno temendo piú dell’armi militari che non confidava delle voci popolari, ritornandosene a Vinegia, dette luogo all’impeto degli inimici, avendo prima fatte rovinare tutte le fortezze di quello stato eccetto che quelle di Santo Leo e di Maiuolo; e i popoli, essendovi andato per commissione del Valentino i popoli Antonio dal Monte a Sansovino, che fu poi cardinale, con facoltá di concedere loro venia, ritornorono d’accordo sotto il suo giogo: il che fece anche la cittá di Camerino, perché il signore se ne fuggí nel reame di Napoli, impaurito perché Vitellozzo e gli altri, levate le genti loro del contado di Fano, si preparavano per andare come soldati di Valentino a quella impresa. Nel quale tempo il pontefice mandò il campo a Palombara, ricuperata da’ Savelli insieme con Senzano e altre loro castella, nell’occasione dell’armi mosse da questi altri.
Ma il duca Valentino, volendo mettere a fine i suoi occulti pensieri, andò da Imola a Cesena; dove non quasi arrivato che le lancie franzesi, venute non molti dí prima, si partirno subitamente da lui, rivocate da Ciamonte, non per commissione del re ma o, come si affermava, per indegnazione particolare nata tra lui e il Valentino o pure perché cosí fusse stato procurato da lui, per essere manco formidabile a quegli i quali sommamente desiderava di assicurare. A Cesena attese a riordinare le genti sue, maggiori in numero che non era la fama, perché industriosamente aveva fatto poche condotte grosse ma soldato, e continuamente soldava, molte lancie spezzate e gentiluomini particolari: e nel medesimo tempo Vitellozzo e gli Orsini, andati per suo comandamento a campo a Sinigaglia, ottenneno la terra e la rocca; onde la prefettessa sorella del duca d’Urbino si fuggí, abbandonata da ciascuno, non ostante che il figliuolo pupillo fusse sotto la protezione del re di Francia, il quale si scusava di non la aiutare perché si era aderita alla lega fatta alla Magione. Presa Sinigaglia, Valentino andò a Fano; dove poi che fu soprastato qualche dí per mettere insieme tutte le genti sue, fece intendere a Vitellozzo e agli Orsini che il dí seguente voleva andare ad alloggiare in Sinigaglia, e però che allargassino fuori della terra i soldati che erano con loro, i quali alloggiavano dentro: il che subitamente eseguirono, alloggiando le fanterie ne’ borghi della cittá e le genti d’arme distribuendo per il contado. Venne il dí ordinato Valentino a Sinigaglia, al quale si feciono incontro Pagolo Orsino e il duca di Gravina, Vitellozzo e Liverotto da Fermo, e da lui raccolti con grandissime carezze l’accompagnorono insino alla porta della cittá, innanzi alla quale si erano fermate tutte le genti del Valentino in ordinanza. Nel qual luogo volendo essi licenziarsi da lui, per ridursi agli alloggiamenti loro che erano di fuora, insospettiti giá per vedere che avea maggiore gente di quella che credevano avesse, gli ricercò venissino dentro perché aveva di bisogno di ragionare con loro; il che non potendo ricusare, benché con l’animo giá quasi indovino del futuro male, lo seguitorno nel suo alloggiamento, e con lui ritirati in una camera, dopo poche parole, perché, sotto scusa di volere pigliare altre vesti, si partí presto da loro, furono da genti che sopravenneno nella camera fatti tutti a quattro prigioni; e in uno tempo medesimo mandati a svaligiare i loro soldati. E il dí seguente, che fu l’ultimo dí di dicembre, acciò che l’anno mille cinquecento due terminasse in questa tragedia, riservando gli altri in prigione, fece strangolare in una camera Vitellozzo e Liverotto: de’ quali l’uno non aveva potuto fuggire il fato di casa sua, di morire di morte violenta, come erano morti tutti gli altri suoi fratelli, in tempo che avevano giá nell’armi grande esperienza e riputazione, e successivamente l’uno dopo l’altro, secondo l’ordine della etá, Giovanni di uno colpo di artiglieria nel campo che Innocenzio pontefice mandò contro alla cittá di Osimo, Cammillo soldato de’ franzesi di uno sasso intorno a Cercelle, e Pagolo decapitato in Firenze; ma di Liverotto non potette negare alcuno che non avesse fine condegno delle sceleratezze sue, essendo molto giusto che e’ morisse per tradimento chi poco innanzi aveva per tradimento ammazzato crudelissimamente in Fermo, per farsi grande in quella cittá, Giovanni Frangiani suo zio con molti altri de’ cittadini principali di quella terra, avendogli nella casa sua propria condotti a uno convito.
Non accadde in questo anno altra cosa memorabile, eccetto che Lodovico e Federico della famiglia de’ Pichi conti della Mirandola, essendo stati prima cacciati da Giovanfrancesco loro fratello, e pretendendo avervi, con tutto che fusse maggiore di etá, le medesime ragioni che lui, ottenute genti in aiuto loro dal duca di Ferrara, di una sorella naturale del quale erano nati, e da Gianiacopo da Triulzi suocero di Lodovico ne cacciorono per forza il fratello: cosa non tanto degna di memoria per se stessa quanto perché poi, negli anni seguenti, le controversie tra questi fratelli produssono effetti di qualche momento.