Storia d'Italia/Libro I/Capitolo XVII
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XVII
La cittá di Siena, cittá popolosa e di territorio molto fertile, e la quale otteneva in Toscana, giá lungo tempo, il primo luogo di potenza dopo i fiorentini, si governava per se medesima, ma in modo che conosceva piú presto il nome della libertá che gli effetti, perché distratta in molte fazioni o membri di cittadini, chiamati appresso a loro ordini, ubbidiva a quella parte la quale secondo gli accidenti de’ tempi e i favori de’ potentati forestieri era piú potente che l’altre; e allora vi prevaleva l’ordine del Monte de’ nove. In Siena dimorato pochissimi dí, e lasciatavi gente a guardia, perché per essere quella cittá inclinata insino a’ tempi antichi alla divozione dello imperio gli era sospetta, si indirizzò al cammino di Roma; insolente piú l’un dí che l’altro per i successi molto maggiori che non erano giammai state le speranze, e, essendo i tempi benigni e sereni assai piú che non comportava la stagione, deliberato di continuare senza intermissione questa prosperitá, terribile non solo agli inimici manifesti ma a quegli o che erano stati congiunti seco o i quali non l’avevano provocato in cosa alcuna. Perché, e il senato viniziano e il duca di Milano, impauriti di tanto successo, dubitando, massime per le fortezze ritenute de’ fiorentini e per la guardia lasciata in Siena, che i pensieri suoi non terminassino nello acquisto di Napoli, incominciorno per ovviare al pericolo comune a trattare di fare insieme nuova confederazione; e gli arebbono data piú tosto perfezione se le cose di Roma avessino fatto quella resistenza che fu sperato da molti.
Perché la intenzione del duca di Calavria, col quale s’erano unite presso a Roma le genti del pontefice e Verginio Orsino col resto dell’esercito aragonese, fu di fermarsi a Viterbo per impedire a Carlo il passare piú innanzi; invitandolo oltre a molte cagioni l’opportunitá del luogo, circondato dalle terre della Chiesa e propinquo agli stati degli Orsini. Ma tumultuando giá tutto ’l paese di Roma, per le scorrerie che i Colonnesi facevano di lá dal fiume del Tevere e per gl’impedimenti che per mezzo d’Ostia si davano alle vettovaglie, le quali solevano condursi a Roma per mare, non ebbe ardire di fermarvisi: dubitando oltre a questo della mente del pontefice, perché, insino quando intese la variazione di Piero de’ Medici, aveva cominciato a udire le domande franzesi, per le quali andò allora a Roma a parlargli il cardinale Ascanio, essendo andato prima per sicurtá sua il cardinale di Valenza a Marino, terra de’ Colonnesi; e benché Ascanio si partisse senza certa risoluzione, perché nel petto d’Alessandro la diffidenza della mente di Carlo e il timore delle sue forze insieme combattevano, nondimeno come Carlo fu partito di Firenze si ritornò di nuovo a’ ragionamenti dell’accordo, per i quali il pontefice mandò a lui i vescovi di Concordia e di Terni e maestro Graziano suo confessore, trattando di comporre insieme le cose sue e quelle del re Alfonso. Ma era diversa la intenzione di Carlo, risoluto di non concordare se non col pontefice solo: però mandò a lui.. monsignore della Tramoglia e... di Gannai presidente del parlamento di..., e vi andorno per la medesima cagione il cardinale Ascanio e Prospero Colonna; i quali non prima arrivati che Alessandro, quale si fusse la causa, mutato proposito, messe subito il duca di Calavria con tutto l’esercito in Roma, e fatti ritenere Ascanio e Prospero gli fece custodire nella Mole d’Adriano detta giá il Castello di Crescenzio, oggi Castello Sant’Angelo, dimandando loro la restituzione d’Ostia: nel quale tumulto furono dalle genti aragonesi fatti prigioni gli oratori franzesi, ma questi il pontefice fece subito liberare, né molti dí poi fece il medesimo d’Ascanio e di Prospero, costringendogli nondimeno a partirsi da Roma subitamente. Mandò dipoi al re, il quale si era fermato a Nepi, Federigo da San Severino cardinale, cominciando a trattare solamente delle cose proprie; e nondimeno con l’animo molto ambiguo: perché ora di fermarsi alla difesa di Roma deliberava, e però permetteva che Ferdinando e i capitani attendessino ne’ luoghi piú deboli a fortificarla; ora parendogli cosa difficile il sostenerla, per essere le vettovaglie marittime da quegli che erano in Ostia interrotte e per il numero infinito di forestieri pieni di varie volontá e per la diversitá delle fazioni tra i romani, inclinava a partirsi di Roma, e però aveva voluto che nel collegio ciascuno de’ cardinali gli promettesse per scrittura di mano propria di seguitarlo; ora, spaventato dalle difficoltá e da’ pericoli imminenti a qualunque di queste deliberazioni, voltava l’animo all’accordo. Nelle quali ambiguitá mentre che sta sospeso i franzesi correvano di qua dal Tevere tutto il paese, occupando ora una terra ora un’altra, perché non si trovava piú luogo niuno che resistesse, niuno piú che non cedesse all’impeto loro; seguitando l’esempio degli altri insino a quegli che avevano cagioni grandissime di opporsi, insino a Verginio Orsino, astretto con tanti vincoli di fede d’obligazione e d’onore alla casa d’Aragona, capitano generale dell’esercito regio, gran conestabile del regno di Napoli, congiunto a Alfonso con parentado molto stretto, perché a Gian Giordano suo figliuolo era maritata una figliuola naturale di Ferdinando re morto, e che da loro aveva ricevuto stati nel reame tanti favori. Dimenticatosi di tutte queste cose, né meno dimenticatosi che dagli interessi suoi le calamitá aragonesi avevano avuto la prima origine, consentí, con ammirazione de’ franzesi non assueti a queste sottili distinzioni de’ soldati d’Italia, che restando agli stipendi del re di Napoli la sua persona, i figliuoli convenissino col re di Francia; obligandosi dargli, nello stato teneva nel dominio della Chiesa, ricetto passo e vettovaglie, e dipositare Campagnano e certe altre terre in mano del cardinale Gurgense, che promettesse restituirle subito che l’esercito fusse uscito dal territorio romano: e nel medesimo modo convennono congiuntamente il conte di Pitigliano e gli altri della famiglia Orsina. Il quale accordo come fu fatto, Carlo andò da Nepi a Bracciano, terra principale di Verginio, e a Ostia mandò Luigi monsignore di Ligní e Ivo monsignore di Allegri con cinquecento lancie e con dumila svizzeri, acciocché passando il Tevere e uniti coi Colonnesi che correvano per tutto, si sforzassino d’entrare in Roma; i quali per mezzo de’ romani della fazione loro speravano a ogni modo di conseguirlo, con tutto che per i tempi diventati sinistri le difficoltá fussino accresciute. Giá Civitavecchia, Corneto e finalmente quasi tutto il territorio di Roma era ridotto alla divozione franzese; giá tutta la corte, giá tutto il popolo romano, in grandissima sollevazione e terrore, chiamavano ardentemente la concordia: però il pontefice, ridotto in pericolosissimo frangente e vedendo mancare continuamente i fondamenti del difendersi, non si riteneva per altro che per la memoria di essere stato de’ primi a incitare il re alle cose di Napoli, e dipoi, senza essergliene stata data cagione alcuna, avere con l’autoritá co’ consigli e con l’armi fattagli pertinace resistenza; onde meritamente dubitava dovere essere del medesimo valore la fede che e’ ricevesse dal re che quella che il re aveva ricevuta da lui. Accresceva il terrore il vedergli appresso con autoritá non piccola il cardinale di San Piero in Vincola e molti altri cardinali inimici suoi; per le persuasioni de’ quali, per il nome cristianissimo de’ re di Francia, per la fama inveterata della religione di quella nazione, e per l’espettazione, che è sempre maggiore, di quegli che sono noti per nome solo, temeva che ’l re non voltasse l’animo a riformare, come giá cominciava a divulgarsi, le cose della Chiesa: pensiero a lui sopra modo terribile, che si ricordava con quanta infamia fusse asceso al pontificato, e averlo continuamente amministrato con costumi e con arti non disformi da principio tanto brutto. Alleggerissi questo sospetto per la diligenza e efficaci promesse del re, il quale desiderando sopra ogni cosa accelerare l’andata sua al regno di Napoli, e però non pretermettendo opera alcuna per rimuoversi l’impedimento del pontefice, gli mandò di nuovo imbasciadori il siniscalco di Belcari, il marisciallo di Gies e il medesimo presidente di Gannai: i quali, sforzandosi di persuadergli non essere l’intenzione del re di mescolarsi in quello che apparteneva all’autoritá pontificale né domandargli se non quanto fusse necessario alla sicurtá del passare innanzi, feciono instanza che e’ consentisse al re l’entrare in Roma; affermando questo essere sommamente desiderato da lui, non perché e’ non fusse in sua potestá l’entrarvi con l’armi ma per non essere necessitato di mancare a lui di quella riverenza la quale avevano a’ pontefici romani portata sempre i suoi maggiori; e che, subito che il re fusse entrato in Roma, le differenze state tra loro si convertirebbono in sincerissima benivolenza e congiunzione. Dure condizioni parevano al pontefice spogliarsi innanzi a ogni cosa degli aiuti degli amici, e rimettendosi totalmente in potestá dello inimico riceverlo prima in Roma che stabilire seco le cose sue; ma finalmente, giudicando che di tutti i pericoli questo fusse il minore, consentite queste dimande, fece partire di Roma il duca di Calavria col suo esercito, ma ottenuto prima per lui salvocondotto da Carlo perché sicuramente potesse passare per tutto lo stato ecclesiastico. Ma Ferdinando, avendolo magnanimamente rifiutato, uscí di Roma per la porta di San Sebastiano, l’ultimo dí dell’anno mille quattrocento novantaquattro, nell’ora propria che per la porta di Santa Maria del popolo vi entrava con l’esercito franzese il re, armato, con la lancia in sulla coscia, come era entrato in Firenze; e nel tempo medesimo il pontefice, pieno di incredibile timore e ansietá, si era ritirato in Castel Sant’Angelo, non accompagnato da altri cardinali che da Batista Orsino e da Ulivieri Caraffa napoletano. Ma il Vincola, Ascanio, i cardinali Colonnese e Savello e molt’altri non cessavano di fare instanza col re, che rimosso di quella sedia uno pontefice pieno di tanti vizi e abominevole a tutto ’l mondo se ne eleggesse un altro, dimostrandogli non essere meno glorioso al nome suo liberare dalla tirannide d’uno papa scelerato la Chiesa d’Iddio che fusse stato a Pipino e a Carlo magno suoi antecessori liberare i pontefici di santa vita dalle persecuzioni di coloro che ingiustamente gli opprimevano. Ricordavangli questa deliberazione essere non manco necessaria per la sicurtá sua che desiderabile per la gloria: perché, come potrebbe mai confidarsi nelle promesse di Alessandro, uomo per natura pieno di fraude, insaziabile nelle cupiditá, sfacciatissimo in tutte le sue azioni e, come aveva dimostrato l’esperienza, di ardentissimo odio contro al nome franzese? né che ora si riconciliava spontaneamente ma sforzato dalla necessitá e dal timore? Per i conforti de’ quali e perché il pontefice, nelle condizioni che si trattavano, recusava di concedere a Carlo Castel Sant’Angelo per assicurarlo di quello gli promettesse, furono due volte cavate l’artiglierie del palagio di San Marco, nel quale Carlo alloggiava, per piantarle intorno al castello. Ma né il re aveva per sua natura inclinazione a offendere il pontefice, e nel consiglio suo piú intimo potevano quegli i quali Alessandro con doni e con speranze s’aveva fatti benevoli. Però finalmente convennono: che tra ’l pontefice e il re fusse amicizia perpetua e confederazione per la difesa comune: che al re per sua sicurezza si dessino, per tenerle insino all’acquisto del reame di Napoli, le rocche di Civitavecchia, di Terracina e di Spuleto; benché questa non gli fu poi consegnata: non riconoscesse il pontefice offesa o ingiuria alcuna contro a cardinali, né contro a’ baroni sudditi della Chiesa, i quali aveano seguitato le parti del re: investisselo il pontefice del regno di Napoli: concedessegli Gemin ottomanno fratello di Baiset, il quale dopo la morte di Maumet padre comune, perseguitato da Baiset (secondo la consuetudine efferata degli ottomanni, i quali stabiliscono la successione nel principato col sangue de’ fratelli e di tutti i piú prossimi) e perciò rifuggito a Rodi e di quivi condotto in Francia, era finalmente stato messo in potestá di Innocenzio pontefice; donde Baiset, usando l’avarizia de’ vicari di Cristo per instrumento a tenere in pace lo imperio inimico alla fede cristiana, pagava ciascun anno, sotto nome delle spese che si facevano in alimentarlo e custodirlo, ducati quarantamila a’ pontefici, acciocché fussino manco pronti a liberarlo o a concederlo a altri príncipi contro a sé. Fece instanza Carlo d’averlo per facilitarsi col mezzo suo l’impresa contro a’ turchi, la quale, enfiato da vane adulazioni de’ suoi, pensava, vinti che avesse gli aragonesi, di incominciare. E perché gli ultimi quarantamila ducati mandati dal turco erano stati tolti a Sinigaglia dal prefetto di Roma, che il pontefice e la pena e la restituzione di essi gli rimettesse. A queste cose si aggiunse che ’l cardinale di Valenza seguitasse, come legato apostolico, tre mesi, il re, ma in veritá per statico delle promesse paterne. Fermata la concordia, il pontefice ritornò al palagio pontificale in Vaticano; e da poi, con la pompa e cerimonie consuete a ricevere i re grandi, ricevé il re nella chiesa di San Piero; il quale, avendogli, secondo il costume antico, genuflesso baciati i piedi e dipoi ammesso a baciargli il volto, intervenne un altro giorno alla messa pontificale, sedendo il primo dopo il primo vescovo cardinale; e secondo il rito antico dette al papa, celebrante la messa, l’acqua alle mani. Delle quali cerimonie il pontefice, perché si conservassino nella memoria de’ posteri, fece fare pittura in una loggia del Castello di Santo Angelo. Publicò di piú a instanza sua cardinali il vescovo di San Malò e il vescovo di Umans della casa di Luzimborgo, né omesse dimostrazione alcuna d’essersi seco sinceramente e fedelmente reconciliato.