Sotto il velame/Le rovine e il gran veglio/IV
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IV.
Ma l’Acheronte? L’Acheronte è il primo fiume, o il principio del fiume, che deriva da quella fessura la quale comincia dove finisce l’oro dell’innocenza o della originale giustizia.
Continuando giù per l’inferno il suo corso, e si fa Stige e Flegetonte e Cocito, e cambia aspetto e natura, e diventa fango e sangue e ghiaccio, e cambia luogo, e scorre, per così dire, nella disposizione d’incontinenza e in quella di violenza o bestialità e in quella di frode; e queste tre disposizioni sono le tre specie del peccato attuale, come le tre fiere sono del peccato attuale i tre simboli. E il passo d’Acheronte risponde al passo della selva; e la selva che pur continua dopo il passo, è il simbolo del peccato originale. Come non anche l’Acheronte sarà questo simbolo? Come non questo fiume col peccato originale sarà nella relazione, in cui gli altri tre, ossia il suo corso ulteriore dal triplice nome, aspetto, luogo, uffizio, sono col peccato attuale?
Non occorre ripetere gli argomenti addotti nè addurne di nuovi, mi pare. Come il peccato originale non è passibile di più o meno, perchè è tutto il peccato dell’uomo ed è causa di tutti gli altri peccati; come il peccato originale è la fonte del peccato attuale; così l’Acheronte continua per tutto l’inferno, cambiando solo nome e aspetto e luogo e uffizio, ma rimanendo sempre quello sgocciolio di lagrime che sgorga dalla fessura del gran veglio: dalla fessura che comincia dove l’innocenza o la originale giustizia finisce.1 E l’Acheronte sta in rapporto con la porta senza serrame, come gli altri tre fiumi, con le tre rovine; i quali quattro fatti sono causati tutti e quattro dalla morte e dalla discesa agl’inferi del Redentore.
Abbiamo veduto che, vivi e morti, tutti entrano e possono entrare dalla porta “lo cui sogliare a nessuno è negato„:2 a nessuno, vivo o morto che sia. Ma c’è una differenza. Lo sogliare è concesso anche ai vivi, sol da quando fu disserrata la porta e lasciata dischiusa. Prima non potevano entrare se non i morti. I diavoli aprivano. Solo a uno non vollero aprire: al Redentore, che in verità non era morto, per loro. Ma egli, il Possente, si aprì il varco. Da allora dunque i vivi possono entrare. A qual condizione? Che vogliano. Devono volere. Prima di quella apertura, non potevano volere. La porta era chiusa; l’arbitrio non era libero. Or dunque gli uomini possono volere. Ma non tutti vogliono. E allora, quando muoiono della morte corporale, entrano sì, perchè sono corporalmente morti, ma non possono avanzare oltre. Perchè? Perchè l’Acheronte sbarra loro il passo. L’Acheronte non si passa se non da chi muoia alla seconda morte, se è vivo, o da chi muoia della seconda morte, se è morto. Che cosa è dunque l’Acheronte? Il vivo che è entrato dalla porta, può continuare il suo viaggio e passar l’Acheronte. Da chi e da che gli è dato questo passo? La prima condizione è che egli sia entrato. È entrato, perchè la porta è aperta. Dal Redentore fu la porta lasciata senza serrame. Senza, dunque, la rottura della porta, vano sarebbe il voler passar l’Acheronte vivendo e per vivere. Insomma e l’entrar dalla porta e il passar l’Acheronte è, per i viventi, opera della Redenzione; della Redenzione, che appunto cancellò il peccato originale. È dunque l’Acheronte il peccato dei primi parenti? Non proprio. Il peccato originale è la fessura del gran veglio la quale comincia dove l’oro finisce. Che è dunque il fiume che ne deriva? La morte che deriva dal peccato originale. E la rottura della porta dice, rispetto ad essa, che, fin che vive, da che il Cristo è venuto, ognuno può volere la morte a quella morte, ossia passar l’Acheronte. Chi non vuole da vivo, non può da morto. Gli ignavi restano e Dante passa.
Questa morte è la tenebra.
L’acqua d’Acheronte è livida, senza riflessi, bruna. Chi passa, da vivo, acquista la luce o la prudenza; e si trova tra quelli che di luce e di prudenza furono privi; che non ebbero altro reo che un difetto. Il quale come si chiama da S. Tommaso? Ignoranza. Ignoranza quella di Virgilio? di Aristotele e di Plato? “Lume non è se non vien dal sereno: anzi è tenebra„. E da quali si diparte, chi passa l’Acheronte? Da quelli che non vollero entrare, vivendo, dalla porta aperta, dalla quale, morti, non possono uscire; da quelli che non vollero morire alla morte e perciò non possono ora morire della seconda morte. Il loro difetto di volere, il loro rifiuto di servirsi di ciò che era stato loro reso libero, è simile alla colpa di quelli in cui “l’irascibile fu destituito del suo ordine all’arduo„: si chiama quindi infirmitas. È colpa, dunque, pari a quella dei fitti nel fango? Non uguale, ma simile. Non uguale, perchè quale arduo è una porta aperta? Che ci voleva per salvarsi, a codesti ignavi, che non avevano avanti a sè fiere verune? che non avevano impedimento nè nelle passioni nè nei tumulti esteriori? C’è tra loro
l’ombra di colui
che fece per viltate il gran rifiuto.
Chi sia, Dante non dice; ma chiaramente ci dice ch’egli rifiutò di far cosa che poteva fare senza alcun suo pericolo, senza alcun suo danno, e con sommo suo onore e vantaggio. Quindi è da lasciar da parte, anche per questa ragione, il santo eremita Pietro da Morrone. La viltà, la ignavia, la sciaurataggine delle ombre del vestibolo è un’infirmitas totale; come totale è la ignoranza dei sospesi nel limbo. E questi e quelli sono tra loro riposti a tal norma: che i primi ebbero quella totale infirmitas, non ostante che non avessero punto d’ignorantia; i secondi questa totalmente, sebbene quella niente affatto. Insomma gli ignavi e i sospesi rappresentano gli effetti puri e semplici del peccato originale, in sè e per sè, senza adiezione del peccato attuale, di cui esso è pur fomite. E questi due effetti Dante trovò in S. Agostino o lesse riportati nella Somma, in quell’articolo in cui erano le quattro piaghe di Beda3. Sono l’ignoranza e la difficoltà, da cui nasce l’errore e il tormento (cruciatus). Nel che si può vedere il perchè dei mosconi e delle vespe. Or nè l’una nè l’altra possono addursi a scusa dei peccati che ne derivano, poichè4 “Dio ci diede facoltà (opposto a difficultas) nei laboriosi uffizi, e la via della fede nella cecità dell’oblìo„. Or Dante pose nel vestibolo quelli che non usarono la facoltà, non dico di bene operare, ma di operare, vinti dalla difficoltà conseguente al peccato originale, e nel limbo quelli che non seguirono la via della fede, acciecati dall’ignoranza pur conseguente al peccato originale.
Note
- ↑ Summa 1a 2ae 82, 2. Il peccato originale si pone anche al numero plurale, «o perchè in esso virtualmente preesistono tutti i peccati attuali, come in un cotal principio; ond’è molteplice in potenza; o perchè nel peccato del primo parente, che si trasmette per l’origine, furono più deformità, come a dire, della superbia, della disobbedienza, della gola, e altrettali; o perchè molte parti dell’anima sono infettate mediante il peccato originale».
- ↑ Inf. XIV 87.
- ↑ Summa 1a 2ae 85, 3. E vedi, oltre le opere ivi richiamate di Aur. Aug., anche quella, che Dante è quasi certo che conoscesse direttamente: De libero arbitrio III 19.
- ↑ Aur. Aug. de lib. arb. III 57.