Sotto il velame/Il passaggio dell'Acheronte/III

Il passaggio dell'Acheronte - III

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Il passaggio dell'Acheronte - III
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III.


Ma se si vede ancora lo dolce lume, sì, quel passo, che è vera morte, si può passare col medesimo effetto di chi passa la selva, cioè di vivere la vera vita. E come? L’ho detto. Il varco dell’Acheronte conserva la sua natura: il varco dell’Acheronte è morte sì per chi è vivo e sì per chi è morto; ma [p. 83 modifica]per chi lo passa morto, è seconda morte; per chi lo passa vivente, seconda morte non può essere, perchè non è seconda morte dove non è la prima. Dunque per chi lo passa vivente, l’alto passo è morte prima, non seconda. Ma poichè l’uomo che passa, è forma d’ossa e di polpe sì di là e sì di qua del passo, questa prima morte è mistica, non reale. È la morte per cui si resta vivi, anzi per cui si rivive e si rinasce. Il passo dell’Acheronte è dunque simile in tutto al passo della selva, per uno che abbia seco di quel di Adamo. E per trovare questo passo, l’uomo, come ebbe nella selva lo splendore della luna piena, che si faceva strada tra i pruni, così qui nel vestibolo ha un fioco lume.

Donde quel lume? Il quale ragionevolmente dobbiamo supporre fioco non per fievolezza del luminare, che nella selva è la luna piena, quand’ella diametralmente contempla il suo fratello; ma per l’impedimento del luogo stesso, dove quel lume penetra a stento; del luogo stesso che lassù è una selva selvaggia e quaggiù è l’inferno. Sceso invero Dante al primo cerchio, trova tenebre perfette. Virgilio dice:1

               Or discendiam laggiu nel cieco mondo...

Egli lo guiderà, perchè pratico del luogo, pur tra l’oscurità. Or se il vestibolo ha luce, ciò avverrà per qualche causa di fuori, non ostante la tenebra propria del luogo stesso. Quale questa causa?

Una porta è spalancata sul vestibolo. I suoi [p. 84 modifica]serrami sono infranti. È aperta e non si può più chiudere.2 Chi la spalancò, rompendone i serrami, fu il Cristo redentore. Virgilio lo vide. Egli era da poco nel limbo, quando ci vide venire3

                                             un possente
               con segno di vittoria incoronato.

I caduti dal cielo avevano negato il passo: egli aveva rotto i serrami. Ed era entrato e aveva passato l’Acheronte. Quelli che in lui venturo avevano creduto, furono liberi. E libero d’allora in poi fu il volere, e si riaprì la fonte del meritare. Poco prima della morte del Cristo, avvenne un terremoto, per il quale si fecero riversi nell’inferno.4 Poco dopo la porta si apriva. E aperta rimase.

Che fu la morte del Cristo? L’abbiamo già visto: fu il nostro battesimo. Nella sua morte noi siamo battezzati. Noi morimmo alla morte o al peccato, nella morte di lui. E così si può dire, al peccato e alla morte generalmente; e non al peccato originale; perchè prima di quell’ultimo alito del Dio uomo, alito preceduto da riversi nell’inferno e seguito dalla rottura della porta, prima di quell’ultimo alito il peccato originale era il peccato. Era il peccato che conduceva a tutti i peccati e tutti virtualmente li conteneva e contiene.5 Dante esprime questo pensamento, dicendo che i patriarchi e tutti quelli del limbo, erano allora preda di Dite; il quale, dopo, non dominò sin lassù, ma soltanto in quella città che ha appunto nome Dite6 da lui. Esso Dite, a simiglianza di Dio, [p. 85 modifica]forse, che “in tutte parti impera e quivi„ cioè nel paradiso “regge„, è bensì “l’imperator del doloroso regno„, ma “regge„ solo in quella città che ha la sua porta più “segreta„ che quella dell’inferno tutto.7 Or prima della morte del Cristo, reggeva anche nel limbo: tanto è vero che a contrastare il passo al possente, dietro la porta dell’inferno tutto, erano i piovuti del cielo; i quali, poi, furono confinati dentro quella città dalla porta più segreta. Il “grande stuolo„8 soltanto là si può vedere, soltanto di là cominciò Dante a vederlo. Di che, altrove. Qui riconosciamo che la rottura della porta e il passo dell’Acheronte, per opera del Redentore, significano appunto il battesimo, che noi avemmo nella sua morte, del quale primi goderono quelli che crederono nel Cristo venturo, e conobbero quindi subito il frutto della croce. E la porta che rimase aperta simboleggia appunto il volere che rimase libero. Dante prende a Virgilio l’idea della porta spalancata notte e giorno, e la fonde con l’altra cristiana, che il Cristo ruppe le porte d’inferno.9 Ma la porta Virgiliana significa, col suo essere aperta sempre, che notte e giorno si può morire; e la porta Dantesca, per essere senza serrame, significa che sempre, da quando i serrami furono rotti, l’uomo può salvarsi.

Eppure una porta aperta, se un senso ha da avere, parrebbe dovesse aver questo, che chi vuole può entrare, e che ognuno può entrare; e quella dell’inferno, dunque, col suo essere aperta, che ognuno [p. 86 modifica]può andare all’inferno, se vuole. Ma no. Prima che i serrami cadessero, ognuno, volesse o no, morendo andava all’inferno; ognuno, anche i credenti nella futura incarnazione e passione di Dio. Questa necessità ruppe il Redentore, e subito liberò quei credenti e d’allora in poi tutti i credenti. Dunque la rottura della porta significa appunto lo infrangimento di quella necessità. Ma non è men vero che, se la necessità della morte è infranta, resta intera la possibilità di essa. Ora è questa possibilità simboleggiata anch’essa nella porta aperta? Non crederei. Se ciò fosse, poichè la possibilità della morte esisteva, e come, con la necessità, poichè prima della discesa del Cristo tutti gli uomini potevano dannarsi, tanto è vero che tutti si dannavano; se ciò fosse, la porta dell’inferno anche prima della discesa del Cristo doveva essere aperta. E invece no, era serrata. Se i libri sacri dicono che Gesù ruppe quella porta, dicono che era chiusa. E il grande mitografo del misticismo e della scolastica, Dante, ci pone sotto l’occhio, come è suo costume, questo concetto che pure i libri sacri esprimono con un’imagine.

In vero Dante quel primo dramma, della resistenza de’ piovuti dal cielo al figlio di Dio, ce lo richiama con l’altro dramma, della loro resistenza a Virgilio e poi al Messo del cielo. Di ciò che allora successe, egli ci dà notizia con quello che succede ora. Quello che qui vediamo, alla difensione della porta più segreta, Dante vuole che noi vediamo a quella della men segreta. Dice Virgilio:10

                                        io vincerò la prova,
               qual ch’alla difension dentro s’aggiri

[p. 87 modifica](non si tratta dei serrami fatti girare nei loro anelli? non si tratta dei ritegni, che, come dice poi, non valsero11 contro la verghetta, del Messo del cielo? ma ciò poco monta). Séguita Virgilio:

               Questa lor tracotanza non è nuova,
               chè già l’usaro a men segreta porta,
               la qual senza serrame ancor si trova.

               Sovr’essa vedestù la scritta morta.

Ora se la tracotanza usata alla porta di Dite fu tale, che i diavoli chiudessero la porta che prima era aperta, noi dobbiamo credere che simile fosse quella usata alla porta d’inferno, e che similmente questa fosse prima aperta; se no, altrimenti. Ebbene tutto mena a credere che la porta di Dite sia concepita da Dante come chiusa. Dite è una citta murata e afforzata: come starebbe a porta sempre aperta? No: c’è alcuno sempre in veletta. Su un’alta torre c’è qualcuno che segna con due fiammette12 l’appressarsi di qualcuno. Un’altra rende cenno di lontano. Sono quelli il segno per il barcaiuolo, che vada a imbarcar dannati. Non altro? Anche altro; perchè poi Dante e il suo duca, sbarcando, si trovano avanti13

                                  più di mille in sulle porte
               da’ ciel piovuti, che stizzosamente
               dicean: Chi è costui, che senza morte

               va per lo regno della morta gente?

[p. 88 modifica]Dante è breve, ma chiaro. Il segno ha avvertito anche la custodia della porta, perchè sia pronta ad aprire. I custodi hanno aperto, hanno guardato, hanno visto che un de’ due che Flegias ha recati, è vivo. Sono allora accorsi diavoli in frotta, a veder la novità forse minacciosa per loro. Come sanno da Virgilio ciò ch’a lor si porse, subito tutti rientrano, ricorrono14 dentro, e chiudono, e serrano. Erano corsi fuori, ricorrono dentro; avevano aperto, chiudono. Così mi pare. E poi Dante qui ha il pensiero nella filosofia cristiana, ma l’occhio nella visione Virgiliana. La porta dell’interno Averno è in Virgilio aperta notte e giorno, ma quella del Tartaro è chiusa, e grande, e con stipiti di ferro che nè uomini nè Dei possano infrangere:15 si apre solo quando il reo ha subìto il giudizio di Radamanto e il flagello di Tisifone.

E in Dante, come chiusa è la porta di Dite, così chiusa doveva essere l’altra, quella dell’inferno totale. Non era questa, prima della discesa di Gesù, equivalente a quella? Dite non reggeva ancor lassù? il grande stuolo non era a quella porta men segreta? E aprivano, via via, a chi si presentava. E dunque la porta chiusa è simbolo di dannazione e di morte e di servitù e di peccato, e la porta aperta e lasciata senza serrami, sì che non può più chiudersi, è simbolo di redenzione e di battesimo e di salvazione e di libertà.

Pure anche qui distinguiamo. Per uno che beva ancora la luce, è segno di redenzione; per chi è [p. 89 modifica]corporalmente morto, è segno sì di redenzione, ma della redenzione che fu vana per lui. La porta è spalancata, ma su vi è la scritta di morte:

               lasciate ogni speranza o voi ch’entrate!

E gli sciaurati corrono corrono dietro la rapida insegna che è la croce, smaniosi d’ogni altra sorte; sì della seconda morte che avrebbero, se passassero l’Acheronte; sì della seconda vita, che avrebbero se potessero uscire dalla porta. E la porta è spalancata, ed essi non possono attraversarla, e stridono disperatamente. Quel fioco lume che entra dalla porta aperta è il loro più grande tormento. Bene Virgilio annunzia a Dante quelle disperate strida, bene il Poeta le descrive con una forza che sarebbe strana per noi, se non pensassimo che nel vestibolo più che altrove doveva aver luogo la disperazione; avanti quella porta che invano è spalancata e invano fu rotta. Tutti i dannati potevano salvarsi; meno di tutti quelli del limbo, più di tutti questi del vestibolo. Che dovevano fare? Al male non si condussero. Il male non li tentò. Dunque? Oh! i rifiuti della vita e della morte! Non possono passar l’Acheronte, perchè sono ancor misticamente vivi; non possono attraversare la porta, perchè sono corporalmente morti.16

Note

  1. Inf. IV 13.
  2. Inf. VIII 125 segg.
  3. Inf. IV 52 segg.
  4. Inf. XII 37 segg.
  5. Concetto comune. Vedi Summa 1a 2ae 82, 2.
  6. Cfr. Inf. XII 39 e VIII 68 e segg.
  7. Inf. I 127, XXXIV 28, VIII 125.
  8. Inf. VIII 69.
  9. Aen. VI 127: Noctes atque dies patet atri ianna Ditis.
  10. Inf. VIII 122 segg.
  11. Inf. IX 89 seg.

                             con una verghetta
         l’aperse, che non ebbe alcun ritegno.

  12. Inf. VIII 2 segg.
  13. ib. 82.
  14. Inf. VIII 118: ciascuno dentro a prova si ricorse.
  15. Aen. VI 552 sgg. 573.
  16. V. più avanti «Le tre rovine».