Pagina:Sotto il velame.djvu/107


il passaggio dell'acheronte 85

forse, che “in tutte parti impera e quivi„ cioè nel paradiso “regge„, è bensì “l’imperator del doloroso regno„, ma “regge„ solo in quella città che ha la sua porta più “segreta„ che quella dell’inferno tutto.1 Or prima della morte del Cristo, reggeva anche nel limbo: tanto è vero che a contrastare il passo al possente, dietro la porta dell’inferno tutto, erano i piovuti del cielo; i quali, poi, furono confinati dentro quella città dalla porta più segreta. Il “grande stuolo„2 soltanto là si può vedere, soltanto di là cominciò Dante a vederlo. Di che, altrove. Qui riconosciamo che la rottura della porta e il passo dell’Acheronte, per opera del Redentore, significano appunto il battesimo, che noi avemmo nella sua morte, del quale primi goderono quelli che crederono nel Cristo venturo, e conobbero quindi subito il frutto della croce. E la porta che rimase aperta simboleggia appunto il volere che rimase libero. Dante prende a Virgilio l’idea della porta spalancata notte e giorno, e la fonde con l’altra cristiana, che il Cristo ruppe le porte d’inferno.3 Ma la porta Virgiliana significa, col suo essere aperta sempre, che notte e giorno si può morire; e la porta Dantesca, per essere senza serrame, significa che sempre, da quando i serrami furono rotti, l’uomo può salvarsi.

Eppure una porta aperta, se un senso ha da avere, parrebbe dovesse aver questo, che chi vuole può entrare, e che ognuno può entrare; e quella dell’inferno, dunque, col suo essere aperta, che ognuno

  1. Inf. I 127, XXXIV 28, VIII 125.
  2. Inf. VIII 69.
  3. Aen. VI 127: Noctes atque dies patet atri ianna Ditis.