Sorella di Messalina/Parte quarta/XX
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XX.
Alberto spalancò la porta dello studio e sostò sul limitare: gli mancava il respiro; il cuore gli martellava scotendolo dalla testa ai piedi ad ogni pulsazione.
Si guardò intorno nella grande stanza vividamente illuminata: era deserta.
Con rapido passo traversò lo studio andando verso la porta chiusa della sua camera da letto. Colla mano già sulla portiera che la drappeggiava, sostò: sulla tavola aveva scorto una lettera — una busta senza indirizzo — un quadrato bianco sul rosso cupo del tappeto.
Quel quadrato bianco gli fermò lo sguardo repentinamente con una forza ipnotizzante.
I ginocchi gli tremarono: sentì che in quell’istante nella sua vita avveniva un cambiamento: gli parve che immediatamente dietro a lui sprofondasse il suo passato; che immediatamente dinanzi a lui l’avvenire si spalancasse in una voragine; ed egli, ritto sullo stretto orlo tra quei due abissi, barcollò come colto da vertigine.
Andò alla tavola, prese la lettera: l’aprì.
I lunghi caratteri inclinati danzarono confusi un istante davanti ai suoi occhi, poi si fermarono, si fissarono.
Egli lesse:
«Amor mio,
«Quando leggerai queste righe io ti sarò vicina... ma pur lontana; tanto lontana che la tua voce non potrà più giungere fino a me; nè mai, nè mai mi potrai più richiamare.
«Leggendo questo avrai un sussulto — di stupore? d’ira? di disperazione?
«Che importa? L’irrevocabile sarà compiuto.
«E tu dopo lo strazio del primo momento, delle prime ore, dei primi giorni ritroverai la calma, riprenderai a vivere più sereno e più tranquillo; ed io sarò nel tuo ricordo null’altro che un episodio vago e lontano.
«Tu avrai parlato con Adriano; saprai tutto. Ti avrà detto che fui io, io a spingerlo a quell’atto indicibile e spaventoso. E avrai orrore di me.
«Forse se io ti parlassi — colle tue mani nelle mie mani, coi miei occhi nei tuoi — potrei attenuare la mia colpa, convincerti che in quel tragico fatto fui più sventurata che malvagia, più aberrata che abominevole.
«Ma io non ho il coraggio di affrontare una spiegazione burrascosa con te. Un’improvvisa immensa stanchezza mi assale, un desiderio di sfuggire a tutte le spiegazioni e a tutte le burrasche.
«E il pensiero del tuo imminente ritorno afforza e affretta il mio proposito.
«Là nella tua camera, sui tuoi guanciali, dove tante volte mi hai sognata, stasera mi ritroverai.
«Ma non aprire, non aprire ancora la porta! Leggi prima; leggi e comprendi!...
«E perdona.
«Io sento che non ho più nulla da domandare alla vita; e non ho più nulla da domandare a te. Entrambi mi avete dato tutto ciò che potevo chiedere.
«Ora basta. Tutto ha una fine. Anche la mia sete di sconfinate passioni, di travolgenti ebbrezze.
«La coppa dei miei desiderî è vuota.
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«Ricordi l’idea d’un quadro che un giorno ti suggerii e che tu non volesti dipingere? Si doveva intitolare: «La Riluttante». E raffigurava uno spaventoso Vecchio — calmo e inesorabile, colla clessidra e la falce — che teneva per mano una Donna, trascinandola verso la nubilosa vallata della Morte.
«Ebbene, quel bieco Vegliardo mi ha raggiunta; mi ha afferrata, mi trae con sè; ed io non mi posso fermare.
«A me nemico, a te consolatore — il Tempo urge ed incalza. A te reca il balsamo per tutte le ferite, a me porta ogni ora una ferita nuova. Te spinge alle soleggiate vette della gloria e della felicità, me trascina nelle gelide nebbie del crepuscolo. Te innalza; me soffoca e atterra.
«Per me, o mio amante, la falce s’abbassa. La clessidra si vuota.
«La clessidra che si vuota!... È un pezzo che l’ho sempre davanti agli occhi quella visione! È un pezzo che guardo, terrorizzata, la sabbia che scorre e fugge e cala; i giorni, le ore, i minuti che precipitano nel nulla, irrichiamabili, perduti.
«La clessidra che si vuota!
«Tu, mio diletto, non la vedi. Tu hai sugli occhi la benda meravigliosa e abbagliante della gioventù.
«E perciò tu non hai capito — non potevi capire — le mie angoscie, le mie frenesie... la mia fretta! Non capivi perchè io volessi da te in un solo istante, in un unico abbraccio, l’eternità e l’infinito. Ti pareva morboso e folle che io smaniassi così.
«E anche ora griderai: — Perchè? Perchè, se tu m’ami ed io ti amo, mi vuoi lasciare?
«È vero, è vero; oggi tu m’ami. Oggi io ti ho, ti tengo, ti posseggo — più profondamente forse di quanto tu stesso imagini! Ma so che questo non può essere eterno: ed io — come quelli che si uccidono per paura di morire — ti lascio per la paura di perderti.
«Sì; oggi sei mio. Tu, senza saperlo, cammini con me sull’orlo della Grande Tragedia; basterebbe una lieve spinta della mia mano, una leggera folata di ebbrezza, perchè anche tu precipitassi nel baratro, in quel baratro in cui altri già sparvero.
«Tu, o mio diletto, sfiori il «dramma passionale», il volgare dramma a forti tinte di cui, nella tua balda e sana giovinezza, hai sempre sorriso con scettica incredulità. Se restassimo insieme verrebbe il giorno in cui ti vedrei venirmi incontro con la folgore magnifica del delitto negli occhi: tu mi recheresti nella tua mano — dono portentoso! — il nero fiore della Morte.
«Ma questo io non voglio. Tu non devi perderti per me. Abbastanza ho sofferto e fatto soffrire. Io ti risparmio e ti salvo.
«Perciò ti lascio.
«Io sarò stata per te la Donna che passa e sparisce — la Tragedia che ti ha sfiorato e che ti lascia incolume.
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«O mio diletto, addio!»