Sonetti romaneschi/Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola/I
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I.
Se è discutibile l’opinione, diffusa quasi come il nome di Pasquino, che il popolo della Roma papale fosse addirittura il più satirico del mondo, non può tuttavia mettersi in dubbio che fosse uno dei più satirici, come, anzi perchè il Governo de’ Papi era uno dei più cattivi.
“Ognun vede„ (io scrivevo nella mia vecchia Prefazione al Belli, che rifonderò qui correggendola e ampliandola, ma della quale mi tengo ancora onorato, perchè fu la prima parola intorno al grande poeta, e fu insieme una pagina di quella difettosa ma santa letteratura patriottica che mirava ad aprirci le porte della nostra Capitale), “ognun vede quanto propizio terreno sia Roma per la satira, dove essa ha un doppio bersaglio: il dispotismo politico e quello religioso. Il lusso smodato della corte; i privilegi, gli abusi, l’ignoranza di quell’immoralissimo governo; i birri, le spie, la censura, il servidorame, l’intolleranza politica e religiosa, il concubinato di tanta parte del clero, la feroce persecuzione contro ogni libera idea, l’aborrimento d’ogni cosa nuova, benchè utile e ragionevole, sono altrettanti argomenti che si presentano da sè al poeta satirico. E infatti a Roma si nasce, per dir così, con l’epigramma sulle labbra. Il trasteverino non sa leggere, ma sa farvi una satira. E solo chi conosce il popolo di Roma, può avere un giusto concetto di quel garbo tutto romanesco, che è passato in proverbio. Forse anche gli avanzi e la memoria dell’antica grandezza contribuiscono a render atte le menti a scoprire il lato piccolo e risibile delle persone e delle cose, e questa attitudine si fa maggiore con l’esempio e con l’educazione di famiglia; forse anche il clima ci ha la sua parte; ma, insomma, ogni romano è stoffa adatta per tagliarci un poeta satirico. E non mancano prove per dimostrarlo.„
Però, siccome l’acqua va al mare, non solo tra le pasquinate più o meno propriamente dette, ma anche tra i semplici motti arguti che si attribuiscono a’ Romani, ce n’è molti d’intrusi. Eccone dunque alcuni, che son forse tutti veramente genuini, e la maggior parte anche inediti.
Quando ancora, sotto il Governo papale, le buche per le lettere non erano in tutta Roma più di tre o quattro, un giorno, sull’ora della levata, mentre molte persone si accalcavano davanti a una di esse, un vecchio, imbucando la sua lettera, volle seguirla con l’occhio, per accertarsi che fosse andata giù bene; e allora un piccolo ragazzino che gli stava dietro, e che aveva anche lui una lettera da impostare, impazientito del ritardo, alzò il capo ed esclamò seriamente: “Ah sor bòccio (vecchio)! aspettate gnente la risposta?„
Mentre io stesso, da giovinetto, dimoravo in Roma, una volta m’imbattei in due miei coetanei, che facevano a pugni. La lotta durò un pezzetto indecisa; ma alla fine uno de’ due fu messo sotto dall’altro, il quale, profittando del sopravvento, gli dava giù senza misericordia. Allora io corsi in aiuto del vinto, e, fugato il vincitore, già godevo la compiacenza d’aver fatto un’opera buona; ma il mio difeso, rialzatosi e raccolto il cappello, dopo avermi squadrato da capo a piedi, mi disse con accento tra grave e stizzoso: “Bèr fio (bel figlio)! sapete che cc’ è scritto su la porta der curato? Chi s’impiccia, more ammazzato!„
In un caffè stava seduto, e tutto immerso nella lettura d’un giornale, un uomo dall’apparenza molto burbera, per quanto almeno poteva vedersene, giacchè la sua faccia, mezzo chiusa dal bavero rialzato del soprabito, finiva poi per essere quasi interamente nascosta dal giornale, che teneva tra le mani, e dalla tesa, piuttosto abbondante, del cappello. Un piccolo fiammiferaio gli si accosta, e gli offre e rioffre la sua merce; ma egli sta immobile e non risponde. Il monello allora insinua il suo musetto sporco tra il giornale e la tesa.... Apriti cielo! Il taciturno lettore, balzando in piedi, gli grida rabbiosamente: “Cosa vuoi, birbaccione?„ E quello, collocatosi subito a rispettosa distanza, gli risponde con tutta calma: “Gnente; guardavo si c’èrivo„ (se c’eravate).
Nel momento preciso che il solito colpo di cannone annunziava il mezzogiorno, un signore, per istrada, lasciò scapparsi uno di que’ rumori così contrari alle buone creanze. E un ragazzo, che gli camminava dietro, esclamò: “Pe’ ccristallina! Quer zignore va bbene co’ Caster Zant’Angelo!„
Durante l’assedio del 1849, mentre si pubblicavano decreti come questo (30 aprile): “REPUBBLICA ROMANA. — In nome di Dio e del Popolo. — Al primo suono della campana a stormo, sarà esposto nelle principali Chiese il Santissimo, per implorare la salute di Roma e la Vittoria del buon Diritto. — I Triumviri: Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi;„ si ebbe anche la buona idea di donare al miracoloso Bambino dell’Araceli, il quale veniva ordinariamente trasportato al letto degl’infermi in una modesta vettura da nolo, la superba carrozza di gran gala del Papa, fatta sotto Leone XII, e costata, co’ finimenti, la bagattella di ventiseimila scudi.1 Con questa misura molto ammirata e lodata,2 il Governo repubblicano salvava la carrozza dal pericolo di finire in un falò come quelle di alcuni cardinali, e dava insieme una lezione al Santo Padre.
Finchè dunque durò la Repubblica, il Bambino scarrozzò per Roma da gran sovrano; ma entrati i Francesi col proposito di rimetter le cose come erano al 16 novembre 1848, la carrozza gli fu ritolta. E poichè, codesta data del 16 novembre, già infaustamente celebre per l’assedio della moltitudine al Quirinale e per le titubanze e la debolezza di Pio IX e de’ suoi consiglieri, era ogni momento su tutte le bocche3 come formula di quella restaurazione, che secondo la lettera del Bonaparte al Ney doveva essere intera, ma da cui invece i preti, a marcio e meritato dispetto dei loro salvatori, scartarono tutte le franchigie costituzionali e ogni vestigio di libertà; un giorno che per Piazza Colonna passava il povero Bambino nell’antica vettura da nolo, un popolano, additandolo a un suo camerata che gli era alquanto discosto, gridò sarcasticamente: “Ohé, lui puro è aritornato ar sedisci novembre!„
Ma Pio IX non si servì più di quella carrozza fino al 27 maggio del 1861.4
Questa accadde, così mi assicurano, nientemeno che a Giuseppe Verdi, una delle volte che, sotto il Governo pontificio, si trovò a Roma. Egli aspettava una lettera di premura, e perciò, qualche minuto prima delle nove antimeridiane, ora fissata per l’apertura dell’uffizio postale, era già davanti alla finestra di distribuzione. Sonano le nove, le nove e un quarto, le nove e mezzo, e la finestra non s’apre. Finalmente, dopo qualche altro minuto, s’aprì; e il maestro, impazientito, con l’orologio alla mano, dice bruscamente all’impiegato: “Sono le nove e mezzo passate!„ E quello, senza punto scomporsi, gli risponde: “Ringraziamo Dio, chè ci siamo arrivati.„
Un anno che, per la festa di sant’Ignazio, i padri gesuiti addobbarono e illuminarono, secondo il solito, ricchissimamente la famosa cappella del Gesù, nella quale è la statua del Santo d’argento, con sopra il Padreterno di stucco; un pasticcetto co’ li guanti disse a una signora: “Vada, vada al Gesù: c’è la statua di sant’Ignazio d’argento e un altare tanto bello, che lo stesso Padreterno n’è rimasto di stucco.„
Un prete francese, dei tanti piovuti a Roma nel 1867 per il centenario di San Pietro, domandò a un vetturino della stazione quanto volesse per portarlo all’Albergo della Minerva, e il vetturino gli chiese sei paoli. Egli allora, credendo che il paolo corrispondesse a una lira, anzichè a mezza, rispose: “No: io darvi cinque franchi.„ E il vetturino, pronto: “Ebbe, montate: giusto perché séte voi.„
Un Michele Scotto, de’ Mille di Marsala, raccontando in un caffè ad alcuni amici le sue avventure nella campagna di Sicilia, a un certo punto del racconto, disse di aver visto un serpente!... un serpente!... un serpente!...; del quale insomma parendogli di non poter dare una esatta idea con la parola, domandato un lapis, da buon pittore di decorazioni com’era, lo disegnò sul marmo del tavolino. Proseguendo quindi il racconto, disse d’aver visto anche un rospo; e anche per questo ricorse all’aiuto del lapis, poichè non era un rospo comune. Finalmente, continuando ancora, disse che questo rospo straordinario faceva una bava!... una bava!... una bava!... E allora un tal Cesare Diadei lo interruppe dicendogli:: “Ècchete l’apis: fajje la bbava!„
Siccome l’ernia è una specie di barometro, gli amici e i conoscenti d’un vecchio ernioso solevano domandargli i pronostici del tempo; ed egli un giorno, seccato, rispose a uno di loro: “Oh ssapete che vve dico? chi vvò li commidi, se li facci!„
Tre musici della cappella papale passavano in vettura davanti ad alcuni popolani, i quali, riconoscendoli, si misero a sghignazzare. E il vetturino, rivoltandosi: “C’è ppoco da ride.... Qui nun ce so’ co.....!„
Un tale, volendo salire in uno di quegli orribili omnibus che si vedono ancora per Roma, e parendogli pieno, domanda: “C’è posto in quest’arca di Noè?„ E una voce di dentro gli risponde: “Monta su, ché cce manca er zomaro.„
“In un giorno di carnevale, sulle ringhiere del mezzanino sovrapposto alla bottega dello speziale Ottoni a Piazza Colonna, erano schierate molte donne. Passavano due plebei, mascherati da conti. Disse uno: Che bbottega è questa? — Diavolo scèchete (cècati), rispose l’altro, è ’na spezziaria: nun vedi în mostra le vipere?„ Così il Belli, in una di quelle note che andava prendendo su degli scaccolini di carta per i suoi sonetti. Io credo quindi che anche quest’aneddoto, come tanti altri che potrei ancora raccoglierne, sia genuino. Ma troppi anche, come ho detto, ne vengono attribuiti ai Romani, che sono invece o d’altri popoli o mere invenzioni letterarie. Alla quale ultima categoria deve forse appartenere quello che si racconta così: — Un buon diavolo d’avvocato sposò una ragazza un po’ cervellina; e, per un capriccio del caso, lui si chiamava Cesare e lei Roma. (Tanto come nome di donna, quanto come cognome, le voce è rara, ma esiste realmente.) Il giorno delle nozze, egli trovò sulla porta di casa quest’avvertimento: Cave, Caesar, ne Roma tua Respublica fiat. Ma non era uomo da perdersi di coraggio per così poco; staccò il cartellino, e ce ne mise un altro con la risposta: Stulte! Caesar imperat. Allora il satirico ci scrisse sotto: Imperat? ergo coronatus est! —
Ma fatta anche la debita tara a quanto comunemente si racconta dello spirito satirico dei Romani, ci resta sempre un gran fondo di vero; come resta verissimo che Pasquino, nella sua origine e nella sua natura, è una creazione tutta popolare e tutta romana, quantunque abbia pure caratteri letterari, e per certi rispetti possa dirsi mondiale come il Papato.