Sole d'estate/Scherzi di primavera
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SCHERZI DI PRIMAVERA
Notte d’aprile, improvvisamente calda, dopo un lungo prepotente inverno che non si stancava di torturare la terra coi suoi furori. Adesso finalmente se n’era andato; e la terra dormiva tranquilla: ma era il sonno fecondo della primavera. Si sentiva l’alito tiepido dei suoi sogni di eterna fanciulla; nel silenzio si aprivano furtivi i fiori degli alberi, e quelli dei prati si sollevavano a spiare il mistero ancora non conosciuto delle stelle. L’orizzonte era fasciato da un vapore di luce, e pareva che il profumo e il tepore della notte esalassero di laggiù, da un fuoco invisibile, alimentato di legno odoroso. Era l’annunzio del sorgere della luna.
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Anche il cane dell’ovile sonnecchiava, raccolto come un cercine di felpa biondiccia sulla soglia dello stabbio. E dormiva anche il servo, nella capanna, profittando dell’assenza del padrone che era tornato in paese per sposarsi. Era sicuro del cane, il servo, più che di sé stesso. Da quando la bestia, forte, giovane, agilissima, guardava l’ovile, nulla più di male vi era accaduto. E infatti, mentre il sonno del servo era opaco e profondo, quello del cane poteva dirsi trasparente, vigile e anche inquieto: pareva che la bestia sapesse di essere sola a vegliare il bestiame, e ne sentisse la responsabilità; ma nello stesso tempo il suo istinto non sfuggiva all’influsso della notte, della stagione; e di tanto in tanto un tremito gli faceva ondulare le vertebre, sotto il pelo che pareva agitato da un alito di vento. Allora guaiva, in sogno, per uno spasimo fisico che era pure una dolcezza indefinita, un desiderio inafferrabile, come quelli degli adolescenti.
E infatti anch’esso era un cane quasi cucciolo, che ancora non conosceva l’amore.
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Le due volpi, invece, maschio e femmina, giù nell’anfratto dove avevano a loro disposizione tutto un labirinto di roccie coperte di cespugli, non potevano dormire. Avevano fame, stremenzite da quelle ultime giornate di pioggia e di carestia; e il vuoto dello stomaco raffinava la loro fantasia come il digiuno l’esaltazione dell’asceta solitario.
Il volpone sentiva però il cambiamento del tempo, e che era giunto il periodo della giustizia. Poiché se Dio lo aveva messo al mondo, regalandogli anzi con prodigalità quasi paterna tanti mezzi per farsi valere, bisognava pure che si aiutasse. Uscì dunque all’aperto, subito seguito dalla compagna: era piuttosto piccolo e quasi nero, con una coda più lunga e più grossa dello stesso corpo: gli occhi brillavano come le stelle. La volpe era più grande, bionda, morbida: lunghissima, sapeva tuttavia farsi piccola come una martora di nido.
Seguiva il compagno senza una volontà precisa, imitandolo nel modo di camminare, cioè mettendo le zampe posteriori sull’orma di quelle anteriori, in modo che l’impronta, se la coda non riusciva a cancellarla del tutto, sembrava di una bestia con due sole zampe.
Scesero fino alla riva del fiumiciattolo, in fondo al pendio, e stettero in ascolto. L’acqua, ingrossata dalle ultime pioggie, sviava qua e là tra i giunchi del greto, con leggeri brontolii come di protesta: il luogo odorava di menta. Il maschio bevette, più che altro per tastare l’acqua: poi si volse e rinculando cominciò a sbattere la coda nella corrente, finché non l’ebbe tutta bagnata, come fanno le donne quando si lavano i lunghi capelli.
La volpe sapeva già quello che il compagno voleva fare; e quando esso si rimise in viaggio, su per il pendio e poi attraverso i prati del sovrastante altipiano, lo seguì avendo cura di spazzare il terreno con la sua coda asciutta. Del resto l’erba si beveva i loro salti, e la rugiada lavava l’erba. Tutto era ad essi favorevole. Arrivati al margine dei pascoli dove era attendato l’ovile, il maschio si fermò: si fermò anche la compagna, e di nuovo stettero in ascolto. Non la più lieve incrinatura rompeva lo specchio del lucido silenzio notturno: anche le stelle erano ferme come pupille incantate; e solo parlavano, quasi comunicandosi scambievolmente un segreto, i diversi profumi della vegetazione: erba marzolina e festuca; paleino e ranuncolo selvatico: persino la volpe odorava di mentuccia.
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E sapeva benissimo quello che doveva fare. Lasciando il compagno immobile in mezzo ad un rovo, si slanciò sola in avanti, con agilità prodigiosa. Sentiva un’ebbrezza di volo, un senso di libertà, di fanciullezza, quasi d’innocenza. Aveva voglia di correre e di giocare: null’altro. Anche la fame era sparita dalle sue viscere sobbalzanti di gioia. E poiché non aveva nessuna intenzione di rubare, ma solo di divertirsi e trovare per i suoi giochi un compagno meno famelico e criminale del suo tetro compagno, si avvicinò all’ovile con la disinvoltura di un amico di casa.
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Il cane la sentì: e sentì quello che essa voleva. Quindi non abbaiò, ma si alzò d’impeto, le fu addosso, l’afferrò per il collo, senza morderla. Anch’essa volse rapida la testa e gli morsicò, un po’ più forte di quanto esso facesse, la punta di un orecchio. Il cane rabbrividì tutto, come scottato: dalla schiena gli si irradiarono per tutto il corpo i razzi di questo brivido incandescente: si sciolsero in scintille di piacere. Sentì anch’esso un folle desiderio di giocare, di liberarsi dall’opaca schiavitù verso l’uomo, verso le bestie, verso il suo vuoto modo di vivere. Lasciò la volpe, ma la riprese subito, e si avvoltolarono sull’erba, si morsicarono a sangue, sempre in silenzio, con gioia crudele. Poi, d’improvviso, essa fuggì, parve dileguarsi nel crepuscolo dell’orizzonte. Ma il cane vide sull’erba come una scia di luce, e vi andò dietro, pazzo di piacere. La volpe lo aspettava dove appunto il prato aveva una linea d’argine sopra un vuoto azzurro che pareva un fiume, con la vela gialla della luna sorgente: gli si avventò contro, tentò di saltargli addosso: il cane si drizzò; si drizzò anch’essa, e parvero abbracciarsi: poi si atterrarono a vicenda, e ripresero ad avvoltolarsi sull’orlo del declivio, con un gioco tenero e feroce nello stesso tempo.
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Il maschio, intanto, penetrò a suo agio nel recinto del bestiame; ma lasciò in pace le pecore che dormivano, ancora tutte gonfie della spuma calda del loro vello, e col muso cercò i porcellini di una scrofa tardiva accovacciata con essi in un angolo dello stabbio. La madre tentò di difenderli: ma il volpone le sbattè sugli occhi la polvere fangosa della quale si era già imbevuta la coda, e la bestia ricadde accecata. Allora il nemico prese i porcellini, affondò nelle loro gole le spine d’acciaio dei suoi denti, e uno dopo l’altro ne portò via cinque, trascinandoli al ciglio del prato, e poi giù giù fino al covo delle roccie.
E lì, senz’altro, cominciò il banchetto, finché giunse anelante la compagna che divorò un intero porcellino, sgusciandolo dalla pelle ancora tenera, come un frutto dalla buccia.
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All’alba il servo si accorse del vuoto nello stabbio: ma nell’osservare che il cane non aveva abbaiato e che ancora adesso dormiva tranquillo come se tutta la notte non avesse fatto altro che compiere il proprio dovere, pensò, anche lui calmo e coscienzioso: — Povera bestia, la lingua ti hanno legato; stregato ti hanno, i ladri, con le parole magiche. Che colpa ne hai tu? E neppure io ne ho colpa. E il padrone nulla avrà da dire, poiché anche lui è stato legato dalle parole magiche di una donna: e legato bene, lui, per la vita.
E si piegò, rassegnato e incoscientemente ironico, davanti alla inesplorabile potenza delle cose fatali. Un giorno però, qualche tempo dopo, esplorando i dintorni, arrivò al covo delle volpi e in un cantuccio vide due graziosi cagnolini che giocavano allegramente a rincorrersi e morsicchiarsi; e non solo non tentarono di fuggire, ma lo guardarono come riconoscendolo. Erano due bellissimi esemplari della razza dei cani detti volpini, di quelli appunto che non si lasciano abbindolare dalla volpe e sono i più adatti a cacciarla.