Sole d'estate/La tomba della lepre
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LA TOMBA DELLA LEPRE
Fino a quel giorno, i due fratelli Corsini erano sempre andati d’accordo, specialmente nel fare birbonate. E avevano appunto finito di commetterne una, nel castagneto, sotto l’albergo che li ospitava con la loro famiglia, quando, scendendo precipitosa, ma non molto, lungo il rivoletto col quale pareva misurare la sua corsa, apparve una signorina vestita di bianco. I Corsini notarono subito i suoi piedi grandi, entro le scarpe di camoscio, e le nude gambe di bronzo dorate di una lieve peluria; ma a misura che ella scendeva e si alzava davanti a loro, piccoli ed esili, un senso di ammirazione quasi panica li irrigidì. Il più grande si fece pallido: la smorfia che già fioriva sulla bocca del più piccolo sfumò in un sorriso melenso: poiché da quel piedestallo di gambe maschie si slanciava un bel corpo, pieno ed agile nello stesso tempo; e dal collo perfetto sbocciava una testa meravigliosamente infantile. Anche lei si fermò, senza troppo badare a loro, e si guardò attorno, in basso e in alto, scuotendo indietro i capelli, di un nero azzurrognolo come i grappoli dell’uva di mare; mentre le alte sopracciglia e gli occhi scuri a mandorla avevano un moto e un baleno di ostilità. Forse non le garbava l’incontro coi due fratelli, vestili come pastorelli da cartolina illustrata, altrettanto curiosi e sbalorditi: e accennava a riprendere la sua esplorazione lungo il ruscello, quando una voce, chiara e metallica, chiamò dall’alto:
— Gina! Ginetta!
Ella si guarda bene dal rispondere: ma il più piccolo dei Corsini, intuendo che la bella incognita è anche lei fuori della legge familiare, si fa d’improvviso ardito, come uno di quegli insetti che per paura di essere presi si fingono morti, e, passato il pericolo, riprendono a svolazzare.
— Chiamano lei, signorina?
Ella fa un moto, come per dire: e a lei che gliene importa? — ma poi torna a scuotere i capelli, raccoglie il respiro, risponde con voce tonante:
— Mamma! Sono qui; vengo subito.
La madre ha un bell’aspettare: Ginetta non segue più il corso del rio, ma neppure pensa di risalirlo; si attacca con le braccia vigorose a un basso ramo di castagno e guarda dall’alto i due fratelli e un misterioso mucchio di foglie covato dal maggiore di essi. Domanda con degnazione:
— Come vi chiamate, voi?
Pronti, i fratelli rispondono assieme:
— Corso Corsini.
— Corsino Corsini.
— Corriamo, corriamo, — ella dice ridendo; poi si frena.
— Quanti anni avete?
— Io undici; mio fratello tredici.
Quello che adesso risponde, — poiché l’altro è alquanto offeso, — è il fratello minore, il melenso, che ha di qua e di là della fronte, fin sopra l’azzurro pigro degli occhi, due nastri sfrangiati di capelli color zolfo. Eppure è lui che attira maggiormente l’attenzione di Ginetta; a lui ella dice, senza essere interrogata:
— Ed io ho quattordici anni; in tutti e tre non abbiamo ancora l’età della mia mamma.
Quest’addizione li stupisce; poi li fa ridere, anche il maggiore. E già un’intesa amichevole li unisce, quando la voce dall’alto ricomincia a chiamare disperata.
— Aspettatemi un momento: vado e vengo, — dice Ginetta; e vola su, tenendosi con la punta delle dita i lembi della sottana, come una ballerina vestita di piume di cigno.
*
Rimasti soli, il maggiore batté la mano sulla spalla del piccolo: parve dirgli:
— Oh, fratello, e adesso che cosa si fa?
— Aspettiamo un momento.
Aspettarono, piegati sopra il mucchio di foglie, ma con gli occhi rivolti in alto, donde scendeva, fra due bordi vellutati di musco, il rivoletto azzurro. Ma l’apparizione non tornava. Stanco di aspettare, il fratello minore disse:
— Lasciamo tutto così. Dopo colazione, magari, si torna.
L’altro sogghignò:
— Davvero? E se intanto qualcuno scopre la cosa?
— E lascia che scopra. Noi si dice di no.
— Davvero? E allora viene accusato qualche altro. E io non voglio. Tu sai che in questo luogo è severamente proibito di molestare e di uccidere le bestie. Un giovinetto che aveva sparato contro gli uccellini è stato pregato di lasciare l’albergo. Figurati poi se sanno che è stato ucciso un leprotto!
Il piccolo cercò una fronda e la sbattè con una certa insolenza contro il fratello.
— E allora, — disse con voce di accusa, — perché hai voluto tu fare la tagliuola? Proprio tu, Corso Corsini?
— Oh, non farmi del male, stupido. Io non volevo uccidere il leprotto. Lui veniva qui, a bere: stava tranquillo, a pulirsi il muso con le zampe, come fanno i gatti. Non aveva paura di noi, perché qui le bestie non hanno paura della gente. E io volevo prenderlo vivo, per toccarlo, per addomesticarlo.
— E allora perché hai fatto la tagliuola?
Il fratello, che parlava sommesso e pentito, cominciò a irritarsi.
— Imbecille che altro non sei.
— Imbecille, a me? Ritira la parola.
Un po’ scherzava, il minore, un po’ continuava a sbattere la fronda contro le gambe del fratello. Ma d’improvviso gli occhi dolci e periati di questi s’incupirono tempestosi; la voce, già maschia, gridò:
— Smettila, sì, imbecille. Tu sai che non dico bugie. Il leprotto è stato preso dalla tagliuola, sì, ma è morto dal freddo, stanotte, forse anche dallo spavento.
— Dallo spavento, oh, Dio! — fece l’altro, crudelmente ironico: e si contorse, si passò le mani dietro le orecchie, come con le zampe usava il leprotto fidente; poi si lasciò cadere lungo stecchito sul muschio della china.
*
Ebbene, Corso, il forte, il dritto, credette che il fratello fosse davvero svenuto. Lo scosse; lo chiamò: l’altro si divertiva a spaventarlo, finché, per timore che tornasse la signorina, non mise fine alla commedia. Sghignazzando si alzò e con la fronda tentò di frugare nel mucchio; ma adesso Corso perdeva la pazienza; lo prese quindi a spintoni e lo fece ruzzolare un bel po’ giù per la china. E deciso di fare tutto da sé, per nascondere il corpo del reato, trasse dalla tomba improvvisata il leprotto morto, con la tagliola ancora attaccata alla zampa; se lo strinse fra le braccia e andò più in là, nel fitto degli alberi, dove l’ombra sul muschio quasi nero del terreno, e qua e là qualche argentea fiammella di luce, avevano un non so che di addobbo funebre. Ai piedi di un tronco, il colpevole tenta di scavare una buca; l’impresa non è facile, poiché bisogna prima scorticare il muschio dalla terra, che è molto dura; ma egli si aiuta come può, con le unghie, coi legni della tagliuola, con un suo coltellino prezioso: intanto, intorno al leprotto che pare imbalsamato, con le lunghe orecchie ancora dritte d’angoscia e gli occhi aperti, duri e striati di nero, va adunandosi un misterioso popolo di farfalle e d’insetti, sbucati non si sa da dove; e lo sfiorano, se ne vanno, tornano, come non convinti che un misfatto di quel genere sia stato commesso nel loro regno.
Corso scavava, mordendosi la lingua e digrignando i denti, col desiderio di aiutarsi anche con essi. Nell’ansia aveva dimenticato l’apparizione, mentre in fondo era più che altro per paura del cattivo giudizio di Ginetta che egli tentava di nascondere la sua vittima; ed ecco, la buca era già abbastanza lunga e profonda per l’occorrenza, quando, sollevandosi con un sospiro, vide il fratello, il suo Caino, correre verso di lui, seguito dalla nuvola bianca del vestito della fanciulla.
Un subito coraggio lo strinse però in una corazza infrangibile. Sedette con le spalle contro il tronco e sollevò gli occhi con un baleno di sfida: aspettava il giudizio; aspettava anche la morte, pur di non apparire un codardo, un vile uccisore di lepri di nido.
Mentre l’altro fratello emetteva gridi belluini, Ginetta, silenziosa, si aggirò come gli insetti e le farfalle intorno al leprotto: prima di pronunziarsi, pareva cercasse i segni del sangue e del delitto: poi prese la vittima per un orecchio e la fece girare intorno a se stessa: infine cominciò a girare anche lei, intorno al tronco, con una danza macabra che disgustò e addolorò il colpevole. Ma forse era davvero questo il suo castigo: la prima rivelazione della crudeltà umana.
Si alzò, dignitoso; disse.
— Mi dia il leprotto, signorina: bisogna nasconderlo, perché qui è proibito uccidere le bestie.
Ella fece saltare in aria la vittima; la riprese fra le mani, la palpò.
— Ma questo non è stato ucciso: è morto di freddo: è buono da mangiarsi.
— Sì, sì, — gridò il piccolo; — lo si scuoia, si fa il fuoco e lo si arrostisce.
L’impresa era bella, i fiammiferi pronti. Ma per Corso fu un nuovo disastro: con una mossa violenta tolse il leprotto dalle mani della fanciulla, lo mise nella buca, vi ammucchiò la terra, vi pestò su i piedi, con rabbia, e con un amaro senso di vittoria. E allungava le braccia coi pugni stretti, sfidando chiunque ad avvicinarsi: chiunque, fosse pure l’alta e forte Ginetta, contro la quale, anzi, egli sentiva un desiderio di lotta, un istinto di odio, solo perché ella rappresentava la realtà della vita.