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— E allora, — disse con voce di accusa, — perché hai voluto tu fare la tagliuola? Proprio tu, Corso Corsini?

— Oh, non farmi del male, stupido. Io non volevo uccidere il leprotto. Lui veniva qui, a bere: stava tranquillo, a pulirsi il muso con le zampe, come fanno i gatti. Non aveva paura di noi, perché qui le bestie non hanno paura della gente. E io volevo prenderlo vivo, per toccarlo, per addomesticarlo.

— E allora perché hai fatto la tagliuola?

Il fratello, che parlava sommesso e pentito, cominciò a irritarsi.

— Imbecille che altro non sei.

— Imbecille, a me? Ritira la parola.

Un po’ scherzava, il minore, un po’ continuava a sbattere la fronda contro le gambe del fratello. Ma d’improvviso gli occhi dolci e periati di questi s’incupirono tempestosi; la voce, già maschia, gridò:

— Smettila, sì, imbecille. Tu sai che non dico bugie. Il leprotto è stato preso dalla tagliuola, sì, ma è morto dal freddo, stanotte, forse anche dallo spavento.

— Dallo spavento, oh, Dio! — fece l’altro, crudelmente ironico: e si contorse, si passò le mani dietro le orecchie, come con le zampe usava il leprotto fidente; poi si lasciò cadere lungo stecchito sul muschio della china.