Sole d'estate/Cinquanta centesimi
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CINQUANTA CENTESIMI
In una bellissima novella di Gorki c’è un vagabondo affamato, che nelle nuvole leggere e vaporose sull’orizzonte della steppa, vede vassoi fumanti e colmi di squisite vivande; ma quando nel suo delirio stende la mano per toccarli, quelli dileguano crudelmente, divorati dallo spazio. «Non toccare» «non toccare» «non toccare» era almeno scritto sui cartellini applicati come farfalle alle favolose piramidi di pere e di mele, ai graziosi pergolati d’uva perlata, alle coppe di melagrane e di cotogne, ed anche ai sacchetti di fichi secchi che parevano pasticcini, della mostra di frutticoltura: altrimenti Giulio, Marino e Gregorio, i tre inseparabili amici e compagni di scuola — prima tecnica — si sarebbero lasciati cogliere anch’essi da un delirio simile a quello del vagabondo.
— E se io dovessi toccare, che mai accadrebbe? — domandò Giulio, allungando la grossa mano traboccante dalla manica corta della giacca stremenzita. — Ti mettono in gattabuia, — rispondono i compagni a una voce, certi di canzonarlo. Poiché tutto era per loro canzonatura, derisione, anche cattiveria: quella cattiveria particolare in quel periodo dell’adolescenza chiamato l’età ingrata, che in fondo, con tutti i suoi turbini e i suoi splendori, è l’età più felice dell’uomo. Anche le meravigliose frutte esposte con sapienza sui banchi e sulle mensole erano giudicate da loro, per la forma o per il colore o per la posizione, con espressioni beffarde e piccanti: e tutto era buono per provocare risate e commenti salaci.
Non replicò, Giulio, alla minaccia della gattabuia; ma sapeva che poteva vendicarsi, e aspettò il momento con un sincero palpito di gioia.
— E adesso, carissimi amici, vi farò vedere come si può toccare questa roba, senza disturbare la benemerita arma, con le relative manette.
Erano arrivati in fondo alla lunga sala dove, come l’altare in una chiesa, s’innalzava una mensa con trofei di frutta ed anche di fiori ornamentali. In mezzo, su una coppa di cristallo, era deposta una pera gigantesca, di un colore quasi incandescente: e sulla parete un quadro di natura morta a tinte vivaci pareva uno specchio che riflettesse tanto ben di Dio. La folla vi si addensava intorno, con adorazione estetica, ina anche golosa, che si sarebbe volta in martirio se subito dopo l’altare, all’angolo della sala, sopra un banco ricoperto di sacchetti e barattoli, incoronato da un festone di grappoli d’uva, nel cui arco dominava una bella ragazza che pareva una di quelle figure allegoriche dei pittori coloristi, — pomi le guancie, ciliegie le labbra tinte, crespa e arancione la zazzera, come certe zucche esotiche lì accanto, — non si fosse notato un cartellino ristoratore: Vendita al pubblico.
E fu qui che Giulio consumò la sua vendetta. Aveva una lira in tasca; la palpava, con le dita nervose e ossute di figlio d’operai, la scaldava, pareva volesse fonderla un’altra volta. I suoi occhi rapaci correvano da un sacchetto all’altro: scartavano quelli su cui c’era segnato un prezzo superiore alle sue possibilità, e infine si fissarono su certi sacchetti di carta rossa che davano l’idea di lampadine giapponesi. Non la sola ristrettezza del loro costo attirava però la sua attenzione: l’attiravano sopratutto il colore e la forma dei frutti che i sacchetti contenevano; e tutto un mondo lontano, ma radicato nella sua carne con l’indistruttibile nervatura della razza, si chiudeva per lui nel sacchetto. Ecco il cortile del nonno, prima che il padre di Giulio emigrasse e facesse anche una certa fortuna in città: il cortile è ingombro di laterizi, perché anche il nonno è capomastro: ma in mezzo sorge un albero bellissimo, con le foglie di un verde come ritagliato in una seta tinta col vetriolo: e tra una foglia e l’altra innumerevoli frutti piccoli e scarlatti, che sembrano duri e invece a mangiarli sono dolci e teneri, d’una tenerezza un po’ resistente che si prolunga, si fa succhiare, si concede a poco a poco per meglio farsi godere.
È l’albero delle giuggiole.
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Quando il sacchetto fu suo, egli dunque si godette piena anche la sua vendetta: cominciò a palparlo, ad accostarselo al viso, ad accostarlo al viso allungato dei compagni. Domandò:
— Dove sono i carabinieri?
Un po’ avviliti, gli altri si palpavano a loro volta le saccoccie, scambiandosi sguardi d’intesa: ma in tutti e due non possedevano che dieci soldi. Con questi dieci soldi si poteva, è vero, comprare un grappolo d’uva; l’uva, però, non li tentava, eppoi, non essendone indicato il prezzo, avevano timore di fare la figura della volpe sotto la pergola. Andarono dunque dietro al compagno, che aveva almeno la delicatezza di non aprire ancora il sacchettino, e usciti fuori dalla sala ripresero animo, rallegráti anche dal sole che riscaldava le panchine dello spiazzo e dalla bellezza di tutto. Passavano frotte grigie di collegiali, guidate da lunghi preti melanconici; passavano rubicondi pensionati, che, dopo aver assaggiato il vino del chiosco accanto, sorridevano ancora alla vita e alle belle ragazze coi baschi birichini messi alla sghimbescia sulle testoline matte: l’erba dei prati luccicava come verniciata, e il cielo sembrava uno studio di scultore, con blocchi di nuvole marmoree abbozzate genialmente: ma sopratutto bella era la fontana, coi suoi portentosi fili di diamanti, ora alti ora bassi, che la vasca di alabastro si divertiva a mandar su e a ringoiarsi con un piacevolissimo gioco di prestigio.
I tre si misero a sedere su una panchina accanto al chiosco e ricominciarono a scherzare. Giulio fu generoso, ma non troppo, offrendo agli amici due giuggiole per uno. Marino, che era buono e dolciastro come il frutto che masticava, ringraziò abbastanza cortese, mentre Gregorio sputò con disprezzo la seconda giuggiola dicendo che era amara come un’oliva.
Fu in quel momento che una grossa signora con una ricca pelliccia di lontra, all’antica, e con una mazza d’uomo alla quale si appoggiava zoppicando, si avvicinò alla panchina, con l’evidente desiderio di riposarsi. E fu Marino a ritrarsi garbatamente, per farle posto, addossandosi a Gregorio, che lo accolse con una gomitata. La signora ansava lievemente, ma pareva tutta beata di aver trovato finalmente da sedersi e di vedere davanti a sé, nella luminosa fantasmagoria dello sfondo, il miracolo della fontana: la maschera cascante e pelosa del suo viso s’illuminava a tanto riflesso; e di sopra gli occhiali a stanghetta pareva sollevarsi come un arco azzurro: era lo sguardo dei suoi occhi buoni e beati.
I ragazzi non badavano a lei, che a sua volta non pareva curarsi di loro. Avevano cominciato a urtarsi sul serio e si scambiavano parole cattive.
— Le mie giuggiole sono amare? E allora sùcchiati quelle dei quattrini che ti dà tuo padre. Oppure sputa anche queste, — dice Giulio, porgendone altre due a Gregorio, ma mentre questo sta per prenderle e buttarle via con sdegno, l’altro le ritira e per maggior dispetto le offre a Marino.
Marino le accettò, sebbene anche lui irritato e umiliato; se le cacciò in tasca e tirò fuori una monetina da quattro soldi che fece vedere a Gregorio.
— Tu. Gregorio, quanto hai?
— Un milione.
— Sì, quello del signor Bonaventura. No, davvero, Gregorio, dimmi proprio, quanto hai?
— Mannaggia, lo vuoi sapere? Poiché mio padre è un povero archivista e non un mangiacalce arricchito, io possiedo solo trenta centesimi.
— È già qualche cosa più di me, — commentò Marino: e parvero diventare seri, ma anche feroci, poiché quello delle giuggiole li umiliava di nuovo brontolando:
— Micragna, micragna.
Gregorio balzò in piedi, coi pugni stretti: Marino intervenne, pacificandoli.
— Senti, poiché non abbiamo la lira per comprare il sacchetto dei fichi secchi (continuavano a disprezzare le giuggiole) andiamo a bere una limonata in due.
— Fa legare i denti al solo pensarci: e già me li sento di coccodrillo, i denti — disse Gregorio: e poiché il sole era scomparso dietro i blocchi di marmo, e la fontana, che sembrava di stalattiti, mandava un soffio di freddo, egli finse di rabbrividire, o rabbrividì davvero, nel suo vestito ancora estivo di ragazzo povero.
Fu allora che alla grossa signora, la quale da un pezzo frugava nella sua borsa, cadde per terra una monetina da cinquanta centesimi. Marino fu pronto a raccoglierla e a offrirla alla padrona. Ella disse, con accento distratto e sommesso:
— Puoi tenertela, se vuoi, carino.
Ed egli, senza tanti complimenti, se la tenne: anzi fece un lieto cenno a Gregorio, e Gregorio una smorfia a Giulio: poi i due paria corsero d’accordo a comprare il sacchetto, proprio di giuggiole, non di fichi secchi, essendo questa la migliore rivincita. Quando tornarono, la grossa signora era sparita; ed essi cominciarono a sbeffeggiarla.
— Accidenti, per generosa è stata generosa, la vecchia balena.
Questa è la riconoscenza umana.