Signorine povere/Seconda parte/VIII
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VIII.
Il giorno appresso arrivò Paolo Venturi, recando i saluti dei Pagliardi che partivano per Torino la sera stessa. Il giovane sportman s’intrattenne a lungo con Leonardo d’arte antica e moderna, di scienza e di politica. Egli stimava Leonardo per le sue qualità morali e intellettuali. E Leonardo si trovava bene con quel giovane colto, perspicace e deferente.
La sera egli ritornò, quando tutta la famiglia si trovava riunita dopo il pranzo. Prese il caffè con loro e fu amabile e spiritoso.
Entrarono presto in maggiore confidenza. Riccardo descrisse la gran noia delle sue giornate nello studio uggioso, in fondo a una corte dove lo aveva confinato il ricco negoziante di legnami.
Il Venturi esclamò inaspettatamente, come se l’idea gli balenasse in quel puntp:
— Se fondassimo un giornale?
— Un giornale?
Ma sì. Siamo qui una mezza redazione. Il signor Leonardo potrebbe assumersi le arti plastiche, la musica, la meccanica... Riccardo l’agricoltura, il commercio e le notizie scientifiche... io la politica, un po’ di scienza... e tutto lo sport... le signorine la letteratura... — E accennava Antonietta e Maria.
Tutti risero, specialmente le ragazze. La risata di Angelica fu quasi sguaiata. L’invidia e la gelosia la riconducevano alla sua naturale volgarità.
— Lei parla dunque di un giornale letterario — disse Leonardo.
— Letterario, artistico, scientifico... un po’ di tutto. Una rivista abbastanza ricca da interessare molte classi di lettori; con carattere spiccatamente avanzato e femminista, come dicono adesso. Le donne si movono da per tutto. In Italia sono ancora un po’ addormentate: bisogna scuoterle. Per ciò io vorrei che la mia rivista fosse diretta appunto da una signora o signorina... una di loro due.
Maria si scusò subito, scrollando la bella testa. Se avesse pure posseduta la capacità, ciò che le pareva assai dubbio, le sarebbe mancato il tempo. La scuola l’assorbiva e non le permetteva di assumere nuovi impegni. Eppoi era affatto ignara di giornalismo e non aveva mai scritto per le stampe. Se doveva tentare quella via, voleva cominciare dal poco: misurare le proprie forze. Non era nel suo carattere di affrontare così impreparata difficoltà ignote.
Antonietta disse press’a poco le stesse cose. Scrivere qualche articolo, qualche novella, non le pareva cosa impossibile. Avrebbe potuto rischiarsi anche subito. Ci aveva pensato qualche volta. Ma dirigere un giornale? No, davvero.
— Ecco come sono le donne — osservò Riccardo sorridendo. — Parlano d’indipendenza, vogliono conquistare il mondo, poi, se l’occasione si presenta, invece di afferrarla coraggiosamente, si perdono in mille dubbi, in mille timori.
Antonietta protestò. Non tutte erano come lei! Ella non aveva fatto studi sufficienti; mancava di preparazione. E in casa Pagliardi nessuno l’aveva incoraggiata a confidare in se stessa: tutt’altro. Pure, ella non si rifiutava a scrivere: anzi voleva provare; sebbene in realtà un lavoro manuale, almeno un lavoro positivo come la maestra per esempio, le sarebbe andato più a genio.
— Un lavoro manuale! — esclamò Paolo. — Che lavoro manuale vorrebb’ella fare?
— Qualunque: la sarta, la modista, la ricamatrice. Potrei anche tenere l’amministrazione in una piccola azienda: far la cassiera in un negozio. Così.
— Come sei modesta — osservò Angelica stupita.
— Troppo modesta — insisteva Paolo. — Io fonderò in ogni modo la rivista, e quando l’avrò fondata non mi negherà la sua collaborazione.
— E chi mette i denari? — domandò Leonardo, guardando con curiosità il giovane.
Paolo sorrise. Ci pensava egli, naturalmente. Li aveva, quei benedetti denari; glieli avevano lasciati, bisognava che li spendesse. E desiderava di farne qualche cosa... Qualche cosa di utile agli altri, e che servisse a distrarlo nel medesimo tempo; poichè, egli era un annoiato.
Brutta qualità, ne conveniva, e appunto cercava di combatterla. Da prima aveva pensato a una colonia agricola, dove l’amministrazione, la coltivazione dei terreni, e la vita dei lavoratori rappresentassero l’effettuazione delle idee scientifiche e sociali più illuminate e moderne.
— Bellissimo progetto questo! — esclamò Riccardo. — Io non l’avrei mai abbandonato.
— Nè io l’abbandonerò, tutt’altro. Voglio però studiarlo meglio; approfondire la questione agricola e la sociale...
— Progetti simili si dovrebbero studiare nei fatti, credo. Trattandosi di cosa nuova, l’esperienza sola può darci i necessari ammaestramenti. Se io fossi ricco avrei già fatto un esperimento di questo genere.
— Lo faremo insieme. Intanto lasci passare prima la rivista femminile. Una cosa non impedisce l’altra. In questa rivista io intenderei occuparmi molto anche della campagna e dei nostri lavoratori: le donne e i proletari sono gli schiavi che noi dobbiamo redimere; e il primo nemico da combattere è l’ignoranza.
Leonardo approvava. Quel giovane gli piaceva per le sue idee elevate e la generosità dell’animo.
Perchè non era entrato prima nella cerchia dei loro conoscenti?
La signora Elisa, sapendo che Paolo Venturi era ricco, pensava che avrebbe potuto essere un buon partito per Antonietta, se il capitano Arquati non si decideva una buona volta, altrimenti, per Angelica; e però mostrava di ascoltarlo con interesse, soffocando gli sbadigli. Angelica guardava sua sorella e sua cugina con aria beffarda e il Venturi con ostilità. Le era antipatico perchè non bello: più ancora perchè non si occupava di lei. Già, la considerava una ignorantona, quel brutto scimmiotto. Amava le donne istruite, le donne sapienti. Se lo tenessero pure; lei non sapeva che farsene. Ella lo voleva bello, giovine e ricco, lo sposo. Quello lì era troppo brutto: buono per Maria o per Antonietta, le due intellettuali della famiglia. In fondo però, malgrado questi sfoghi silenziosi, siccome non era sciocca, il sentimento della propria ignoranza, considerata come una inferiorità, le cuoceva; dal momento che l’istruzione poteva essere un’attrattiva di più, dovevano darla a lei pure. L’avevano defraudata. Ecco intanto un giovine che non si curava di lei e le preferiva Antonietta con i suoi ventun anni, mentre ella non ne aveva che diciassette. E se fosse stato bello, se le fosse piaciuto?... Povera lei: egli avrebbe finto di non accorgersene. E forse ve n’erano degli altri che la pensavano come lui... Che fare?... Affrettarsi, affrettarsi finchè era nel suo fiore... poichè non aveva altro pregio da far valere che la sua bellezza e la sua gioventù.
Mentre queste considerazioni si svolgevano con sempre maggior chiarezza nel cervello della bella parassita, continuavano intorno a lei le discussioni animate su i progetti altruistici di Paolo Venturi.
Egli insisteva sempre perchè Antonietta accettasse il posto di direttrice o almeno di collaboratrice fissa della rivista, che egli avrebbe diretta e ispirata; ma Antonietta diceva sempre di no.
— Dunque, ella non vuol prendere assolutamente nessun impegno?
Una commozione profonda agitava il cuore del giovine mentre pronunciava queste parole; e i suoi occhi malinconici e soavi volgevano alla fanciulla uno sguardo appassionato come una preghiera.
Ella finse di non vedere quello sguardo, di non comprendere quella preghiera.
— Mi duole davvero, ma è proprio così, non posso prendere impegni assoluti. Quando torno a Pavia non sono, più padrona del mio tempo: lei sa benissimo come vanno le cose in casa Pagliardi.
Un pallore mortale si stese sul viso del Venturi. Sapeva troppo bene che Antonietta non ritornerebbe a Pavia; quella era dunque una scusa.
Vi fu un istante di silenzio.
Il buon Leonardo intuì che quel rifiuto ostinato feriva il cuore di Paolo, e credè opportuno di far osservare all’Antonietta che era poco gentile col loro amico. Ciò bastò perchè questi subito si rimettesse col suo spirito pronto e l’abituale scioltezza.
— Che dice mai, signor Leonardo? La signorina non potrebbe essere più cortese. Il torto è mio di avere insistito troppo, e ne chiedo scusa a tutti... Sono un ozioso, lo ripeto: cerco distrazioni e dimentico che gli altri sono occupati e non hanno tempo da perdere.
Tutti protestarono. Antonietta gli stese la mano che egli strinse con franca cordialità.
— Dunque la rivista va a monte? — domandò Riccardo, dopo altri discorsi.
— Io sono sempre pronto. Non mi ritiro affatto. Del resto loro adesso vanno in campagna; io verrò a trovarli, se permettono, e ne riparleremo.
Cominciò l’arrivo delle solite visite serali. Primo il dottor Monti, poi l’Ermondi, il misterioso taciturno fotografo. Salutò, sedette e tacque, come sempre.
— E sua sorella? — domandò una delle ragazze.
— Sarà qui a momenti.
Difatti Flora entrò poco dopo con la Bergamini e una nipote di costei, arrivata recentemente dalla provincia. Si scambiarono saluti: si fecero le reciproche regolari presentazioni tra il Venturi e gli altri. La giovinetta si chiamava Lucia Gerletti, ed era figlia di un capo stazione, del quale portava ancora il lutto. Sua madre, una sorella della Bergamini, dovendo vivere e mantenere cinque figliuoli con la magra pensione, aveva mandato Lucia a Milano dalla zia che viveva sola. Nel medesimo tempo la fanciulla doveva studiare il canto, e poichè la Bergamini era assai pratica di cose di teatro, avendo cantato da comprimaria, nessuno meglio di lei poteva avviarla nell’ ambita carriera.
— Sono state dunque dal maestro Cesarini? — domandò il signor Valmeroni.
— Sì. Speriamo che Lucia entrerà al Conservatorio. La voce è bella, robusta, di un buon timbro.
— Bene! Avremo una brava prima donna.
- Chissà — mormorò la giovinetta facendosi rossa. — Il maestro mi ha spaventata. Bisogna studiare tanto e non c’è mai la sicurezza di riuscire.
— Tutta l’arte è così. Non c’è mai la certezza assoluta.
La piccina avrebbe voluto fare un’altra osservazione, ma non osò. Arrossì e tacque.
Ella era di quelle ragazze mal cresciute, corte di gambe, col tronco sproporzionatamente lungo; aveva la pelle scura, i capelli ricciuti, gli occhi piccoli e vivaci, il naso rincagnato, la bocca rossa con bellissimi denti.
— Che prima donna! — diceva sua zia scrollando il capo. — La voce è bella; ma ci vuole altro!
Lucia intese queste parole che la Bergamini aveva dette soltanto per la signora Elisa; e rimase come impietrita. Angelica e Flora — diventate intime dopo il matrimonio di Eugenia — risero rumorosamente.
La piccola timida si riscosse tutta; i suoi occhietti scintillarono. A bassa voce come parlando a se stessa, proferì queste parole:
— Se non potrò cantare nelle opere serie, canterò nelle opere comiche; farò le parti buffe. Alla peggio, canterò nei concerti.
— Brava! — esclamò Leonardo che le era vicino: — Brava!... Non bisogna mai scoraggiarsi.
— Quella ragazzina ha talento — osservò Maria all’Antonietta.
— Oh! ecco i giovinetti! Buona sera.
— Buona sera.
Erano i due soliti amici. Cecilio Festi, il pittore che ritoccava le fotografie dell’Ermondi; e il futuro tenore Camillo Bressani. Il primo corteggiava sempre Flora; il secondo rideva con tutte, risoluto a non invischiarsi con nessuna, per non compromettere il suo avvenire.
Capitò anche un amico di Riccardo, studente al Politecnico, e infine Luciano Monti che non si lasciava più vedere da qualche tempo.
Poco dopo passarono tutti nel salotto per fare un po’ di musica.
Leonardo, che era insolitamente di buonumore, si mise al piano. Cecilio Festi aveva portato il mandolino; l’Ermondi, la sua mandòla.
— Riccardo, va a prendere la chitarra — disse Leonardo. — Ci ho qui un valzer per pianoforte, chitarra e mandolini.
Il giovane portò la chitarra per compiacenza brontolando:
— Se qualcuno mi potesse sostituire!
Venturi si offrì bonariamente.
— Sono uno strimpellatore, ma per sollevare un amico, farò quel che potrò.
— Bravo! questo si chiama aver cuore.
Paolo Venturi si rivelò un buon dilettante; e ciò lo rese ancora più simpatico a Leonardo. Il pezzo fu bene eseguito. Flora Ermondi cantò un duetto con Cecilio Festi; Antonietta, pregata da suo padre, cantò pure qualche cosa.
— E il tenore non vuol farci sentire la sua bella voce?
Egli si scusò: il maestro gli aveva proibito di cantare per divertimento; e non aprì bocca.
Tutti sapevano che non avrebbe cantato: sapevano che non voleva prodigarsi. Ed appunto perciò si divertivano ad insistere. Cantò invece, senza farsi pregare, la piccola Lucia — il sorcietto, come l'avevano già battezzata.
Ebbene, il sorcietto aveva non solo una magnifica voce, ma benanche uno squisito senso artistico e conosceva bene la musica. Fu molto ammirata e festeggiata. Solo Camillo Bressani — il futuro divo — le disse:
— Si guardi bene dal cantare così nelle società, come una dilettante. Ci si guasta e si perde il prestigio; bisogna che il pubblico sappia e tenga a mente che l’arte è preziosa: e chi ne vuol godere, deve pagarla e pagarla cara.
A una cert’ora Giuditta entrò col vassoio dei rinfreschi e la serata si prolungò.
— Fin che ce n’è si sciala! — pensava Riccardo aggrottando le folte ciglia. — Musica e canti; lucerne e candele accese fin dopo la mezzanotte; rinfreschi e... debiti coi fornitori!
In cucina, la vecchia serva che non appariva più nelle sale dopo l’entrata in servizio della Giuditta, brontolava a sua volta:
— Se invece di sprecare tanti denari la mia padrona mi rendesse le mille lire che le ho prestate! — E giurava di finirla: di parlare al signor Leonardo o a suo figlio; mentre in fondo sapeva bene che non lo avrebbe mai fatto.
Intanto Erminia e Giorgetto, che la Giuditta non aveva trovato il tempo di mettere a letto, facevano il chiasso in portineria, in corte, sulle scale.