Scritti vari (Ardigò)/Polemiche/La psicologia positiva e i problemi della filosofia/Dialogo IV

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La psicologia positiva e i problemi della filosofia.


Dialogo IV. - Il filosofo e un ignorante.


Ignorante — Altro che non parlar più! Avete sciolto proprio molto bene un’altra volta il scilinguagnolo. Egli è perciò che avendo capito che vi è passata la malinconia del silenzio, sono venuto di nuovo per apprendere un’altra lezione.

Filosofo — Con voi, egli è come un lavar la testa all’asino: vi si consuma il ranno ed il sapone.

Ignorante — Sarà; poichè tra asino ed ignorante vi è poca differenza. Sarebbe però un bel merito per voi se riusciste a fare d’un asino un filosofo positivista.

Filosofo — Impossìbile! Voi non rispondete nulla alle mie difficoltà, e restate sempre ostinato...

Ignorante — Proprio come un asino.

Filosofo — Uditemi: «Giusta l’insegnamento di tutti i filosofi di vaglia... (Provincia n. 79)».

Ignorante — Però che abbiano avuto la patente di filosofi di vaglia da voi: altrimenti... [p. 109 modifica]Filosofo — Altrimenti saranno asini. «Dunque giusta l’insegnamento di tutti i filosofi di vaglia, ciò che si dice — la cosa — nel confronto che si fa di essa colla sua idea, è forse altro che la mera percezione, che è quanto dire un semplice pensiero?».

Ignorante — Per capir bene l’astrusa vostra filosofia ho bisogno d’andar per via d’esempi, e grossolani: Supponiamo che la vostra cosa sia la cupola di S. Andrea.

Filosofo — Sia pure.

Ignorante — La sua idea è come un disegno di quella, eseguito non in carta ma in alcune molecole del mio cervello.

Filosofo — Appunto.

Ignorante — Ora veniamo al confronto. Prima di tutto per fare un confronto vi bisognano, secondo il mio poco giudizio, due termini.

Filosofo — È naturale.

Ignorante — Ma voi me ne levate uno, cioè la cosa riducendola alla mera percezione, a un semplice pensiero.

Filosofo — Ma ho detto nell’atto che si fa il confronto colla sua idea.

Ignorante — Ma anche allora non vi è là quella benedetta cupola, che si vede lontano dieci miglia? Dite dunque che quando pensate all’idea entro la vostra testa, benchè grossa, non si trova certamente la cupola di S. Andrea: ma quando fate il confronto della cosa colla idea, la cosa deve esistere in qualche luogo; quando non si tratti di idee fantastiche, fittizie, le quali però hanno anch’esse un oggetto, cui rappresentano, benchè imaginario e non reale. E come non, se la stessa parola idea significa rappresentazione o imagine?

Filosofo — Io dico e sostengo che è una mera percezione.

Ignorante — Un passo alla volta, signor filosofo; perchè chi va piano, va sano. Percezione secondo me si ha quando guardo p. e. la nostra cupola. Questa fa una impressione ne’ miei occhi, e per questi nel mio cervello e, come si [p. 110 modifica]insegnava una volta, per un misterioso commercio dell’anima col corpo, anche nell’anima, dove lascia un certo che ben diverso dalla cupola, certamente non così grosso, che chiamasi idea. Quando poi penso a questa idea p. e. stando comodamente assiso al mio scrittoio, allora ho nella testa la sola idea; e, quindi non faccio confronto, ma solo ripenso alla cupola per mezzo dell’idea. Or bene, se nell’un caso e nell’altro io dicessi che la cosa, cioè la cupola non è altro che una mera percezione, un semplice pensiero, non mi si darebbe a ragione del matto?

Filosofo — Ma non capite che l’idea non è che idea, ma però una realtà in sè stessa?

Ignorante — Oh! Povero il mio cervello! Dunque ho nella mia testa realmente la cupola di S. Andrea!

Filosofo — Quanta pazienza cogli ignoranti! La cupola non ci ha che fare. La realtà dell’idea non ha bisogno di essere riferita ad un oggetto di cui sia immagine (Vedi il dialogo precedente).

Ignorante — Cioè, non c’è obbligo che esista realmente quella benedetta cupola. Essa è una mera percezione, un semplice pensiero; e vuol dire un sogno della mia mente. E dalla cupola passando a tutte le altre cose visibili ed invisibili, tutto è mera percezione, semplice pensiero. Scusate, signor filosofo, un’altra volta vi additai un luogo dove potreste insegnare la vostra filosofia, ed ora sarei in pensiero di aggiungere al consiglio una calorosa esortazione. Non ve ne offendete mica, se pare così che vi stimi un matto. È questa una mia idea, la quale non avendo bisogno per essere concepita come tale, di essere riferita ad un oggetto di cui sia immagine, io posso darvi del matto da mattina a sera senza che abbiate ragione di lamentarvene. Anzi gli stessi vostri lamenti, quando li confronto col signor filosofo, non essendo che una mera percezione, un semplice pensiero, entratomi non so come, in capo, scomparendo la cosa, che siete voi, rimangono un vuoto suono, anzi neppur suono ma un mio sogno. Ma guardate se la fantasia umana, cioè la mia, [p. 111 modifica]è capricciosa! Sognare non solo che vi è una cupola di S. Andrea, ma anche che un filosofo pari vostro è un matto?

Filosofo — Voi provocate sempre con ingiurie volgari, senza spirito, riboccanti di fiele, chi è condotto dallo studio a pensare diversamente da voi (Provincia, ivi).

Ignorante — Ah penso dunque io, e pensate voi! Ma io penso diversamente da voi; e come mo’ avviene questo, mio signor filosofo? Filosofo — Non lo avete ancora capito? Avviene per la diversa organizzazione fisiologico-psichica (!!!).

Ignorante — Ah! i cervelli non son mica tutti simili! Me n’ero ben accorto ancor io, benchè ignorante!

Filosofo — Ed è per questo che prendete le mie dottrine sempre al rovescio. Io vi dissi che le cognizioni dipendono dalla qualità, dalla forma, dall’atteggiamento dell’organismo, e che con un altro organismo le cose al nostro pensiero si presenterebbero diversamente.

Ignorante — Ed io da bravo scolaro ripetendo la lezione, soggiunsi che con un organismo due e due facevano quattro, il circolo era rotondo, ecc., e che con un altro organismo due e due farebbero cinque e il circolo sarebbe quadrato.

Filosofo — La lezione non l’avete capita, benchè chiarissima. Datemi un organismo talmente disposto che porti che l’uomo abbia il pensiero del numero, della figura geometrica, e via discorrendo: allora due e due faranno quattro, e il circolo non sarà quadrato. Facciamo ora l’ipotesi che si cambi quell’organizzazione e che gliene sottentri un’altra che non comporti più che si abbia nè il pensiero, nè il numero, nè quello della figura geometrica...

Ignorante — Adagio, adagio, signor filosofo: giuochiamo forse di bussolotti? Voi mi cambiate l’organino in un’incudine da fabbro. Lo so anch’io che non si potranno più eseguire quelle belle sinfonie! Ma sapete voi che cosa è questo modo di ragionare? Proprio da giocoliere. [p. 112 modifica]Perdute le idee di numero, di figure geometriche ecc. lo so anch’io che non si potrà più dire due e due fanno cinque e il circolo è quadrato. Ma sapete voi qual’ipotesi avete allor fatta, quale diversità introdotta nell’organismo? Quella che passa tra un uomo ragionevole, ed un bruto insensato, o pure tra un uomo di sana mente ed un matto. Lo so anch’io che allora potreste sfidarmi a fare la supposizione tanto furba che due e due fanno cinque; ma io ho ragione di chiedervi: la vostra organizzazione ha forse sofferto quella variazione che fa perdere all’uomo il miglior suo bene, quello dell’intelletto? Ne dubito molto; e quindi dimando a chiunque ha fior di senno se possa mai darsi che in uomo di sano cervello possa operarsi una tale variazione d’organizzazione fisiologica psichica da affermare che due e due fanno cinque, e il circolo è quadrato? Se si desse bisognerebbe dire che al pover uomo avesse dato di volta al cervello, e chi lo giudicasse sano sarebbe ancor più matto. Come debba poi chiamarsi chi sostiene tali assurdi come scoperte della nuova psicologia positiva, io non lo voglio ripetere, perchè l’ho detto anche troppo. Vi riverisco.

(Dal N. 21, 22 settembre 1872, del giornale Il Vessillo Cattolico).


La psicologia positiva e il vescovo signor Rota.


Finalmente Mr. Rota si è scosso; ha capito che non si poteva più a lungo far orecchie di mercante; e ha tentato, in un quarto dialogo qualche risposta.

E a quali delle mie istanze ed argomentazioni ha egli tentato di rispondere? A due delle ultime: a quella sulla certezza e all’altra sulla organizzazione.

Ma, e alle prime, che sono ancora tutte intatte, come quella delle zucche, circa le quali gli ho detto ripetutamente, che non rispondeva perchè non poteva? [p. 113 modifica] Niente ancora.

E alle accuse di falsa testimonianza che tanto dovrebbero bruciare ad uno che si senta galantuomo?

Nemmeno.

Ah! forse perchè la cosa è un po’ troppo difficile.

Ebbene, si prenda del tempo. Vuole un mese, un anno, un lustro? Parli con confidenza, sono disposto a concedergliene quanto ne vuole.

Intanto esaminiamo, cominciando dall’ultima, le due risposte accennate, frutto della meditazione di tre settimane, e guardiamo di pronosticare, dal valore di esse, la fortuna riservata alle altre di là da venire.

Si può o non si può, cambiata l’organizzazione, dire: due per due fa cinque?

Nel dialogo terzo il nostro Monsignore aveva detto di sì.

Nel quarto, sforzato dalle strette del mio ragionamento, si ritratta e dice di no; e così cede e mi dà ragione. Non solo, ma in un ultimo disperato sforzo per non restare per ciò a mia discrezione, fa come quella lepre che, inseguita dal cacciatore, va a rifugiarsi nel di lui zaino. Poichè accampa che, cambiandosi l’organizzazione di un uomo, si avrebbe non più un uomo, ma un bruto.

Ah! dunque, secondo Monsignor Rota, la differenza tra il bruto e l’uomo non è che di organizzazione? Che volete di più? A Mantova dunque anche i Vescovi hanno da diventare positivisti, e positivisti ultra!

Vista così la riuscita della risposta sulla organizzazione, passiamo a quella sulla certezza.

A rilevare le assurdità e le contraddizioni che contiene, ci vorrebbe, non un articolo, ma un libro. Ma a che? Non ci sarebbe il prezzo dell’opera. All’uopo nostro basteranno le osservazioni che seguono.

La teorica della certezza, come si trova in tutti i trattati, anche elementari, di filosofia, ha due parti. La prima [p. 114 modifica]è contro gli scettici, che dubitano della esistenza del proprio pensiero; la seconda contro gli idealisti, che l’ammettono, ma dubitano della esistenza delle cose fuori della coscienza.

Monsignor Rota, a quanto apparisce dai dialoghi del Vessillo, non conosce questa distinzione elementarissima, di certezza interna ed esterna. E, pigliando a casaccio qualche proposizione staccata del mio libro, relativa alla certezza interna, la riferisce alla esterna, per farmi poi dire che nego l’esistenza della cupola di S. Andrea, e quindi far ridere la gente sullo sproposito rotondo e colossale.

Ma non insegno io e non sostengo e non dimostro io, nel mio libro, ad ogni pagina si può dire, la indestruttibilità scientifica della certezza della esistenza esteriore, e con argomenti tali che i miei avversari filosofi hanno trovato inattaccabili? Chè io fondo la certezza che l’idea del reale è essenzialmente correlativa alla cosa di fuori in ciò, che essa ci apparisce e deve apparirci come un effetto all’interno di una causa che ci rappresentiamo nel mondo esteriore. E sono tanto lontano dal ridurre le sostanze materiali esterne a semplici forme mentali, che anzi dichiaro espressamente che queste forme mentali stesse, nella loro condizione speciale di atti cogitativi di un soggetto pensante, sono entità di formazione secondaria e tardiva, supponenti anteriormente delle altre entità affatto impersonali ed extrasoggettive.

Nella stessa pagina, dalla quale sono prese le citazioni del Vessillo (p. 347), dico espressamente che ciò che si chiama rappresentazione non è primitivamente ed essenzialmente una appartenenza di un soggetto.

Il Rota che non ha capito niente di tutto questo (forse perchè non ha neanche letto il mio libro, e ha preso le frasi che cita da qualche articolo contro di me, della Civiltà cattolica e della Rivista universale) mi accusa di ridurre tutto l’essere al semplice atto soggettivo del pensiero. Al contrario il Mamiani, che la sa più lunga, ed [p. 115 modifica]ha visto dove risiede veramente la specialità della mia dottrina, mi dà l’accusa contraria; mi accusa cioè di togliere di mezzo il soggetto e di non lasciar sussistere che gli oggetti. Due accuse contradditorie: quello che ci vuole perchè si distruggano da sè.

Se io, consentaneamente ai miei principj, e in forza di essi, dico che la Cupola di S. Andrea (per seguitare coll’esempio rotondo e colossale di Monsignore) è un dato colore reale, una data forma reale, una data resistenza reale, una data solidità, ecc. ecc. tutto reale, e che si trova in un dato sito, e vi si sperimenta da me e da qualunque altro in ogni tempo vi applichi i sensi, e che cadendo schiaccerebbe chi vi è sotto, anche se ha in capo la mitra, che si esige di più perchè si dica che io ammetto la realtà di una cupola? Ovvero qual’è il realista più esagerato che ammetta di più di quello che ammetto io?

Quando dico che la cognizione è vera per sè stessa, e che la sua verità non consiste in una supposta corrispondenza con un termine opposto, ciò va inteso nel senso contrario agli scettici, cioè della cognizione in quanto è un fatto psichico reale, che non è in nostro potere di non porre nella mente una volta che vi esista.

Volete considerare quelle parole in relazione al valore obiettivo della cognizione? Allora distinguete in essa quella che si chiama l’immagine o la rappresentazione presa in sè stessa e come una mera forma della mente, da quella che si chiama la percezione della cosa. Poniamo che l’immagine si trovi conforme alla percezione: in questo caso l’immagine è vera due volte, cioè nel senso antiscettico e nel senso anti-idealistico, Nel senso antiscettico, perchè è una realtà innegabile del pensiero, nel senso anti-idealistico, perchè è conforme alla percezione, che è pur essa una cognizione. Poniamo invece che l’immagine si trovi disforme dalla percezione. Allora l’immagine sarà vera come fatto della coscienza e falsa come realtà esterna. E siccome anche la percezione si può considerare sotto i due aspetti suddetti, così anche per essa vale il [p. 116 modifica]medesimo principio; la verità di una percezione nel senso anti-idealistico è stabilita non da sè stessa, come dice il signor Rota (il quale così, senza saperlo, difensore malaccorto del realismo, apre le porte all’idealismo) ma dalle percezioni che, volendo, si possono ripetere e variare. Un cieco dalla nascita per cateratta, che veda in seguito alla operazione, ha una sensazione ed è certo di averla. Ma non sa tuttavia che rappresenti le cose al loro posto, per non avere ancora fatto l’esercizio e i confronti ora detti. L’ho accennato in una nota alla pagina 375 e seg. del mio libro, dove chiamo la percezione un esperimento, a differenza della semplice apprensione che chiamo una osservazione, e come metterò in piena evidenza in un libro che spero col tempo di pubblicare col titolo di dinamica mentale.

Quando poi soggiungo che la corrispondenza tra la cognizione e ciò che non è tale è indimostrabile, e che a mettere a fondamento della certezza un rapporto indimostrabile la si distrugge anzichè stabilirla e si diventa scettici, come fa Monsignor Rota, scettico senza saperlo, che faccio io se non ripetere quanto insegnano i migliori filosofi, anche quelli canonizzati, come S. Agostino e S. Tommaso? Anche quel Balmes che fu citato con tanto rispetto nel Vessillo del passato giovedì?

Dico che ripeto semplicemente quanto insegnano i migliori filosofi, perchè in ciò nè io, nè gli altri positivisti, non abbiamo innovato niente. Sicchè Monsignor Rota, che colle sue burle e coi suoi vituperj crede di canzonare me, canzona invece e vitupera i santi a cui fa orazione ed un autore che ha lodato e raccomandato, e quindi in fine dei conti, canzona e vitupera e chiama matto se stesso.

Ma i libri del Balmes li ha letti il signor Rota? Se li ha letti vi avrà trovato la dottrina che combatte. E allora perchè pigliarsela coi positivisti, in ciò semplici scolari, anzichè con lui, e perchè raccomandarne la lettura? O non li ha letti? In questo caso la raccomandazione che egli fa agli altri di leggerli io la faccio a lui. [p. 117 modifica]La faccio a lui perchè apprenda che sono proprio i suoi maestri quelli che dimostrano che egli nel voler difendere la realtà dei corpi si dà la zappa sui piedi e riesce precisamente a provare il contrario, scettico senza saperlo, come sopra lo trovammo positivista suo malgrado.

E farebbe opera assai più santa e profittevole che di studiarsi di mettere così goffamente in derisione ciò che non intende.

Quando Galileo dimostrava che la terra gira e il sole sta fermo, i Rota d’allora invitavano gli idioti a ridere di lui, sicuri che gli idioti non avrebbero potuto, nè ascoltare nè intendere i suoi ragionamenti divini, e vincere così le apparenze ingannatrici e i pregiudizi dell’ignoranza. I Rota d’adesso fanno lo stesso col positivismo. Ma il risultato sarà il medesimo. Ai Rota il plauso insensato e brutale del volgo più spregevole. Ai positivisti, come a Galileo, il santo conforto della cognizione del vero, la gloria della derisione per esso sofferta e il regno della scienza dell’avvenire.

Prof. Roberto Ardigò

(La Provincia del 25 settembre 1872).