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Lettere - Lettera VII

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VII.


Carissimo Padre

Rispondo alla vostra del 20 corrente. Non vi dissimulo, che mi travaglia non poco il pensiero intorno allo stato di salute di mia Madre. Cotesta oscillazione continua tra il bene e il male mi dà da temere. Non vorrei che fosse una malattia organica. Che ne dice il Medico? Comprendo, che l’arte è assai limitata, specialmente quando si tratta di veder dentro dove ci si vede poco o punto. Vorrei sapere almeno, se il Medico è riuscito a definire il carattere vero e reale della infermità; ditemi le cose come stanno, senza velarle menomamente, perchè il mio spirito si adatta meglio ad una trista verità, che agli ondeggiamenti di una incerta speranza.

In quanto alla mia liberazione lasciamo fare a chi spetta. Una qualche volta dovrà seguire. Non posso ragionevolmente argomentare, se questo termine sia lontano o vicino, perchè sono al buio di tutto; ma penso che ora si corre per i tre mesi, che noi siamo messi al sicuro; penso che, per quanto il termine sia lontano, ogni giorno ne passa uno, e, volere o non volere, sempre più ci avviciniamo al fine. Io bramerei uscirne più per gli altri della mia famiglia, che per me. Io per me sono quasi indifferente; mi son gettato a gatta morta sugli avvenimenti, e vado dove il flutto mi porta; volete, ch’io lotti contro il destino? – non ho nè voglia, nè forza per farlo: il destino è Dio, e l’uomo è un pugno di polvere.

Mi dite ch’io vi scriva più spesso. Io vi scriverei [p. 250 modifica]volentieri anche ogni giorno; ma che devo dirvi? devo raccontarvi delle novelle? Quando io vi ho scritto che sto bene, non ho più altro da dire. La vita del prigioniere è troppo semplice, è troppo monotona; la vita del primo giorno è la stessa di tutti gli altri che seguono, dovessero moltiplicarsi ancora fino a cento mil’anni. Immaginatevi un uomo solo solo, chiuso in due stanze, e padrone di ventiquattr’ore; che deve fare? mangiare, leggere, e dormire, – dormire, leggere, e mangiare; è un ritornello sempre su queste rime. Ed io di fatti non faccio altro. Mi riesce di stare a letto almeno diciotto ore del giorno, specialmente adesso che il freddo comincia a stringere; e vi confesso, che quando mi levo, invece d’essere un uomo di carne e d’ossa, mi sembra d’essere una balla di stoppa. Ma d’altronde, stare a letto non è lo stesso che stare a sedere? Ho provato a passeggiare per le due mie stanzette, ma quel trovarmi ogni momento colla faccia al muro mi dà la vertigine, e mi conviene a smettere. Io dunque sto quasi sempre a letto. Mi ricordo, che Carlo XII, quando cadde in mano dei Turchi, ci stette un anno di séguito senza mai levarsi; io sento di poterlo emulare; voi vedete, che gli uomini grandi in qualche cosa possono essere imitati dagli uomini piccoli.

Noi pure abbiamo avuto i cattivi tempi; un’acqua interminabile, e un vento così feroce, che non faceva stare in piedi le persone. Questa circostanza c’impediva di uscire a prendere quell’ora d’aria, che ci concedono; e di fatti un’ora d’acqua e di vento sarebbe stata una contradizione agli ordini prescritti. Vero è, che questi Signori, avuto un benigno risguardo a tale incidente, ora che il tempo si è rifatto bello [p. 251 modifica]ci permettono di respirare un poco più dell’ora destinata. Et voilà tout.

In questi ultimi giorni mi son fatto venire dei danari dal M.***, ed ho passato venti monete al G.*** Io per ora ne sono sufficientemente fornito.

Salutate caramente la famiglia, il B.***, e tutti coloro, che hanno memoria di me, e credetemi

Dalla ***, 22 Novembre 1833.

Il vostro Carlo.