Scritti editi e postumi/Lettere/Lettera VIII
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VIII.
- Carissimo Padre
Ho ricevuto la vostra del 2 corrente. L’unica cosa, che in essa mi abbia dato veramente conforto, è il sentire, che la salute di mia Madre vada ogni dì migliorando con un progresso positivo.
Per le buone speranze che mi date, vi ringrazio sinceramente; e se si verificheranno di fatti, io ci avrò molto piacere: altrimenti non sarà una rovina; – fiat voluntas Dei; – io ho coraggio più che taluno non crede.
Fondandomi sopra certe probabilità giudico anch’io, che la risoluzione dei nostri processi debba esser vicina; per altro avvertite bene, che risoluzione di processo non equivale a liberazione. Io stimo, che la risoluzione debba esser vicina, perchè adesso corrono quasi due mesi, che i processi sono stati compilati, e non vedrei ragione sufficiente a protrarre più là questo termine, sebbene il mio non vedrei potrebbe essere tutta colpa della mia cattiva vista. Nondimeno mi fido più a questo, che alle belle parole che scrivono la Signora V.***, e il Prete G.*** Cotesto linguaggio di lusinghe e di dolcezze, ricavato dalle Segreterie, ed altri simili luoghi, fu linguaggio tenuto fino da bel principio, ed è naturale; le Autorità interpellate in siffatti casi, sia per gentilezza, sia per calcolo, rispondono sempre umanamente; somigliano i medici, che ai parenti non dicono mai la vera verità. Però mi gode l’animo, che vi giungano spesso di queste buone voci; sono sempre qualche cosa meglio delle cattive voci, o del silenzio assoluto; io son sicuro del buon effetto, che producono sul vostro spirito. Così è; la felicità le più volte consiste nel sapersi ingannare. – Ma, se devo dire il vero, quello che finora non mi ha fatto congetturare un esito vicino delle cose, è il non aver sentito mai intepidirsi d’un alito la crudezza dell’atmosfera, che ci circonda; noi siamo trattati oggi collo stesso rigore, come il primo giorno della nostra deportazione. Questi nostri padroni ci custodiscono come mariti gelosi; e se talvolta abbiamo fatto la minima rimostranza sulle cose le più innocenti, ci hanno sempre risposto: – sono ordini. – Ora voi sapete, che gli ordini muovono dal centro, e che le Autorità intermediarie non oserebbero di alterarli menomamente, o inventarli di motu-proprio.
Tutto questo non vuol dir nulla; – una volta finirà la storia, o finiremo noi, che torna lo stesso. Quello però che devo soggiungervi è ch’io sono sbalordito affatto, e mi pare di aver nella testa un molino a vento. Dovete sapere, che casa mia ha delle strane vicinanze; – prima una pila, – poco più là un pozzo, – accanto al pozzo una campana, che, come Dio vuole, fin qui non aveva mai parlato. Di più dovete sapere, che nel Forte dove siam noi non passano altri che l’acqua e il vento, e pochi soldati destinati a guarnirlo; dimodochè, come vi ho già detto, la vita mia è invariabilmente uniforme. Ma in questi giorni ha subíto un cangiamento straordinario. Jeri 5 Decembre a mezzogiorno io me ne stava col capo appoggiato alle ferriate a godermi il benefizio del Sole, allorchè in un tratto vedo comparire un nuvolo di preti in erba, neri, sottili, affilati, non so se dalla fame, o dallo studio; – parevan lanterne; – e dietro a loro una furia di ragazzacci di tutte le razze, di tutti i colori. Alla insolita vista io rimasi di pietra, e mi stropicciai gli occhi credendo di travedere; ma i preti e i ragazzacci eran cose vere e reali, e bisognava crederci, e molto più bisognò credere a quello, che fecero pochi minuti dopo. Arrivati sotto la campana, i preti misero giù la lucerna, i ragazzacci il cappello, o la buffa, e poi tutti in un gomitolo attaccati alla fune della campana cominciarono a suonare a distesa. Lascio considerare ad ogni orecchio bennato l’effetto che ne provai. Sulle prime risi di cuore, perchè lo spettacolo era veramente nuovo, ed originale; ma poi andando per le lunghe quel suono lento, ingrato, uniforme come quando suonano a morto, davvero mi fuggì via quella tanta pazienza, ch’io mi ritrovo; e cominciai a sudare, e a correre su e giù per la casa come un ossesso, perchè veramente non ho mai avuto troppa simpatia coi campanili. Vi fu un momento, ch’io pensai, che fosse stato sentenziato di farmi ammattire. Però seppi dopo qualche tempo esser questa un’usanza del paese e che i così detti scolari per S. Niccolò hanno il diritto di suonare, la vigilia, e la festa del Santo, finchè hanno braccia; e di più, quando sono stanchi, i soldati caritatevolmente vengono in loro soccorso. Fatto sta, che, meno qualche poco d’intervallo, ora è un giorno e mezzo che suonano. Potete credere, che io non vi avrei fatto parola di questa freddura, se avessi migliori cose da dirvi. Frattanto salutate cordialmente la famiglia, e gli amici. Sono
- Dalla ***, 6 Decembre 1833.
Il vostro Carlo.