Sciotel/Parte Terza/Capitolo Primo
Questo testo è completo. |
◄ | Parte Terza | Parte Terza - Capitolo Secondo | ► |
PARTE TERZA
Capitolo Primo
1. Se ben si considera, la cattiva riuscita di un progetto qualsiasi, a prescindere da cause potenti imprevedute ed imprevedibili, dipende sempre da un difetto insito al progetto stesso, direi quasi da un peccato di origine, che lo accompagna sin dal suo nascere.
E, addentrandomi di più nella tesi da me posta, mi sembra che siffatto difetto o è proprio del progetto, ovvero si riscontra in colui che lo concepisce, che lo mette ad esecuzione.
Il difetto massimo inerente ad un progetto, e che esistendo ne arreca senza fallo la totale ruina, è la mancanza di proporzione tra lo scopo ed i mezzi che si adoperano per conseguirlo.
Difatto, accade alle volte che, concepito un progetto vasto, grandioso, o per calcolo errato, o peggio per male intesa parsimonia, si cerchi metterlo in opera con mezzi meschini, con capitali insufficienti; e viceversa.
Nel primo caso è evidente che ogni opera riuscirà vana, che il progetto così fatto sarà destinato a fallire, poichè chi troppo allarga il pugno nulla stringe, e chi vuole il fine deve poter disporre dei mezzi per conseguirlo.
Se, per citare un esempio, gli azionisti del Canale di Panamà si fossero sbigottiti alla nuova richiesta di capitali, fatta dal Lesseps, e li avessero negati, è chiaro che si sarebbe perduta l’opera sin qui fatta, che eglino ci avrebbero rimesso i capitali già impiegati, che il progetto infine sarebbe fallito. Ad opere così grandiose occorrono.capitali ingenti, e spesi a larga mano non già a poco a poco, a spizzico; occorre, per dirlo in poche parole, tenere la borsa sempre aperta, finchè l’opera non sia compita; poichè, il fare altrimenti, sarebbe l’istesso che voler prosciugare un mare con un guscio di noce.
Nel secondo caso poi la conseguenza è anche evidente; giacchè è noto che si può morire tanto per anemia, quanto per pletora; la differenza sta soltanto nel processo, ma il risultato è sempre lo stesso, cioè la morte; tanto è vero che gli estremi si toccano.
E per vero se si costituisse una società per fornire, poniamo, di calzature la sola città di Napoli, e ne producesse in tale quantità da essere esuberante per Napoli, da essere forse sufficiente per la intera provincia, potrebbe mai l’utile essere proporzionato alle giuste esigenze del capitale impiegato? Una società si fatta non sarebbe forse, sin dai suo nascere, destinata a fallire? Certamente sì.
Supponiamo per poco che il nostro Governo, nel fare la spedizione per Massaua, non ha avuto di mira altro che Massaua, la quale, per concorde parere di tutti gli uomini competenti, non vale per se stessa un fico secco; che ne avverrà?
Per me è chiaro; o presto o tardi noi saremo costretti ritirarci con le pive nel sacco; poichè l’utile non franca la spesa, e la sproporzione, l’esuberanza dei mezzi usati a conseguire lo scopo è evidente.
Poichè in un possedimento, dove dovrebbero essere soverchi cento baseibuzuc ed una brigata di carabinieri, il nostro Governo sarà costretto mantenere di continuo un esercito, per lo meno di diecimila uomini, e con quanta spesa ognuno può immaginarlo.
Dico immaginarlo, perchè, a quanto io so, non si è potuto conoscere quanto siasi realmente speso sinora in Africa; ma, per poter giudicare quanto la spesa debba essere enorme, basti tener presente che bisogna mandar tutto dall’Italia, financo le legna da ardere!
E l’utile, il profitto che ne ricaviamo, ed in particolar modo ora che siamo in aperta guerra con l’Abissinia?
Quasi nullo; tranne qualche conchiglia per fare bottoni, e qualche pelle di montone, da servire pei bimbi della nostra politica coloniale, acciocchè non imbrattino le lenzuola!
Le conseguenze che potrebbero derivare, che sono anzi derivate, dal difetto di sproporzione nel progetto coloniale governativo, noi le abbiamo in parte vedute: il dissesto nel bilancio, la necessità di rimaneggiare le imposte.
E se il Governo si ostinerà a camminare su questa via, che ne seguirà? Ne seguirà che dovrà ritirarsi quietamente con le pive nel sacco, come innanzi io diceva. Ovvero che, stancandosi fino allo estremo limite la pazienza del pazientissimo popolo italiano, questo sarà costretto a fare qualche energica dimostrazione, e probabilmente anche ad insorgere e forse anco a costo di rovesciare troni ed altari.
2. Ed oltre alla sproporzione tra il profitto ricavato ed i mezzi impiegati a conseguire lo scopo, c’è un’altra cagione che influisce potentemente a produrre la ruina dei progetti, i quali difettano per la esuberanza nei mezzi. Ciò è la misura con cui essi vengono adoperati, e la maniera il metodo usato nello esplicamento del progetto in parola. Poichè se è vero che vi sono delle imprese (sarei per dire eccezionali) che, per loro natura, sin dal loro sorgere richiedono grande e largo impiego di mezzi, di capitali, come sarebbero quelle del Lesseps; vi ha poi delle altre che, quantunque mirano pure ad uno scopo grandioso e, col tempo, dovranno disporre di mezzi e di capitali ingenti, pure debbono essere iniziate con poca cosa, con molta modicità e con mezzi limitati.
La grande spesa, generata dall’ingordigia, invece di dare a siffatte imprese vita e vigore, le farebbe intristire, anzi le soffocherebbe sul nascere. Noi vediamo che quelle cose hanno esistenza lunga e robusta, che, apparentemente piccole sul nascere, diventano man mano giganti; e l’altre contrario, che sul nascere sembrano giganti, si rimpiccioliscono, si atrofizzano.
Accade nell’ordine morale e politico, ciò che tuttodì coi nostri propri occhi vediamo avverarsi nell’ordine prestabilito delle leggi fisiche.
Ecco quella piccola pianticella; da poco è surta da terra, e già spande all’aria le sue lussureggianti e larghe foglie; s’innalza, s’innalza, invade le piante vicine, e poscia, quasi disdegnandole, si arrampica sui più alti alberi, ne sorpassa la cima, e mette fuori fiori e frutti, di colori sì vivi e così grossi che, a chi non lo sapesse, parrebbe che dovessero appartenere a qualche albero gigantesco, atto a sfidare i secoli.
Ma che è? che non è? ai primi rigori del verno le sue foglie s’ingialliscono, cadono; il suo fusto, tutto ad un tratto, si essicca, e la superba pianta muore: era una zucca.
Vedete invece quell’altra pianticella; ha appena una o due foglioline; il più piccolo filo d’erba, l’umile violetta mammola la sorpassano, e potrebbe sradicarla financo un bimbo di fresco nato, tanto è tenera e debole. L’erba però, la viola, e le altre pianticelle che l’attorniano, che l’opprimono, alla fine della loro stagione periscono; ma la pianta piccioletta resiste ancora; resiste alla neve, resiste al frigido aquilone, ed ogni novella stagione l’arricchisce di nuove foglie; incomincia a mettere qualche ramoscello, non è più oppressa, ha la sua parte di luce e di sole, ed ecco che gareggia in altezza con le sue vicine.
Gli anni trascorrono veloci; intorno ad essa, divenuta già albero, si avvicendano generazioni di piante e di animali, ed essa resiste sempre, ed ogni anno aumenta i suoi rami; dà dei frutti piccoli ma abbondantissimi, e, caso strano, le piante che le fan corona divengono rachitiche, intristiscono, muoiono; son costrette farle largo, cederle il posto, poichè i suoi fronzuti rami tolgono a loro luce e calore, le sue innumerevoli radici succhiano tutto il nutrimento della terra circostante.
Ed essa invece s’abbarbica sempre più potentemente, s’innalza sempre, diritta e forte e sfida il fulmine e la bufera: Ecco la quercia!
Non altrimenti accade, come innanzi io avvisava, nell’ordine economico, nell’ordine politico; ed un esempio splendidissimo ce l’offrono Roma e Venezia.
Due bastardi ed un manipolo di uomini, forti sì e risoluti, ma che, se fossero vissuti ai nostri giorni, sarebbero stati ammoniti, anzi sottoposti alla sorveglianza speciale, fondarono una città: dapprima le mura potevano facilmente scavalcarsi con un salto; nessuno li avvicinava, tutti li fuggivano; ma la fermezza dei loro animi, superando qualsiasi ostacolo, trionfò sempre.
Guerreggiarono, e le loro aquile, rapaci, ma civilizzatrici, si librarono vittoriosamente su tutto il mondo allora conosciuto; e così eglino insegnarono a leggere, scrivere, e procedere da galantuomini a tutti i barbari, che sentirono l’urto delle loro legioni, non esclusi i nostri odierni maestri, i Tedeschi!
Gli abitatori di Aquileia, sfuggendo all’ira del flagello di Dio, si rifuggiarono al mare, e, sopra alcuni scogli deserti, gittarono le fondamenta della ex regina dell’Adriatico e dei mari tutti. Indi trafficando incessantemente, tacitamente, estendevano i loro dominii commerciali e politici su la maggior parte degli scali di Levante. E, poichè la loro apparente umiltà non facea ombra ad alcuno, assursero infine a tanta potenza che, allorquando si spiegava al vento il sacro leone, esso facea venire i brividi ad Imperatori e a Papi.
Il contrario siamo costretti di dire del Primo Napoleone, poichè Egli in brevissimo tempo trascorse vittoriosamente l’Europa e l’Egitto, cadde, risorse, giacque.
Anzi, per dirla col poeta
Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanare al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro il baleno,
Scoppiò da Scilla al Tanai
Dall’uno all’altro mar.
Seminò dovunque, e a piene mani, re e principi della sua stirpe, ed i suoi contemporanei forse credeano che il suo regno non dovesse avere mai fine.
Ma, quando parea che il suo astro fosse più fulgido, e che non dovesse giammai tramontare, una leggiera nube l’offuscò interamente; ed egli, che avea vinto tante battaglie, che avea superato agevolmente tanti ostacoli, per una cattiva guida perdè a Waterloo, e giacque.
E giacque per sempre! si che il suo gloriossissimo, ma breve impero si potrebbe paragonare (non mi si tacci d’irriverenza) alla vita di una zucca!
Ecco adunque come il metodo, la misura, con cui s’impiegano mezzi pel conseguimento di un dato scopo, può nuocere grandemente ad un progetto, tanto da condannarlo, sin dal principio, a fallire. 3. Mi si potrebbe però opporre che siffatto difetto nel metodo, nella misura della spesa, che io riscontro insito al progetto, sia invece proprio del progettante. E forse sarà vero, ma a me pare che, in fin dei conti, il difetto sopradetto non si riduca ad altro che ad una sproporzione tra il fine ed i mezzi usati per conseguirlo; e propriamente ad esuberanza nei mezzi. Saremmo adunque nella seconda ipotesi della sproporzione tra mezzi e fine; e quindi posso ben dire che, anche in questo caso, il difetto è insito al progetto stesso.
Potrei dimostrare ed avvalorare questo mio concetto con numerosi esempii e validi argomenti; ma mi astengo, sia per non dilungarmi di soverchio, sia perchè, anche ammesso che il difetto si debba attribuire al progettante, vorrà dire che egli potrebbe avere due difetti massimi, invece di uno; giacchè l’altro è la poca o niuna costanza e fermezza di proposito.
Vi sono alcuni che passano tutta la loro vita di progetto in progetto, di opera in opera, ma senza condurre alcuna a buon porto; poichè hanno appena cominciato una, quando la lasciano per correre ad un’altra che a loro sembra migliore.
Costoro si potrebbero ben paragonare alle farfalle, che trascorrono la loro brevissima vita svolazzando di ramo in ramo, di fiore in fiore, senza far nulla di bene; anzi nuocendo immensamente all’agricoltura, per gli innumerevoli bruchi che seminano dovunque passano.
La irrequietezza di siffatti progettanti è generata alle volte dal non studiare bene, dal non approfondire i progetti prima di metterli in esecuzione: alle volte poi dagli ostacoli che s’incontrano per via, e secondo che si va avanti nell’opera.
Non vi ha dubbio che, per poter mettere in esecuzione un progetto, è necessario studiar prima e bene tutte le sue parti, anche le minime, per potersi formare un concetto chiaro e preciso. Alcuni però non appena hanno abbozzato un progetto, quando ancora non sanno bene essi medesimi ciò che vogliono, si mettono subito all’opera. Le difficoltà, gli ostacoli che incontrano, sono innumerevoli, e non hanno ancor tolto uno che subito se ne presenta un altro; così che eglino debbono modificare i loro piani, mutare via, fare, disfare, e rifare da capo ad ogni piè sospinto, avvolgendosi sempre in un intricatissimo laberinto.
La loro idea intanto può essere buona, utile, pratica; ed un altro più attento, più studioso se l’appropria, e, dopo maturo esame, la mette in esecuzione con felice risultato. Ed il primo progettante, sopraffatto dal nuovo è costretto cedere il posto per volare ad altri progetti; ovvero stendere la mano al suo antagonista, chiedendogli aiuto e protezione, affine di essere liberato dal laberinto in cui si aggira.
Altri progettanti poi vedono sempre, e tutto, color di rosa; per loro non esistono difficoltà, non esistono ostacoli, tutto è piano, tutto è facile.
È inutile che m’intrattenga a dimostrare quanto ciò sia pernicioso; poichè non vi può essere persona, la quale non sappia, come non c’è opera, per quanto piccola e modesta, che non abbia le sue difficoltà. Perciò avviene che, coloro i quali s’immaginavano di andare in Paradiso per ferrovia, al minimo ostacolo che incontrano si perdono di animo e ritornano al domestico focolare.
Ecco per esempio un irrequieto viaggiatore; egli ha letto in un certo libro che, in una certa latitudine dell’Africa, c’è una valletta dove certamente ha dovuto succedere l’incontro di Adamo ed Eva; gli vien vaghezza di vederla e parte.
Condensata in poche pagine ha letto la relazione del viaggio, che forse è durato dei mesi, e, naturalmente gli sembra facilissimo, perchè chi è lontano dal ballo fa gran salti. Ma, quando si trova in ballo, è tutt’altro; ed alla prima goccia di sudore, alla prima mosca che gli ronza alle orecchie, alla prima spinacristi che lo punge, al primo ruggito, alla vista della prima testa irsuta e unta di burro, scappa ai patrii lari, dichiarando altamente che quel clima è impossibile, che le mosche sono impossibili, che i leoni, gli indigeni sono impossibili ecc. ecc. insomma per lui tutto è impossibile.
Tornato in patria, forse per cancellare interamente la memoria del caldo sofferto, si dà tutto alla lettura dei viaggi artici, ed a poco a poco se ne innammora, s’infiamma poichè cosa gli sembra molto più facile della prima.
Il caldo è insopportabile, è impossibile, ma il freddo è fatto soltanto per gli scamiciati; una buona pelliccia protegge da qualsiasi bassa temperatura. E poi non si è costretti a viaggiare sul cammello, sul mulo, sull’asino, a piedi e mancando spesso del necessario: ma, sul ghiaccio, si è comodamente trasportati dalle slitte, e per mare si è con lusso alloggiati in una forte ed elegante baleniera, sulla quale nulla manca, vi è tutto, il necessario ed il superfluo, vi è, per dirla in due parole, ogni confort.
Ma ecco che sorge improvvisa la pungente tramontana, che penetra fin nelle ossa; l’ice-berg, l’ice-field e tutte le innumerevoli specie di ghiacci, minacciano ad ogni momento di stritolare la svelta baleniera; a terra gli orsi bianchi mettono di continuo in mostra le loro bramose gole, e i pungentissimi e fortissimi denti: il nostro ardito viaggiatore vira prestamente di bordo e, a tutto vapore, ritorna nei placidi seni nativi, dichiarando, al suo solito, che quelle latitudini sono addirittura impossibili!
Ma ancora non è tutto finito; poichè alle orecchie del nostro eroe perviene la nuova, che, nell’estremo lembo delle Americhe, c’è un regno stranissimo, stranissimamente governato da Sua Maestà X. I. che risiede a Parigi, e che dispensa a larghe mani onorificenze e titoli a destra e a sinistra.
Come resistere alla tentazione di andare a visitare quella regione? A che serve il danaro, se non ad istruirsi viaggiando? ecc. ecc.
Si fa vela per l’America; e questa volta il viaggio prende l’aspetto di una vera gita di piacere, tanto è facile! Si invitano gli amici, e per poco non si porta seco la graziosa appendice, la cocotte.
Ma ecco che, non appena sbarcati, a pochi passi dalla riva, vedono un’orma gigantesca; parrebbe di un pachiderma, ma è di un uomo. I giovani touristes, a quella vista, fanno dietro-fronte e spiegano tutte le vele al vento: decisamente, quei Patagoni sono della gente impossibile!.
Mi pare adunque che con ragione io paragonava siffatti uomini alle farfalle, che passano tutta la lor vita svolazzando di ramo in ramo, e seminando bruchi dovunque si posano.
Mi si potrebbe però dire che, tutto ciò che io ho scritto, non è altro che poesia, volo rettorico e forse di cattiva lega, che nella realtà siffatte persone non esistono: ma io potrei citare noi, e così dimostrare coi fatti quanto ho detto.
Ma, sia pure poesia, sia pure rettorica, io sarò soddisfattissimo se, per mezzo loro, son riuscito a dimostrare che, per potere condurre a buon porto un progetto, è necessario innanzi tutto studiarlo a fondo, e poi prevedere tutte le difficoltà che si possono incontrare nell’attuazione. E che, invece di nascondere gli ostacoli che vi si possono opporre, è più util cosa manifestarli francamente, suggerendo in pari tempo, e preparando i rimedi per superarli agevolmente.