Scientia - Vol. X/Esiste una filologia indiana?

Luigi Suali

Esiste una filologia indiana? ../Dell’Attenzione ../Cournot et le pragmatisme scientifique contemporain IncludiIntestazione 3 novembre 2011 75% Scienze

Dell’Attenzione Cournot et le pragmatisme scientifique contemporain

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ESISTE UNA FILOLOGIA INDIANA?



Uno dei titoli maggiori che l’Inghilterra possa accampare alla riconoscenza del mondo civile, è di averci dischiuso un novissimo campo di ricerche con la sua commista commerciale e militare dell’India. Gli studî intorno alla lingua e alla letteratura sanscrita, cominciati per merito di alcuni degli uomini che l’Inghilterra mandava ad amministrare la nuova colonia[1], trovarono in Europa ammiratori entusiasti fra i Romantici tedeschi. Per opera di essi e, insieme con essi, del Goethe, si era già determinato un nuovo orientamento degli spiriti verso quella che i Tedeschi chiamano «Weltliteratur» e, in modo particolare, un desiderio intenso di conoscere l’antica sapienza dell’India, di cui solo scarse notizie erano giunte fino allora in Europa. A tale curiosità rispose il libro famoso di Federico Schlegel Ueber die Sprache und Weisheit der Indier (1808), che fu come il battesimo e la consacrazione ufficiale dei nuovi studi. Nei quali fin dal principio si determinarono due diversi indirizzi: l’uno, che si serviva del sanscrito come di un mezzo di ricerca glottologica e come di un elemento essenziale all’indagine comparativa; l’altro, che considerava la lingua e la letteratura iudiana in sè e per sè, come espressione della mentalità di un [p. 353 modifica]popolo. I due indirizzi, che chiameremo rispettivamente glottologico e filologico, si trovarono alcuna volta, in quel primo stadio della glottologia indo-europea e della filologia sanscrita, rappresentati insieme in un sol uomo: ed era possibile, ed era lecito, perchè solo partendo dalla conoscenza del sanscrito si potevano mettere le basi del grande edificio glottologico moderno. Ma ben presto le due correnti si separarono, le due discipline presero forma autonoma: i glottologi si impadronirono dei dati e degli elementi linguistici che il sanscrito loro forniva, mentre una nuova schiera di studiosi, allettati da una letteratura che le prime ricerche e i primi testi pubblicati lasciavano intravvedere grandissima, proseguirono nella indagine diretta della civiltà indiana. Nè la fusione dei due indirizzi su mentovati era più possibile: l’attività dei ricercatori aveva rivelato in pochi anni una congerie così grande di testi, una così rigogliosa varietà di manifestazioni letterarie, una civiltà così complessa ed evoluta, che il voler essere a un tempo glottologo e sanscritista, apparve ben presto più che un’audacia. E a compiere quest’opera di individuazione scientifica della filologia sanscrita, bastarono pochi decenni. Possiamo dire che per essa l’indirizzo umanistico e l’indirizzo critico furono contemporanei, perchè i dotti che si davano avidamente allo studio di una letteratura la quale quasi ogni giorno rivelava nuovi tesori[2], potevano approfittare dell’esperienza scientifica e della secolare tradizione delle due più antiche filologie, greca e latina. Il campo di ricerche, già così vasto per la vastissima letteratura sanscrita (sono tre mila anni di ininterrotta tradizione letteraria) si allargò ancor più allorché si vide — uè si tardò molto a vederlo — che accanto alla sanscrita si erano svolte [p. 354 modifica]nell’India altre letterature antiche e rigogliose. L’India non è, come falsamente si è avvezzi a considerarla, un’unità nò geografica nè storica: ogni regione di essa ha la sua propria fisionomia, le sue tradizioni locali, le sue leggende, la sua storia. Il sanscrito fu ed e anche oggi[3] — la lingua letteraria di tutto il paese, e servì di espressione alla civiltà che gli Arya vittoriosi avevano imposta; ma nelle singole regioni della grande penisola gaugetica crebbero e prosperano letterature parallele, che della prima subirono l’influenza e ne esercitarono a loro volta su di essa.

Col nome generico di prâcriti si indicano le lingue cosidette medioevali dell’India, che stanno al sanscrito a un dipresso come le lingue neo-latine stanno al latino[4]. Tra i pràcriti, si differenziò più profondamente, e assunse un aspetto individuo e autonomo, il pali, che per ciò si suole distinguere da essi. Ora, tanto il prâcrito — o, meglio, i prâcriti — quanto il pâli, ebbero uno svolgimento letterario tutto proprio e una produzione ragguardevolissima. Per dare un’idea dei rapporti di queste letterature con la sanscritica, mi si conceda di fare un’ipotesi bizzarra. Immaginiamo che il latino abbia continuato [p. 355 modifica]ad esistere nella sua purezza classica, anche dopo che le lingue romanze si erano formate, su tutta l’estensione dell’antico impero romano, e che si sia continuato a parlarlo dalle persone colte e a scriverlo come la lingua letteraria di tutta quella vasta superficie di territorio. Qualche cosa di simile è il sanscrito rispetto ai prâcriti e al pâli; ne il paragone deve sembrare esagerato, se si pensa che l’India supera in estensione l’Europa neo-latina[5] . Ora, è facile immaginare quali scambi, quali influenze reciproche continue e profonde abbiano avuto luogo, nel corso di tanti secoli, fra letterature così affini. Da ciò la necessità di estendere lo studio scientifico anche alle letterature pràcritica e pàlica. Che tale nuovo indirizzo si imponga ormai in ogni campo di ricerche indologiche, cercherò ora di documentare.


Il Barth e il Grierson, riassumendo il classico libro del Jacobi sul Ràmàyana[6], enunciarono e sostennero, l’uno indipendentemente dall’altro[7], l’ipotesi che l’epopea indiana sia stata composta originariamente in prâcrito, e solo più tardi, verso il principio dell’Era volgare, rielaborata, se non addirittura tradotta, in sanscrito. Questa teoria aveva il doppio difetto di non considerare tutti i lati del problema e di estendere a tutto intero un genere letterario ciò che è giusto per una parte di esso; ma aveva il grande merito di mettere in luce una serie di fatti nuovi, di indicare un insieme di particolari assai ragguardevoli per la storia letteraria dell’India. [p. 356 modifica]Partendo dalle argomentazioni del Barth e del Grierson, ribattendone alcune, altre svolgendone, il Jacobi, in un suo sostanzioso articolo pubblicato nel vol. 48 della «Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft»[8], corresse e compì la teoria dei due dotti ora nominati. La questione sta nei termini seguenti:

Occorre distinguere due specie di epopee: l’una che chiameremo eroica, rappresentata dal racconto delle gesta di di Râma e della lotta fra i Kuruidi e i Panduidi; l’altra, che si è proposto di chiamare «romantica». La materia della prima ricevette forma letteraria in un sanscrito che, per le sue particolari caratteristiche, si usa chiamare appunto sanscrito epico: e per essa appare infondata, o almeno dubbia e difficile a sostenersi, la teoria di una precedente redazione in una delle lingue popolari dell’India, — teoria che può invece applicarsi all’epica romantica. Di questa vogliamo ora accennare brevemente i tratti caratteristici. Nostra fonte principale à il Kathâ-sarit-sâgara, perchè l’originale da cui essa deriva, la Brihat-kathâ di Gunâdhya, era composta veramente in una delle lingue popolari dell’India, e risale a un tempo assai antico, circa al principio dell’Era nostra. In questa, che a buon diritto può dirsi la grande enciclopedia novellistica dell’India, si trova contenuta e conservata la parte più importante, se non maggiore, del patrimonio di novelle e di racconti correnti al tempo dell’autore. Varî sono gli elementi di cui il testo risulta formato: alcuni erano forse fin d’allora libri popolari, come il Pan̄catantra e le Venticinque novelle del Lemure (Vetâlapan̄cavimçatikâ); altri, erano racconti tramandati oralmente da cantastorie, gli uni in prosa, con intercalate qua e là delle strofe, gli altri in forma metrica di romanze. Racconti e romanze formarono, come si può dedurre dal Kathâ-sarit-sâgara [9], la parte più ragguardevole della poesia epica «popolare» nei primi secoli dell’Era nostra. Tali racconti epici tendevano fin d’allora a disporsi naturalmente in cicli, dai quali potevano sorgere delle epopee indipendenti [p. 357 modifica]. Così i racconti intorno a Vikrama nel libro XVIII del K.S.S., formano già un ciclo al quale in seguito si aggiunsero altre saghe sullo stesso eroe; un piccolo epos forma, nel libro XVII, il racconto di Muktâphalaketu e di Padmâvatî. Anche il racconto cornice del K.S.S. — la storia di Udayana — formò ben presto un epos romantico, che al tempo di Kâlidâsa raccontavano i vecchi della città Avanti.[10]

Ci troviamo dunque di fronte a rielaborazioni di epopee popolari, che tutto induce a credere composte originariamente in prâerito. Esse avevano un carattere, per così dire, borghese: si indirizzavano alla classe meno erudita della popolazione, e non ai più colti e più raffinati: serva di prova la testimonianza or ora citata di Kâlidasâ. Evidentemente, la lingua di cui si servivano i cantori doveva esser tale, da poter essere intesa dall’uditorio al quale quei racconti si rivolgevano: una lingua, dunque, popolare: non il sanscrito, ma un prácrito. Del resto, una prova del fatto sta in ciò, che la Brihat-Kathâ di Gudhya era composta appunto in prâerito. Il tempo del maggior fiorire dell’epica romantica è in rapporto diretto con quello in cui fiorì l’autore della Brihat-Kathâ, dalla quale, come già vedemmo, trassero origine le successive rielaborazioni sanscrite contenute nel K. S. S. Ora, Gudhya visse, per (pianto ne sia incerta l’epoca esatta, nel primo o al più tardi nel secondo secolo d. C.: sicché è lecito far risalire il materiale ora studiato di epica romantica, al più tardi a quell’epoca, e più addietro ancora, se si considera il tempo necessario perchè le saghe e le novelle si formino e si sistemino in linee ben definite. Più lontano ancora potremmo risalire, se prendessimo in considerazione i jâtaka buddistici, considerandoli tuttavia, non come prodotti di epica romantica in lingua popolare, ma come testimoni e riprova dell’esistenza di essa.[11]

Qui dunque noi abbiamo l’«epica popolare in lingua popolare», che il Grierson e il Barth postulavano a buon diritto, ma che ricercavano a torto nelle due maggiori epopee letterarie. Si tratta insomma di una grande corrente, parallela ma distinta da quella dell’epopea eroica.[12] [p. 358 modifica] Il risultato a cui tale discussione ci ha condotti, è evidentemente assai importante, e getta una luce del tutto nuova su la più antica storia della novellistica indiana, dalla quale trasse così ampio alimento la novellistica occidentale; ne vi sarà alcuno che voglia dubitare della necessità di ricorrere alle fonti prâcritiche per lo studio di questa immensa corrente letteraria che, uscita dall’India, attraverso la Persia si diffuse ad allagare tutta l’Europa.


Lo sviluppo e il fiorire delle novelle nell’India è in rapporto strettissimo con la vita religiosa del paese: esse servivano ai predicatori delle varie confessioni a dimostrare praticamente questo o quel principio, a raccomandare l’osservanza di questa o di quella norma di condotta. Di un simile mezzo di propaganda popolare si servirono soprattutto i Giáina e i Buddisti: e i testi religiosi dei primi, composti in prâcrito, e il canone dei secondi, scritto in pâli, sono miniere inesauribili di sempre nuovi documenti per la storia della novellistica. Specialmente importanti sono i jâtaka buddistici, [13] che del Canone sono una sezione ragguardevole e fra le più interessanti, non solo per la dottrina ma in generale per la letteratura e la cultura indiana e, sotto un certo aspetto, anche per la indo-europea. Jâtaka significa «nascita, esistenza». Ora, per i Buddisti, come per gl’Indiani tutti, la nostra vita attuale altro non è che una fase dell’immenso viaggio che ogni anima compie per il gran mare dell’essere, da quando cominciò la propria vita fino a qiando si sarà fatta degna di assurgere alla suprema pace del nirvána. [14] Anche il Buddha, uomo egli pure, passò attraverso un infinito numero di esistenze, prima di giungere all’attuale: vi passò, come vi passarono i suoi discepoli, i suoi uditori, tutti (pianti rivestono spoglie mortali. Ma egli è l’Illuminato, e i suoi occhi [p. 359 modifica]tali, latti veggenti da una scienza superumana, rivedono tutto l’infinito corso delle esistenze anteriori e sue e dei suoi discepoli e dei suoi ascoltatovi, ai quali per ammaestramento morale egli racconta or questo or quell’episodio di una vita anteriore o sua o di loro. Ognuno di questi racconti costituisce un jâtaka, e consiste in una novella o in un apologo — anche apologo, perchè, secondo la dottrina indiana della metempsicosi, un’anima poteva rinascere anche nel corpo di un animale. Nei jâtaka pâlici dei Buddisti noi abbiamo conservato senza dubbio un antichissimo patrimonio di leggende popolari; nò la ricca messe è limitata a questo solo genere di racconti, perchè anche negli altri testi del Canone, soprattutto nelle sezioni dei Sûtra e del Vinaya[15] , troviamo numerose leggende intercalate nei testi o nei commenti.

Se dai testi palici torniamo ai pràcritici, troveremo un materiale non meno copioso. Già vedemmo che il K.S.S., la grande enciclopedia della novellistica indiana, deriva da un opera in pràcrito composta sul principio dell’Era volgare. E come, nella letteratura pàliea, il Canone buddistico ci offre un’ampia congerie di credenze e di racconti, così, nella letteratura pràcritica, il vasto Canone dei Giáina[16] ci fornisce, nei testi e nei commenti, un ricco e nuovo raccolto, tanto più interessante, in quanto lo studio scientifico di esso è ancora poco più oltre che agli inizi.

Potrebbe alcuno obbiettare che queste leggende, per quanto numerose e ragguardevoli, sono pur sempre limitate alle opere canoniche di due sette religiose, e che quindi non inette conto di studiare i prâcriti e il pâli per poter leggere un numero di testi pur sempre limitato, per quanto si voglia vasto. A parte la superficialità dell’obbiezione — (e vedremo che per troppe altre ragioni la conoscenza di queste due letterature s’impone a ogni serio studioso della civiltà indiana) — sta il fatto che intere raccolte di novelle sono state composte in pràcrito, e che non di rado le redazioni sanscrite riposano su precedenti redazioni pràcritiche. Basterebbero a dimostrarlo i rapporti, di cui già tanto parlammo, del K. S. S. [p. 360 modifica]con la Brihat-kathâ di Gunâdhya; ma se questo pare troppo poco efficace, eccone un altro, che si riferisce ad un genere letterario affine. Noi abbiamo un vasto poema, intitolato Allegoria della vita, che costituisce uno dei più ragguardevoli monumenti letterari scoperti in questi ultimi anni: orbene: il testo sanscrito[17] altro non è che il rifacimento di un originale prâcritico.[18] Chi voglia convincersene, può confrontare le due redazioni, che sono ora in corso di stampa a Calcutta, nella «Bibliotheca Indica».

A questo punto si può osservare: concediamo che per la novellistica e per una parte dell’epopea sia necessario chiamare in aiuto anche le altre letterature dell’India; ma la novellistica è tra i generi meno letterari: resta la drammatica, resta la lirica.... Ottimamente: rivolgiamoci dunque agli altri generi, e cominciamo dalla drammatica. Prendiamo a caso, fra i tanti drammi indiani pubblicati, uno qualunque: anzi, meglio, scegliamo quello che è più noto al gran pubblico colto per una strofa del Goethe che lo rese famoso — la Çakuntalâ di Kâlidâsa. Apriamolo, ad es., alla scena del riconoscimento dell’atto VII: Çakuntalâ — l’eroina, notisi — parla in prâcrito, e in prâcrito parlano le altre donne del dramma e i personaggi di condizione inferiore. È questo un principio della tecnica drammatica indiana, che, tranne i personaggi delle classi più elevate, gli altri parlino ciascuno il proprio dialetto: dalla qual cosa risulta che il dramma indiano ci presenta nel mondo più immediato e più evidente la compenetrazione delle due letterature sanscrita e prâcrita. Ora domandiamo: è possibile pretendere di conoscere una letteratura senza conoscerne il teatro? È possibile leggere un dramma indiano ignorando il prâcrito? Potrebbe alcuno rispondere: sì, perchè i commentatori indiani traducono il pracrito in sanscrito. Ma la restituzione sanscrita dei commentatori non è sempre esatta: e poi, uno studioso di letteratura indiana che per intendere un passo di prâcrito ricorre alla [p. 361 modifica]traduzione in sanscrito, non è molto diverso da chi si pretenda colto e abbia bisogno di ricorrere alla traduzione a piè di pagina, di una sentenza latina incontrata leggendo.

Non minore importanza hanno le due letterature prâcrita e pâlica, per la lirica. Nella quale, per comodo di esposizione, distingueremo le due forme più notevoli nell’India: la religiosa e l’erotica. Quanto alla prima, il Canone buddistico ci fornisce dei veri capolavori: basti citare il Dhammapada[19] e la Theragâthâ[20]. Quanto alla lirica erotica, prima di discorrerne di proposito, debbo accennare che, anche per questo genere letterario, come già per l’epopea, vi fu chi sostenne che la lirica sanscrita è stata foggiata su antichi prototipi prâcritici. Non è qui il luogo di discutere diffusamente una simile teoria; ma giova averla accennata, per mostrare come sia nella persuasione e nell’intuizione di ogni vero studioso, che nessuna questione riguardante la vita intellettuale dell’India può trattarsi a fondo con le sole fonti sanscrite. Comunque, nella questione particolare della lirica erotica, sta il fatto che uno dei testi lirici più antichi dell’India — le Centurie di Hâla — è scritto precisamente in prâcrito. Secondo il Weber, che primo la studiò la pubblicò e la tradusse,[21] l’opera può rimontare al massimo al terzo secolo dell’Era nostra. La data può sembrare sulle prime relativamente recente; ma occorre considerare che le Centurie di Hâla non sono l’opera individuale di un unico autore, ma una vera e propria antologia idilliaca ed erotica, che ci conserva il fior fiore della produzione di tutta una pleiade di poeti, di cui le opere sono ora in massima parte perdute. Una delle sette recensioni in cui l’Antologia ci fu conservata, dà i nomi di centododici poeti, un’altra, di trecento ottantaquattro.[22] L’incertezza dei dati è grande, come si vede; ma resta ad ogni modo indiscusso e [p. 362 modifica]indiscutibile il fatto che le Centurie di Hâla presuppongono una ricca letteratura in prâcrito, svoltasi per lungo tempo e giunta a rigogliosa maturità.

Alla stessa conclusione ci conduce un’altra Antologia prâcrita, di data incerta, l’Antologia poetica di Jayavallabha. Per quanto ce ne informa il Bhandarkar, [23] il testo contiene settecentoquattro strofe prâcrite, più un commento sanscrito: disgraziatamente, non sono dati i nomi degli autori; ma per quanto risulta dagli estratti forniti dal Bhandarkar stesso, noi abbiamo qui una nuova collana di gemme poetiche, in gran parte ancora sconosciute.

A tal punto provo il bisogno di prevenire un’obbiezione. Si potrebbe pensare che nell’India le letterature prâcritiche siano solo parallele alla letteratura sanscrita, a un dipresso come fra noi sussistono accanto alla letteratura italiana le letterature dialettali, pur insigni di pregi artistici. Ma l’obbiezione non regge. Anzitutto vedemmo che si tratta, non di una coesistenza pura e semplice, ma di una compenetrazione delle due letterature, direi quasi, di una vera e propria osmosi. Le letterature prâcritiche ricevettero una perfetta elaborazione letteraria, sì da essere considerate nell’India come degne di ogni più alta considerazione, pur accanto al sanscrito, più solenne e, direi, più aulico. La riprova inconfutabile l’abbiamo nei trattatisti indigeni di retorica, che sono tra i critici più fini, tra gl’indagatori più acuti e più amorosi delle bellezze di forma e di concetto. Ora, in più di una di tali Retoriche indiane, troviamo citate e riportate, come esempi di bello scrivere, strofe intere in prâcrito, [24] alcune tolte da testi già noti, altre di cui finora ci rimane nascosto l’autore. Come si vede, gli stessi Indiani avevano dato diritto di cittadinanza letteraria alle produzioni in prâcrito. D’altra parte, l’importanza di queste è tale, in ogni campo della civiltà indiana, da renderne indispensabile la conoscenza [p. 363 modifica] compiuta per lo studio di tutti — o quasi tutti — i problemi riguardanti la cultura dell’India.

Poichè quanto fin qui son venuto dicendo, si può estendere, con maggior diritto ancora, alla storia religiosa. Le due confessioni buddistica e giaínica hanno esercitato, per quanto in modo diverso, un’influenza assai grande su la vita intellettuale dell’India. I Giáina costituiscono una setta più filosofica che religiosa, la quale elaborò un’ontologia, una psicologia, una logica ed un’etica del tutto proprie. I loro testi, scritti parte in sanscrito e parte in prâcrito, si sono cominciati a studiare metodicamente in quest’ultimo trentennio, e i risultati ottenuti in rapporto alla storia generale delle idee filosofiche dell’India hanno superato di gran lunga l’aspettativa degli studiosi. Nel campo più preciso della storia religiosa, il canone prâcrito dei Giàina è di capitale importanza, non solo in sè, ma anche per ciò che riguarda l’evoluzione religiosa dell’India: cito solo, di passaggio, la rielaborazione del materiale mitologico e della dottrina panindiana della metempsicosi. Un interesse più immediato e più ampio ha per per noi il Buddismo, non per la grottesca parodia, che hanno voluto farne i teosofi moderni, ma perchè esso è divenuto una delle religioni mondiali, e offre alimento spirituale a una gran parte della popolazione asiatica. Dall’India, esso si è diffuso in tutta l’Asia: nel Tibet, nella Cina, nel Giappone, nell’Indo-Cina, nell’Arcipelago Malese. Difficile, se non impossibile, è il fissare la cifra esatta dei suoi seguaci, mancandoci dati statistici sicuri; ma ad ogni modo è da ritenersi erronea l’antica consuetudine di ascrivere al Buddismo quasi tutti i trecentonovanta milioni di abitanti della Cina. Secondo il Söderblom, [25] uno dei maggiori storici delle religioni, e gloria dell’Università di Upsala, il numero dei Buddisti in Asia va fissato a un minimo di centosessanta milioni, numero tuttavia molto probabilmente assai inferiore al vero, per quanto ragguardevole. Ora, il Canone buddistico ebbe due redazioni diverse, note coi nomi di settentrionale e meridionale. Quest’ultima si è conservata per intero, ed è scritta in pâli; l’altra invece è composta in un sanscrito corrotto da frequenti contaminazioni dialettali, e ci è rimasta solo in parte nella redazione indiana, mentre ne esistono complete le versioni tibetana [p. 364 modifica] e cinese. Dato ciò, dobbiamo noi chiederci di nuovo se la conoscenza del solo sanscrito può fornirci una nozione sufficiente del Buddismo? La risposta è evidente, nè occorre insistervi: ma chi voglia averne una riprova, scorra il libro classico dell’Oldenberg sul Buddha, [26] e guardi ai testi ivi citati e tradotti: per la massima parte sono in pâli. Ne si obbietti che esiste pur tuttavia un Buddismo settentrionale, fondato su testi numerosi e importanti. Già notammo che il sanscrito buddistico risente assai di influenze dialettali: ma, a parte ciò, chi vorrebbe studiare un sistema religioso trascurando la redazione più ampia e più compiuta del suo canone?

Prima di lasciare il dominio della storia letteraria — intesa nel suo più vasto significato — mi resta a dare un cenno della produzione filosofica dell’India nei suoi rapporti con le letterature del paese. La lingua usata nei testi filosofici è il sanscrito: e la ragione è chiara, perchè la filosofia, derivata, nelle sue prime origini, dalle speculazioni bramaniche, [27] fu, e non poteva non esserlo, l’opera delle menti più raffinate e più colte. Ma anche le sette dissidenti portarono allo sviluppo della filosofia un contributo tanto ragguardevole, da potersi dire, con piena certezza di dire il vero, che la logica (per parlare solo di una parte degli studi filosofici) ebbe dai Buddisti un tale perfezionamento, da sostenere con vantaggio il confronto con la logica aristotelica. Le opere extra-canoniche dei Buddisti e dei Giáina sono scritte in parte in sanscrito; ma non per questo dobbiam credere che i loro Canoni siano senza importanza per lo studio delle questioni filosofiche: basti ricordare, per i Buddisti, che intera una sezione del Canone reca appunto il titolo di «Metafisica»; e quanto ai Giáina, dei quaranta e più trattati che formano il loro Canone, [28] (scritto, rammentiamolo ancora una volta, in prâcrito), solo un piccolo numero è pubblicato criticamente; ma da quelli che già sono [p. 365 modifica]usciti per le stampe e anche (mi sia lecito citarmi a titolo puramente bibliografico) da un testo che dovrà esser compiuto tra poco di stamparsi per le mie cure, [29] possiamo dedurre dati di grande interesse per la storia della filosofia indiana in generale. Ne la cosa può far meraviglia, se si pensa, ai rapporti strettissimi che unirono sempre nell’India religione e filosofia. Il pensiero indiano, per quanto acuto e profondo, ha sempre un’impronta religiosa: sua meta ultima è di liberarsi dall’errore e dalla contingenza e di condurre lo spirito alla gioia suprema di una beatitudine tutta spirituale, sia conseguita con opere ascetiche, sia ottenuta con la meditazione filosofica, il punto di contatto, anzi il fondo comune alle filosofie e alle religioni dell’India, è dato dal dogma della trasmigrazione: la vita è dolore, e l’anima nasce e rinasce a volta a volta fra gli dei, fra gli uomini, fra i bruti, a seconda dei meriti o dei demeriti acquistati nelle esistenze anteriori. Se noi meditiamo un istante su questa che è la vera idea madre del pensiero indiano, ci accorgiamo che essa può condurre alle più varie conseguenze religiose e filosofiche, e che deve necessariamente costringere ogni pensatore indiano a chiedersi che cosa sia la vita, che cosa sia l’anima, a scrutare la natura degli dei, a ricercare le finalità più alte dello spirito umano. E in essa è riposta, la ragion vera della magnifica tolleranza per ogni idea e per ogni confessione, che è caratteristica dell’India. Principio immanente ed eterno è l’anima; gli dei altro non sono che una forma dell’essere; le pene e le ricompense dell’oltretomba, temporanee e non eterne, perchè l’anima, espiate le sue colpe e tornata pura, può risorgere in una nuova vita superiore. È evidente che la religione, resa così tollerante e così ideale da simili principi, non solo non si opponeva allo svolgersi della filosofia, ma ne diventava evocatrice potente. Poiché la vita è dolore, poiché la vita di ogni anima si prolunga indefinitamente nel passato e nel futuro, attraverso dolori sempre rinnovati, il pensiero religioso e il pensiero filosofico cercarono ciascuno per conto proprio di assolvere il compito supremo di dare all’uomo il modo di liberarsi dal rinascere, causa prima di ogni esistere, ragione unica del soffrire. Al di sopra di ogni speculazione — qualunque essa sia — sta la ricerca affannosa di questa via di [p. 366 modifica]salute; e ogni sistema filosofico credeva di indicarla nei suoi principî. Nè si creda che questa finalità sia espressa solo dai sistemi metafisici: anche quelli di logica poichè l’India ebbe scuole di logica fiorenti e, per molti rispetti, in nulla inferiori alle novissime nostre promettevano la salute con i propri aforismi. Non dobbiamo sorridere: è un’irradiazione di idealità, un risplendere diffuso di pura luce ideale, che anima e ravviva anche le speculazioni più aride. Chi dunque potrà disgiungere nell’India la storia religiosa dalla storia filosofica? E chi non vede che Buddisti, Giáina, razionalisti, vedantisti, hanno un terreno comune su cui si incontrano, un unico legame di ideale parentela, e che ogni rivo, ogni fiotto, ogni onda di questa grande fiumana di idee dev’essere da noi osservata e seguita, dai Veda antichissimi fino alle prescrizioni canoniche dei Buddisti e dei Giáina? La grande unità dell’India è data da legami puramente di pensiero: varie e diverse ne furono le espressioni verbali e quindi varie le letterature. Ma queste tutte hanno il fondamento in quella superiore unità di intuiti, di coscienza, di ambiente, di idee, per cui l’una è indispensabile alla retta intelligenza delle altre.


Tutto quanto son venuto esponendo fin qui si applica pure a un novissimo campo di ricerche l’epigrafia. La storia dell’India è ancora in gran parte da fare; ma il suolo del paese, aperto con diligente investigazione dalle Missioni archeologiche che il Governo inglese liberalmente promuove, ci dischiude la sua storia. La messe epigrafica raccolta negli ultimi decenni è veramente superba e i magnifici volumi dell’Epigraphia Indica, dell’Epigraphia Carnatica, dell’«Archaeological Survey of India» - per citare solo alcune delle monumentali raccolte pubblicate nell’ultimo cinquantennio titolo di benemerenza per il Governo inglese dell’India e gloria durevole per più di un dotto. Ora, da questo copioso materiale, diligentemente studiato, Otto Franke [30] trasse gli argomenti per dimostrare che tutte le antiche iscrizioni note finora, a cominciare dal terzo secolo a. C., sono scritte in lingue popolari, e che solo dopo il principio dell’Era volgare si comincia a usare il sanscrito anche nelle iscrizioni. Con ciò [p. 367 modifica] non si esclude che il sanscrito fosse anche allora lingua letteraria, ma si dimostra solo che esso, nei secoli immediatamente precedenti alla nascita di Cristo, non era ancora in uso come lingua ufficiale nelle cancellerie.


Con ciò credo sia a sufficienza dimostrato che lo studio delle letterature pâlica e prâcritica si impone come una necessità imprescindibile ad ogni studioso serio, non dico di indologia, ma anche solo di sanscrito. Le argomentazioni e i dati di fatto si potrebbero moltiplicare; ma ciò che finora abbiam visto mi sembra abbia sufficiente valore di prova. Non vorrei tuttavia che da quanto ho detto si concludesse che io miro a deprimere gli studi di sanscrito o a sminuirne l'interesse. Al contrario: la letteratura sanscrita appare ancora ai miei occhi, come sempre apparve, altissima di contenuto e perfetta di forma, degnissima di studio e di ricerca; ma io ho voluto affermare ciò che è persuasione intima di ogni vero studioso: che per la esatta comprensione della civiltà, per l'intelligenza di tutta la vita intellettuale dell' India, per la valutazione obbiettiva e scientifica dei problemi letterari anche del solo sanscrito, è indispensabile la conoscenza delle altre letterature dell'India. In una parola, si tratta di vaste correnti letterarie, ben caratterizzate e perfettamente evolute, che non si esplicano in un reciproco antagonismo, ma vivono parallele, si fondono in più di un punto, si alimentano a vicenda, si compenetrano, influiscono l'una su l'altra. Si può, volendo, studiare una sola di queste correnti, ma a patto di non giungere mai sino al fondo nell'esame di moltissime questioni interessanti la civiltà indiana, a patto di ignorare un'immensa regione che è tra le più interessanti del dominio spirituale dell' India. Di una filologia solamente sanscrita si poteva parlare nella prima metà del secolo scorso; oggi, dopo più di un cinquantennio di ricerca, di lavoro, di scoperte, nelle letterature pâlica e prâcritica, parlare ancora di filologia sanscrita, e non di filologia indiana, sarebbe un

non senso. Il sanseritista puro oggi è un anacronismo. L'esempio dei maggiori Maestri lo dimostra: l'Oldenberg, il Jacobi, il Leumann, il Lüders - tutta insomma la gloriosa schiera dei più grandi indianisti viventi diede opera, non meno che al sanscrito, al prâcrito e al pâli. [p. 368 modifica]


Da un tale indirizzo — che, in questo campo, è l'unico degno del nome di scientifico — deriva come conseguenza inevitabile che l'indianista debba spesso procedere, anche nel suo lavoro filologico, con metodo glottologico. Ben sovente — e chi scrive ne ha fatta e ne fa l'esperienza — l'edizione di un testo prâcrito è opera di vera ricostruzione. I manoscritti sono spesso corrotti da contaminazioni dei più diversi dialetti, da tentativi di restituzione in sanscrito, da varianti dipendenti dalle parlate proprie dei varî amanuensi, sicchè per l'edizione di un testo prâcrito occorre compiere un continuo lavoro di critica e di comparazione glottologica: il lavoro filologico comincia solo dopo, quando si è fissata la veste fonetica del testo. Qui, e solo qui, possiamo ammettere, anzi esigere, riunite in una sola persona le due qualità di indianista — non dico sanscritista — e di glottologo, perchè qui, e solo qui, si può, o, meglio, si deve essere in pari tempo padroni di ambedue i metodi di ricerca, e il glottologo compisce armonicamente il filologo, e il filologo è tanto più acuto quanto più è sicuro come glottologo. Solo in tal modo è possibile l'esistenza di studiosi compiuti come l'Oldenberg, vedista e sanseritista insigne, ed editore di tutta una sezione del Canone pâli buddistico; [31] come un Jacobi, che è un perfetto conoscitore del sanscrito classico e uno dei più autorevoli prâcritisti; come il Pischel, che fu vedista insigne e scrisse una grammatica delle lingue prâcritiche che è imperituro monumento di grandezza glottologica.


Così, in poco più di un secolo, si è affermata vigorosamente e ha con mirabile slancio accresciuto il campo delle proprie indagini la più nuova delle filologie. La più nuova e la più giovane, ma non certo la meno degna di essere ospitata nella grande repubblica delle lettere. Poichè in essa ritroviamo tutte le caratteristiche di una disciplina autonoma: [p. 369 modifica]un campo di ricerche, un metodo e un indirizzo suoi propri, che la differenziano dalle altre discipline sorelle, pur senza renderla loro estranea. Se mi fosse lecito un paragone, vorrei dire che l'India fu nell' Asia quello che la Grecia fu nell'Europa: la sua lingua classica, il sanscrito, penetrò in tutta l'Indo-Cina, si diffuse per tutte le isole della Malesia fino alle Filippine; [32] una delle sue religioni, il Buddismo, fu ed è la fede di milioni e milioni di Asiatici; le opere dei suoi poeti, dei suoi filosofi, dei suoi profeti, furono tradotte in tutte le lingue dell' Asia: irradiazione ideale forse più unica che rara nella storia del pensiero umano. L'ampiezza dell'area geografica su cui si diffuse la civiltà dell' India, la complessa varietà delle sue manifestazioni, hanno già resa necessaria una maggiore specializzazione dei nostri studi: abbiamo una glottologia indiana, che stabilisce i rapporti fra il sanserito, le lingue medioevali e le lingue moderne dell' India; una filologia indiana, che ne esplora le letterature; una storia e un'archeologia indiana. Le nostra disciplina, ben lungi dall'essere subordinata a nessun' altra, o mancipia, come pare che alcuni persistano a credere, della glottologia indo-europea, fu invece l'evocatrice di questa, e si affermò fin da principio in un' individualità potente e autonoma, che vigoreggiò sempre più con gli anni. Oggi, la filologia indiana forma già a sua volta una parte di quel capitolo dell' enciclopedia delle scienze che si potrebbe chiamare Indologia - nome che dovrebbe essere consacrato nel Dizionario scientifico.

E se il nostro unilaterale egocentrismo di Europei ci fa essere alcuna volta diffidenti o beffardi verso una civiltà dalla quale la nostra pur trasse tanta luce di idee, pensiamo che un fervore di vita rinnovata percorre di un fremito immenso tutta l'Asia, dalle isole nipponiche alle rive del Gange: fervore di vita che non è solo nei commerci, nelle industrie, nelle armi, ma più ancora nelle lettere e nelle scienze. Già da tempo è cominciato nell'India un vero Rinascimento: riprova sicura che questa nostra disciplina risponde a un bisogno e ha un'esistenza tutta sua, indipendente e rigogliosa.

Pavia, Università.

L. Suali

Note

  1. Menzioniamo, a titolo d’onore, William Jones (1746-1794), traduttore delle leggi di Manu e della Qakuntalà di Kàlidàsa e fondatore della gloriosa e benemerita Asiatic Society of Bengal; H. T. Colebrooke, spirito superiore di filosofo e di scienziato, e vero fondatore della filologia sanscrita.
  2. Per avere un’idea dei progressi rapidissimi compiuti dalla filologia indiana, bastino pochi cenni. Nello scritto pubblicato da Ava. Wilh. von Schlegel nel 1819, Ueber den gegenwärtigen Zustand der indischen Philologie, sono enumerate appena una dozzina di opere sanscrite, fra edizioni e traduzioni. Nel libro di F. Adelung, Versuch einer Literatur der Sanskrit-Sprache (Pietroburgo, 1830) sono dati i titoli di più che 350 opere. Nel 1852, il Weber, nella sua Indische Literaturgeschichte, parla di circa 500 opere sanscrite. Si scorra ora il Catalogus Catalogorum dell’Aufrecht (1891, 1896, 1903): vi si troverà il titolo di molte migliaia di testi: e si noti che l’Aufrecht esclude dal suo catalogo l’intera letteratura buddistica e tutte le opere non scritte in sanscrito.
  3. P. Deüssen, Erinnerungen an Indien, Kiel, 1904, pag. 2: «Nicht nur die Gelehrten von Fach, wie namentlich die einheimischen Professoren der indischen Universitäten, sprechen Sanskrit mit grosser Eleganz, nicht nur ihre Zuhören wissen dasselbe ebensogut zu handhaben wie bei uns ein Studierender der klassichen Philologie das Lateinische, auch die Privatgelehrten, Heiligen, Asketen, ja selbst weitere Kreise sprechen und schreiben Sanskrit mit Leichtigkeit; mit dem Maharaja von Benares habe ich mich wiederholt stundenlang dahin unterhalt; Fabrikanten, Industrielle, Kaufleute sprechen es zum Teil oder verstehen doch das Gesprochene; in jedem kleinen Dorfe war meine erste Frage nach einem, der Sanskrit spreche, worauf sich denn alsbald der eine oder der andere einstellte, der gewönlich mein Führer, ja nicht selten mein Freund wurde». — Cfr. anche J. Wackernagel, Altindische Grammatik, I. p. XLII.
  4. Naturalmente, bisogna intendere queste parole con molta discrezione, e accettare il paragone con ogni riserva. — Su le lingue pràcritiche in generale, vedi R. Pischel, Grammatik der Prakrit-Spraehen (Strassbtirg, 1900, in Grundriss d. Inclo-Arischen Philologie und Altertumskunde, I. 8), pagg. 1-32. Su i prâcriti in rapporto specialmente con le lingue moderne dell’India, vedi A. F. R. Hoernle, A comparative Grammar of the Gaudian Languages, (London, 1880), p. XVIII e seg.; J. Beames, A comparative Grammar of the modem Argon Languages of India (London, 1872-1879), I. cap. I passim (ma sopratutto 2, 4, 5, 6).
  5. A. F. R. Hoernle and H. A. Stark, A History of India, Cuttak, 1906, pag. 1: «India is not so much a country, as a continent. Hence also it exhibite continental characteristics. One of these is that its inhabitants are of many races, many languages, and many religions. In a country this might have been different. Take, for example, France or Germany. Their people are of one race, one language, and one religion. But these they are merely countries. They are much smaller than India, which indeed si aboxrt seven times as large as either France or Germany. In fact, India is rather larger that the whole Continent of Europe, with Russia excluded».
  6. H. Jacobi, Das Rámáyana, Gesehichte and Inhalt, Bonn, 1893.
  7. II Barth in «Revue critique», 5 avril 1886, e «Revue de l’histoire des religions», XXVII (1893) pag. 288 sgg. e XLVI (1902) p. 195 seg.; il Grierson in «Indian Antiquary», XXIII p. 52. sgg.
  8. H. Jacobi. War das Epos und die profane Litteratur Indiens ursprünglich in Prâkrit abgefasst?, in Z.D.M.G. (= «Zeitschrift d. deutschen Morg. Gesellschaft»), XLVIII (1894), pag. 407-417. Questo scritto è la base e la guida delle argomentazioni esposte nel presente articolo riguardo alla questione dell’originaria veste linguistica dell’epopea.
  9. Per brevità, indicherò il titolo di quest’opera con la sigla K. S. S.
  10. Cfr. Jacobi, l. c. pagg. 411-12.
  11. Cfr. Jacobi, l. c. pag. 412.
  12. Cfr. Jacobi, l. c. pag. 412.
  13. The Jâtaka, together with its Commentary, being Tales of the anterior Births of Gotama Buddha, for the first time edited by V. Fausböll, with and Index of proper Names etc. by D. Andersen. 7 vol. London, 1877-97.
  14. Sebbene più oltre io ritorni sull’ argomento, voglio qui notare, a scanso di equivoci, che l’idea del nirvána, e non poche altre del Buddismo, appartengono al comune patrimonio religioso e filosofico dell’India, e non sono proprietà esclusiva di nessuna confessione indiana.
  15. È noto che il Canone buddistico comprende tre sezioni: quella del Vinaya o disciplina, dei Sutra o prediche e racconti, dell’Abhidharma o metafisica.
  16. Sul Canone dei Giàina, vedi Weber, Ueber die Iteiligen Schriften de>Jaina, in Indisehen Studivi, XVI, p. 211 e sgg. e XVII p. 1 e sgg.
  17. The Upamitabhavaprapancâ Kathâ of Siddharshi, originally edited by the late P. Peterson, and continued by Prof. Doct. H. Jacobi, Calcutta, Bibliotheca Indica, 1899-1909. L’edizione è giunta al fascicolo XIII, e, per quanto m’informa l’illustre indianista dell’Università di Bonn, è imminente la fine della grande pubblicazione.
  18. Samaraicca Kahá, edited by H. Jacobi, Fasc. I-II, Calcutta, Bibliotheca Indica, 1908-9.
  19. Dhammapada pâlice edidit, latine vertit, excerptis ex commentario pâlico notisque illustravit V. Fausböll, Hauniae, 1855 — Una seconda edizione, senza commento, uscì a Londra nel 1900 — L’opera acquistò ben presto, per la pura grazia della esposizione e per la nobiltà della sua morale, una grande popolarità fra gli studiosi e le persone colte di Europa: fu tradotta molte volte in francese, in inglese e in tedesco. In italiano la rese P. E. Pavolini: Il Dhammapada, antologia di morale buddistica, Milano 1908 — in «Il Rinnovamento», Anno II, fasc. 5-6)
  20. Edita dall’Oldenberg, London, 1883 (Pâli Text Society).
  21. A. Weber, Das Saptaçatakam des Hâla, Leipzig, 1881.
  22. Cfr. R. Pischel, Grammatik. d. Prakrit-Spr., § 13.
  23. Bhandarkar, Report on the Search of sanskrit Manucripts in the Bombay Presidency during the Year 1883-84, Bombay, 1887, pag. 17 — V. anche Pischel, l. c. § 14 — Per quanto m’informò il Prof. Jacobi in una sua lettera dello scorso anno, il testo dovrà essere pubblicato in breve da un suo discepolo.
  24. Ricordo qui, ad es., l’Alamkârasarvasva, edito a Bombay, 1893 (Kâvyamâlâ, 35) e tradotto dal Jacobi in Z.D.M.G. LXII (1908). — Cfr. anche Pischel, l. c, § 13-14.
  25. Die Religionen der Erde, Halle a. Saale, 1905, pag. 65.
  26. Buddha, sein Leben, seine Lehre, seine Gemeinde, Leipzig, 1897 (3.a ediz.).
  27. E, anche, dei Kshatriya o guerrieri, la seconda casta indiana: cfr. R. Garbe, Beiträge zur indischen Kulturgeschichte, Leipzig, 1903, p. 1 e sgg.; Die Weisheit des Brahmanen oder des Kriegers?
  28. Vedine enumerati i titoli in Jacobi, The Kalpasûtra of Bhadrabâhu, Leipzig, 1879, pag 14, n. 2. Tutta l’introduzione di questo libro, che segnò un nuovo orientamento nello studio e nella edizione dei testi giaìnici, va raccomandata alla lettura di chi voglia iniziarsi ad alcune fra le più importanti questioni che riguardano questo sistema.
  29. Thânângasutta, the third An̄ja of the Jaina Canon: — in corso di stampa ad Ahmedabad.
  30. R. Otto Franke, Pâli und Sanskrit in ihrem historischen und geographischen Verhältnis auf Grund der Inschriften und Münzen, Leipzig, 1902.
  31. The Vinaya Pitakam, one of the principal buddhist holy Scripture in the pâli Language, edited by H. Oldenberg, London 1879-83.
  32. Wackernagel, Altindische Grammatik, I, p. XXXV e sgg., ove è data anche una ricca bibliografia dell'argomento.