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136 | capitolo ventesimoquarto |
pracciglia pari a quella del capo, sicchè io nulla osava nè far nè dire. Quando poi con umida spugna ci fu lavata la faccia lagrimosa, e che l’inchiostro si distese su tutto il viso, e tutti i lineamenti quasi da un nembo di caligine rimaser confusi, l’ira diventò furore. Eumolpione si dichiarò che non avrebbe sofferto che alcun ci offendesse contra i diritti e le leggi, e si oppose alle minacce di que’ manigoldi non solo con la voce, ma ancor colle mani. Il suo garzone si unì a lui, poi un marinaio, ed un altro, deboli però, e più buoni a far maggiore la quistione, che ad aiutar colle forze.
Io non pregai altrimenti in favor mio, ma alzando le unghie agli occhi di Trifena, gridai fuor dei denti e ad alta voce, che mi sarei servito delle mie forze se quella rea donna, che sola in tutta la nave era da castigarsi, non si fosse distaccata da Gitone, e ch’io l’avrei insultata.
Lica per questa mia insolenza più iratamente s’inviperì, sdegnato che io tanto gridassi per un altro, abbandonando la mia causa.
Nè fu meno istizzita delle ingiurie Trifena; sicchè tutta la turba del vascello si divise in fazioni.
Di quà il barbier mercenario distribuì a noi i ferri del suo mestiere, armandosene egli stesso: di là la famiglia di Trifena si dispone colle mani vote. E nè lo schiamazzo delle ancelle dissipò gli accampati, nè l’avvisar del piloto, il quale nient’altro dicea che di volersi torne dal governo del naviglio, se non cessava un tumulto cagionato dalla libidine di alcuni malvagi.
Ciò non pertanto il furore de’ combattenti continuò, quelli per vendicarsi, noi per salvar la pelle. Molti quindi cadean semivivi da una parte e dall’altra, molti sozzi del sangue delle ferite ritiravansi come da una battaglia; nè ancora indebolivasi in veruna parte lo sdegno.
Allora il valoroso Gitone accostando il fatal rasoio