Satire (Orazio)/Libro II/Satira IV
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Satira IV
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Orazio e Cazio.
Or. Donde e dove il mio Cazio? Caz. Io non ho tempo,
Chè certi ho da notar nuovi precetti,
A’ quai non insegnò d’Anito il reo,
Pittagora nè Plato unqua gli uguali.
5Or. Io fei male (il confesso) a disturbarti
Sì fuor di tempo. Ma cortese, in grazia,
Perdonami l’error. Che se or di mente
Qualche cosa t’uscì, la puoi ben tosto
Raccapezzar per opra di natura,
10O d’arte; ch’ambo in te sono stupende.
Caz. Anzi il mio studio a ruminar tai cose,
Perchè sottili e in sottil modo espresse,
Tutto era intento. Or. Ah del maestro il nome
Svelami, e s’è romano o forestiero.
15Caz. Le sue dottrine t’esporrò per quanto
Mi sovverran, ma non vo’ dir l’autore.
Sta su l’avviso di fornir la mensa
D’uovi bislunghi, che sapor più grato
Han de’ rotondi, e son di lor più bianchi,
20E callosi han nel tuorlo un pulcin maschio.
Il cavolo cresciuto in suolo arsiccio
Più gustoso è di quel che vien negli orti
Vicini alla Città. Scipito erbaggio
Quello è che a forza d’innaffiarlo cresce.
25Se repentino un ospite sul tardi
Ti sopravvien, perchè tiglioso e duro
Il pollame al palato non riesca,
L’affoga entro il falerno all’acqua misto:
In tal guisa divien tenero e frollo.
30Di quanti nascon funghi i pratajoli
Sono i miglior; degli altri è mal fidarsi.
Chi salubre passar desìa l’estate,
Dia fine al desinar con more negre,
Ma colte pria che le riscaldi il sole.
35Mischiava Aufidio al mel falerno brusco,
E mal facea, perchè a digiun sol dee
Nelle vene introdursi un blando umore.
Meglio è perciò col dolce vin melato
Le viscere irrigar. Quand’è ritroso
40A scaricarsi il ventre, ogni imbarazzo
A disgombrarne gioveran lumache,
Picciole cappe e romici non senza
Un buon biccher di bianco vin di Coo.
Il crescer della luna empie di polpa
45I pesci chiusi nelle terse nicchie.
Ma non ricco ogni mare è di tai pesci
Più prelibati. Al murice di Baja
La lucrina peloride soprasta.
D’ostriche il sen Circeo, di ricci abbonda
50Capo Miseno, e il tarentino golfo
De’ suoi pettini aperti alto si gloria.
Nessuno l’arte d’imbandir le cene
S’appoprj di leggier, se pria de’ gusti
Non ben conobbe ogni sottil divario.
55Nè basta dal mercato a ricco prezzo
Sbrattare i pesci, se non anco è noto
A qual la salsa più convenga, e quale
Arrosto rinnovelli l’appetito
Nè convitati e gli trattenga a mensa.
60L’umbro cinghial nutrito a ghianda d’elce
I rotondi bacin col peso incurvi,
A chi sdegna la carne inerte e floscia
Il cinghial di Laurento è tristo cibo,
Come pasciuto sol di canna e d’alga.
65Non sempre uno squisito cavriolo
Vien dalle vigne. Chi del buon s’intende
S’attaccherà di pregna lepre al tergo.
Innanzi al mio non v’ebbe altro palato
Che de’ pesci sapesse e degli uccelli
70Scernere etadi e qualità diverse.
Tal avvi che brillar tutto l’ingegno
Fa in novelli pasticci. Impiegar l’opra
In una cosa sola ah no non basta;
Qual s’altri sol cercando aver buon vino,
75L’olio non curi onde si conci il pesce.
Se il vin massico esponi a ciel sereno,
L’aura notturna ne assottiglia il crasso,
E il tanfo ne disgombra a i nervi infesto.
Ma se tu il filtri per lo panno lino,
80Tutto gli togli il buon vigor natio.
Chi scalto mesce di Sorrento a’ vini
Le fecce del Falerno, ei pur procaccia
Col torlo d’uovo colombin chiarirli,
Che al fondo tragge ogni materia impura.
85Gamberi arrosti e chiocciole affricane
Rinfrancheranno un commensal che caglia,
Perocchè la lattuga dopo il vino
Entro l’acido stomaco galleggia.
Quegli anzi con presciutto e con salsiccia
90Vuol ristorarsi, nè rifiuta cibi
Che da sporche taverne escan fumanti.
Ma delle salse differenti è d’uopo
La natura saper. Con olio dolce
La più semplice fassi, a quel mischiando
95Vin grosso e salamoja fermentata
In orcio bizantin. Con erbe trite
E zafferan si fa bollire, e poi ―
Ch’è ben rappresa sopra vi s’infonde
Licor da bacche venafrane espresso.
100A’ tivolesi cedono in bellezza
I pomi del Picen, non in sapore.
In chiusi vasi star la venusina
Uva, e l’albana ama indurarsi al fumo.
Io fui primo a insegnar, che in bei tondini
105Si dispongano attorno su la mensa
L’uva e le mele, salamoja e alici,
Pepe bianco ammaccato e sal nericcio.
Gran peccato è sprecar cento ducati,
E poi stivare i divaganti pesci
110Entro angusto catino. I riguardanti
Fa stomacar, se con man unte un servo
Che i rottami ingojò, maneggia i vetri,
E se attaccato a’ vecchi nappi è il loto.
Che spesa sono canovacci e scope
115E segatura? Ma il non farne conto
È grosso fallo. E tu con lorda palma
Un lastrico gentil di vaghe pietre
Farai spazzare, e porre i tirj drappi
Sovra lenzuola imbrodolate e sozze,
120Senza pensar, che quanto dan tai cose
Cura e spesa minor, tanto più gusto
Biasmo è mancar di queste che di quelle
Cui sol ponno aspirar le ricche mense?
Or. Per la nostra amistà, pe’ santi numi
125Ah non t’incresca di guidarmi ovunque
Ten vada, o dotto Cazio, a udir costui.
Poichè sebben di sue dottrine instrutto
Per la tua lingua io son, pur non mai puote
L’interprete giovar quanto il maestro.
130Aggiungasi il mirarne il volto, i gesti,
Il portamento. Tu che l’hai veduto,
Non molto forse la tua sorte apprezzi.
Ma io mi struggo d’accostarmi a quella
Recondita sorgente, onde n’attinga
135Della vita beata ogni precetto.