Satire (Orazio)/Libro II/Satira V
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Satira V
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Ulisse, Tiresia.
Ul. Oltre ciò che m’hai detto i’ pur vorrei
Saper, Tiresia, per quai modi e vie
Ricovrar possa i miei perduti averi?
E perchè ridi? Tir. Ti par forse poco,
5Volpone, il fare in Itaca ritorno,
E rivedere i tuoi Penati? Ul. O sempre
Veritiero indovin, vedi qual io
Secondo i tuoi presagj ignudo e brullo
Mi riconduca alla mia casa; e quivi
10Nè dispensa nè armento evvi che intatto
M’abbian lasciato di mia moglie i proci.
E ben tu sai, che nobiltà, valore
Senza la roba più dell’alga è vile.
Tir. Giacchè senza misterj alfin mi sveli,
15Che povertà ti fa ribrezzo, ascolta
Il modo di arricchir. Se buoni tordi,
O s’altra cosa peregrina in dono
Ti vien, falla volar dove grandeggi
Sontuosa magion di ricco vecchio.
20I miglior pomi e i primi onor, de’ quai
I tuoi colti poder ti faran lieto,
Anzichè a’ Lari gli consacra a lui,
Che più di quelli venerar tu dei.
Sia pur di servil razza, fuggitivo,
25Spergiuro e tinto del fraterno sangue,
Non rifiutar, s’ei vuol, di fargli corte.
Ulis. Ch’io faccia corte al puzzolente Dama?
Non fu già questo il mio mestiero a Troja
Là dove ognor tra’ primi alzai la testa.
30Tir. Dunque tu sempre in povertà vivrai.
Ulis. Io sforzerommi di portarne il peso
Con alma forte a soffrir peggio avvezza.
Ma deh tu, vate, dimmi schietto, ond’io
Possa raccor dovizie e mucchi d’oro.
35Tir. Tel dissi, e tel ripeto. A’ testamenti
De’ vecchi quà e là tendi la rete.
Nè, se alcuno di lor con l’amo in bocca
Scaltro fuggì le preparate trame,
Deluso non depor la speme o l’arte.
40Se lite al tribunal picciola o grande
Vassì agitando, e l’un de’ litiganti
Sia ricco e senza figli, ancorchè iniquo
E ardimentoso l’abbia mossa a torto,
Tu piglia le sue parti, e sprezza l’altro,
45Quand’abbia prole oppur feconda moglie,
Benchè fama e ragion parlin per lui.
Signore e padron mio (con questi nomi
Giova grattare a tai riccon l’orecchio)
La virtù vostra a voi d’amor mi lega.
50Io delle leggi so dritto, e rovescio:
So l’arte d’arringar. Di fronte gli occhi
Strappar mi lascerò prima ch’io soffra
Che alcun vi faccia oltraggio o vi defraudi
Pur d’una noce vota. Avrò ben cura
55Del vostro onor, degl’interessi vostri.
Itene a casa, e datevi buon tempo.
Di suo procurator le parti adempi,
Sempre indefesso e quando l’infocato
Celeste can le mute statue fende,
60E quando Giove sputa, come disse
Furio pancion, le nevi in testa all’Alpi.
Dirà più d’un col gomito frugando
Il suo vicino: oh come è mai quest’uomo
Attivo e pronto per servir gli amici!
65E così correran di giorno in giorno
Più tonni a popolar le tue peschiere.
Nè dei solo adescar chi non ha figli
(Ciò faria troppo chiari i tuoi disegni);
Ma se v’ha padre ancor d’unico figlio
70Malsano, a cui gran facoltà prepari,
T’ingegna a lui pian pian co’ buoni ufficj
D’insinuarti in grazia, onde tu sia
Sostituito erede al figlio stesso,
E quando accaderà che questo passi
75Di Pluto a’ regni, tu ne prenda il loco.
Questo zimbello raro avvien che falli.
Se a leggere talun suo testamento
Ti porgerà, di ricusar fa mostra,
E da te indietro lo respingi in modo
80Tale però, che la seconda riga
Del primo foglio con obbliquo sguardo
Tu ben rilievi, e rapido trascorra,
Se tu se’ solo o coerede a molti.
Qualche scrivan matricolato e furbo
85Torrà sovente all’anelante corbo
L’attesa preda, come un dì Corano
Si farà gioco di Nasica ingordo.
Ulis. Vai tu farneticando, oppur vuoi farti
Beffe di me con vaticinj oscuri?
90Tir. O figlio di Laerte, io so dir quanto
Debbe avvenire o no. Che Febo in dono
Il profetar mi diè. Ulis. Su via finisci
La tua novella. Tir. Quando un giovin prode,
Germe dell’alto Enea, terror de’ Parti,
95Su le terre e su i mari avrà l’impero,
Vinto da speme di lucrar Nasica
Accoppierà la ben cresciuta figlia
Al possente Corano. E che fa questi?
Al suocero offre un dì suo testamento,
100E forti istanze gli fa pur che il legga.
Dopo molti rifiuti alfin Nasica
Il prende in man, tacito legge e trova
Che null’altro retaggio a sè ed a’ suoi
Lasciato vien che di sospiri e pianti.
105Voglio che un’altra cosa ancor tu impari.
Se qualche scaltra donna o qualche servo
Raggirano a lor senno un rimbambito
Vecchio, t’unisci in amistà con quelli.
Parla di lor con lode, onde tu assente
110Sii lodato da lor. Ciò giova assai:
Ma guadagnar sovr’ogni cosa importa
Il capo principal. Se sciocchi versi
Fa quel balordo e tu gl’inalza al Cielo:
S’è donnajuol, non aspettar ch’ei cerchi,
115Ma prontamente e di buon cuor la tua
Penelope gli guida. Ul. E credi forse
Che sì ben costumata e sì pudica
Donna venir vorrà, cui tanti proci
Stornar dal dritto calle invan tentaro?
120Tir. Invan, perchè troppo a donar ristretta
Fu quella gioventude, e men vogliosa
Del letto si mostrò che della mensa.
Perciò colei ti fu fedel. Ma s’ella
Fia che gusti una volta un di tai vecchi,
125E teco parta il lucro, opra più lieve
Fia distaccare un can da un’unta pelle.
Ma senti un caso, ch’io già d’anni grave
In Tebe vidi. Una maligna vecchia
Lasciò per testamento (e fu eseguito
130Il suo voler) che su le nude spalle
Dall’erede portar ben unto d’olio
Suo corpo si dovesse al cimitero.
Forse sperava di poter, cred’io,
Morta scappar di mano a chi lei viva
135Nojata avea con troppo lungo assedio.
Or va ben cauto; le tue parti adempi
Con diligenza sì, ma senza eccesso.
Chi non richiesto parla, a cotal gente
Stizzosa incresce, e chi sta muto ancora,
140Come Davo in commedia il capo torci
In aria di rispetto e di timore.
Con zelo assedia quel balordo, e quando
Ingrossa l’aura, avvertilo che cuopra
La cara testa, e dalla folla il traggi
145Con far delle tue spalle a lui riparo.
Tieni ben tese al suo parlar le orecchie.
D’encomj esorbitanti si compiace?
Tu come un otre a crepapelle il gonfia
Con le tue lodi fino a che levate
150Al ciel le mani esclami: Ohe basta, basta.
Quand’ei per morte alfin da sì nojosa
E lunga servitù t’avrà disciolto,
E tu avrai chiaro e fuor di sogno inteso:
Sia della quarta parte Ulisse erede;
155Dissemina quà e là cotai querele:
Dunque ho perduto il caro Dama? E dove
Trovar potrò sì saldo e fido amico?
Sforzati ancora di lagrimar, se il puoi,
O il volto cela almen, perch’indi fuore
160La gioja non prorompa. Ergi l’avello,
Se in tuo arbitrio il lasciò, senza risparmio,
E nobil pompa funerale appresta,
Cui lodino i vicin. Se mai taluno
De’ coeredi tuoi gl’insulti soffra
165Di tosse micidial, tu di tua parte
Gli offri casa o poder, perch’ei sel compri,
E di qualsiasi prezzo a lui ti mostra
Appien contento. Ma a tornar mi sforza
Proserpina tra l’ombre. Addio. Sta sano.