Satire (Alfieri, 1903)/Satira seconda. I grandi

Satira seconda. – I grandi

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Vittorio Alfieri - Satire (1777-1798)
Satira seconda. – I grandi
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SATIRA SECONDA.

I GRANDI.

Primores civitatis, quibus claritudo sua obsequiis protegenda est.

Tacito, Annali, Lib. III.

I magnati dello Stato, che alla loro chiarità di progenie fanno scudo la ossequiosa docilità loro.


Vano è il vanto degli Avi. In zero il nulla
Torni; e sia grande chi alte cose ha fatte,
Non chi succhiò gli ozi arroganti in culla. —
Ma, se prod’uom, di prodi figlio, intatte
Le avìte glorie, anzi accresciute, manda
Ai figli suoi; questo è splendor che abbatte
L’oscuro volgo, e tacito comanda
Ch’altri dia loco al doppio merto, e ceda;
Ch’ivi fia ’l contrastare, opra nefanda. —
Quindi è dover ch’ogni lettor si avveda,
Ch’io, nel dir Grandi, parlo di Pigméi,
Quai veggio in Corte a superbiaccia in preda.
Grandi o voi dunque, di servaggio rei
E in un di audace prepotenza insana,
Vediam: sete voi vermi o Semidei? —
Se al Sir parlate: O Maestà, sovrana
Sola del mio pensier, lascia ch’io goda
Tua sacra vista che ogni guai mi appiana.
Se a noi parlate: Oh, chi se’ tu? qual loda
È la tua? dal mio Re cosa pretendi?
Hai tu borsa? null’uom qui nudo approda. —
Degli aurati satelliti tremendi
Ecco entrambi i linguaggi, ed ambo i volti:
Instancabili eterni sali-scendi.
Di lor prosapia i rampollucci accolti
Son per grazia del Sir tra i Paggi, eletti
A grandeggiare in sua livrea ravvolti.
Che non imparan poi ne’ regj tetti?
Mescere al Dio, scalzarlo, riforbirlo,
Tenergli staffa, incendergli i torchietti,

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E in mille altri sublimi atti servirlo;
Finchè, novelli Achilli, escano in guerra
A tai prove, ch’ell’è favola il dirlo.
Che fia poi quando in peregrina terra
Armati van di Segretario e Cuoco
Ambasciate compiendo, in cui non si erra,
Purchè dì e notte avvampi il pingue fuoco,
Cui dotto Apicio Gallico maneggia,
E purchè Sua Eccellenza dica poco?
Tornarsen quindi ver la patria reggia
Veggo il Magnate di allori sì carco,
Che il serto quasi gli orecchioni ombreggia.
Qual darassi a tant’uomo or degno incarco?
Ei guerriero, ei politico, del paro
Logrò la penna in campo, in corte l’arco.
Dunque ora in toga a presieder l’avaro
Gregge di Temi, Cancellier Coviello,
Destinato vien ei dal Prence ignaro.
Ma la Regina anch’essa altr’uom più fello
Predestinava a Cancelliero, e il vuole;
Un Vescovetto di buon nerbo e snello.
A di lei posta il Re tosto disvuole:
Astrea, vedendo sue bilance appese
Al Pastoral, vieppiù (ma invan) si duole.
Or che altro Grande al Grande mio contese,
E tor pur seppe i mistici sigilli,
Qual altro premio avran l’alte sue imprese?
Da prima al collo gli appicchiam berilli
Con altri prezïosi Indici sassi,
Onde intessuta alcuna bestia brilli.
Alla pecora d’oro il vanto dassi;
E il merta, parmi, il bel simbolo in cui
L’una pecora in petto all’altra stassi.
Pure ogni Regno apprezzar suol più i sui;
Quindi avvien ch’ora il Gufo or l’Elefante
Fan di lor peso andar più baldo altrui.
Posta è persino a molte bestie avante
Una legaccia, che al ginocchio manco
Sottoponsi, affibbiata in adamante;
Per cui dell’una calza l’uom va franco,
Che a cascar mai non gli abbia a cacajuola;
L’altra legaccia in ampio nastro ha il fianco.
Chiavi e croci e patacche insino a gola
Bardano or dunque il Cancellier, dismesso
Pria ch’ei vestisse la talare stola.

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Poscia un contro-raggiro l’ha intromesso
Nel Regio venerabile Consiglio:
E a lui si prostran d’ogni grado e sesso.
Or principia davver tra ciglio e ciglio
A balenargli la fatal possanza:
Or comincia egli a dispiegar lo artiglio.
Nel veder che in ricchezze altri lo avanza,
Ei rugge: ha scelta quindi un’aurea moglie,
Onde s’impingui la di lui baldanza.
Ricca d’impuro sangue, ella gli toglie
Un bocconcin di stemma gentilizio,
Ma gli dà d’una o più città le spoglie:
Che il di lei babbo a sua prosapia inizio
Diè con ribalde usure (a quel ch’uom dice)
Or Sempronio spolpando or Cajo or Tizio.
Tosto il Grande al vil suocero disdice
Sua casa: dal Gran Giove in aurea pioggia
Nata è la sposa; e il più saper non lice.
Con la immonda pecunia intanto ei poggia
Dove salito mai per sè non fora;
E già nel regno oltre ogni Grande ei sfoggia.
Alle laute sue cene ei disonora
Que’ begli ingegni, il cui venale brio
Le signorili stupidezze indora.
Sovra l’ali d’un Rombo egli, qual Dio,
Agli autoruzzi sfolgorante appare:
Niun d’essi in Pindo a spingerlo è restìo.
Accademico il fanno: ecco, e sputare,
E sedere, e scontorcersi, e dar lodi,
E far vista d’intendere, e russare,
Ei sa quant’altri; e balbettar poi l’odi
Un puro elogio altrui, che tutto splende
D’argentee voci e d’aurei cari modi.
Ma da rider son queste, e lievi, mende.
Un miracol maggior spiegar conviene:
Com’abbia ei sempre più, quant’ei più spende.
Da prima, a lato a lui, chi compri bene
Neppur Genova l’ha; che il nulla ei paga,
Dal che la uscita a estenüar si viene.
L’entrata ei doppia poi con l’arte maga
Del vender molto ciò che nulla vale;
Se stesso: e in chi nol compra, aspro s’indraga.
Del sublime poter di altrui far male
La privativa egli s’arròga in Corte:
Guai chi l’oblia per Pasqua e per Natale.

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Men delitto il portar pistóle corte,
Che non portargli la semestre mancia,
Che al par ricompra e i giusti e i rei da morte.
Non è da rider questo. Altri la guancia
Rigò già invan di sanguinoso pianto,
Perchè la costui possa ei stimò ciancia.
Fabro egli è di calunnie audace tanto,
Che ad ingannar di un Re tremante il senno
Ne avanza: indi egli ha d’assai stragi il vanto.
Pochi son quei, che paventar nol denno;
I più tristi di lui. Più eccelsi impieghi
Altri han; ma niun, quant’egli, ha il regio cenno.
Or l’arcano il più fetido si spieghi;
Come a vil donna, del postribol feccia,
D’arti e in un di prosapia ei si colleghi.
Falso un ramo innestandosi, ei fa breccia
Nel ceppo avìto; e ver ben può parere,
Sì ben lordura a nobiltà si intreccia.
Di costei la bellezza un Cameriere
Di Su’ Eccellenza usufruttava primo;
Poi lasciavala in preda al rio mestiere.
Ritrovatala poscia un dì nel limo,
La rimpannuccia, e se la toglie in casa,
Essendo anch’egli allor di spoglie opimo.
Sua Eccellenza la vede, e se n’invasa:
Riverginata il Camerier l’ha tosto;
Cugina gli è, trista orfana rimasa.
Averla vuol Sejano ad ogni costo:
Quindi, avutala e sazio, ei l’addottrina
A regie cose, ov’ha il lacciuol disposto.
Al Re venuta è a noja la Regina
Sì fattamente, ch’altro ardor fa d’uopo
Dal regio letto a dileguar la brina.
Taide e il mio Grande han mira a un solo scopo:
Onde il buon Re, colto il bel fiore a stento,
Colto è fra loro, qual fra gatti il topo.
Altro Grande vien fuori, eletto in cento,
Cui Taide in sposa si concede, a patto
Ch’egli usar non si attenti il sagramento.
Ma il Re, per più accertarsen, ratto ratto
Una Provincia a dispogliar lo invia,
Vedovo e sposo ed Atteòne a un tratto.
Quest’è il gran mezzo, che il mio Grande india
Su i Grandi tutti, e Re di fatti il posa,
Triplicator d’autorità già ria.

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Freme e tace la turba invidïosa:
In sue bell’arti egli securo invecchia;
Nè la stessa ira regia offenderl’osa.
Ma l’Orco un gran rovescio gli apparecchia
Del non mai visso Prence i dì troncando,
E a lui troncando la superba orecchia.
Ecco, già il Successor l’ha espulso in bando.
Di sua natia viltade e di se stesso
Cinto ed armato, ei vive lagrimando.
D’altri vili è bersaglio: egro, ed oppresso,
E vecchio, e scarso, e stupido, alla fine
Di morir tutto gli ha il Destin concesso:
Men noto al mondo, ch’Erostràto e Frine.