Satire (Alfieri, 1903)/Prologo. Il cavalier servente veterano
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PROLOGO.
IL CAVALIER SERVENTE VETERANO.
Ἄγευστος μὲν ἐλευθερίας, ἀπείρατος δὲ παῤῥησίας, ἀθέατος δὲ ἀληθείας, κολακείᾳ τὰ πάντα καὶ δουλείᾳ σύντροφος... ἡδονῇ πᾶσαν τὴν ψυχὴν ἐπιτρέψας, τάυτῃ μόνῃ λατρέυειν διέγνωκε, φίλος μὲν περιέργων τραπεζῶν, φίλος δὲ πότων, καὶ ἀφροδισίων. |
Luciano, nel Nigrino. |
Di libertà, digiuno; ad ogni ardita parola, muto; alla verità, cieco; nelle adulazioni e servilità, educato; l’animo intero seppellito nella voluttà cui sola egli incensa, banchettator, femminiero. |
Esco o non esco or colla spada in campo
Contro ai vizj e gli error del secol nostro,
Ch’è di sì larga messe intatto campo?
Quinci mi arresta ed atterrisce un Mostro,
Che, del mondo Signor, gigante siede
D’oro e di gemme armato tutto e d’ostro:
Quindi mi punge e fa inoltrarmi il piede
Donna più assai che il Sole alma e lucente,
Che ad alta voce in suo campion mi chiede.
Ma l’usbergo dell’animo innocente
Già mi allaccia ella stessa; ond’io non temo
Pugnar senza visiera apertamente.
E se incontrare anco periglio estremo
Per te, sublime Veritade, io deggio;
Pur ch’i’ abbia lungo onor, sia ’l viver scemo.
Di tutti il cor, di niun la faccia io veggio:
Onde, o null’uomo o me primiero offendo,
Qualor di punta alcun errore io feggio.
Ma, biasmo n’abbia o laude, io già mi accendo
Di sdegno tanto, e di tal fiel trabocco,
Che vincer voglio o di perirvi intendo. —
Ecco un prode venir, col brandistocco
Pendente al fianco, che a combatter viemmi:
Aspro a veder, forse ei fia molle al tocco.
Ma, che miro? in non cal cotanto ei tiemmi,
Che, non che piastra e maglia e scudo vesta,
Par di rose un mazzetto il sen gl’ingemmi.
Oh, nuova cosa, or che il distinguo, è questa!
Giovin d’aspetto, ha il crin canuto e folto;
E ad ogni scossa della ricca testa
Di bianca polve in denso nembo è involto;
Polve ha il petto e le spalle, infra cui pende
Del crin l’avanzo in negra tasca accolto.
Il giubboncel strettino appena scende
De’ ginocchi a ombreggiare il lembo primo;
Sol fino all’anche il corpettin si estende;
E ’ calzoncini aggiustatini; e all’imo
Di cotanta sveltezza, appuntatine
Scarpette in cui niun piè capirvi estimo:...
La scorza è questa dell’augel di Frine,
Che campion del bel-mondo or me minaccia,
E si accarezza con la man le trine.
Se non hai chi per te difesa faccia,
Gentil mezz’uomo, ad atterrarti basta
Un mio soffio: e il cader temo ti spiaccia:
Che l’armonia simmetrica fia guasta
Del tuo bel tutto, ove nel fango andassi:
E sol coi forti il brando mio contrasta.
Volesse il Ciel ch’or tu ben m’infilzassi;
(Ei mi risponde, disperato mezzo)
Ah, sol per morte l’uom felice fassi!
Che ascolto, oimè! Dal tuo beato lezzo
Filosofici motti uscir pur denno?
Deh, prosegui il tuo dir; ch’io nol dimezzo.
Tu dei saper (ripiglia) che il mio senno
Al servigio d’Amor perdei cogli anni:
Ed or fra l’onta e l’uso anco tentenno.
Vita noiosa d’affanni e d’inganni
Meno, e morir non oso; ed è un po’ tardi
Per emendar d’ozio sì lungo i danni.
L’onor già fui de’ Cicisbèi Lombardi:
Nella città di Giano il fior dell’arte
Imparai ne’ miei primi anni gagliardi.
Finch’io potei compir la intera parte
Di Cavalier Serv’-ama-onni-bastante,
Eran mie glorie in tutta Italia sparte:
Ma poichè il lungo donnëare infrante
Ebbemi l’armi, e gioventù si tacque,
Spine trovai dov’eran rose avante.
Giovin ti paio, e fan parermi l’acque
Con che i solchi innaffiando il volto appiano;
Ma mia beltà, pria che tu fossi, nacque.
Or odi il viver mio s’è tristo e strano,
Da ch’io, tornato in grazia coi mariti,
Son tra i Serventi il Cavalier Decano.
Intronato l’orecchio dai garriti
Ch’odo la sera dalla dolce Dama,
M’alzo il mattino a nuovi oltraggi e liti:
E corro in fretta a lei, che nulla m’ama,
Ma un po’ mi soffre per velar gli astuti
Suoi raggiretti che torrianle fama.
Non gliela tolgo io, no, che dai canuti
Parenti suoi son giudicato degno
D’insegnarle del mondo le virtuti.
E ciò più fammi del suo amore indegno;
Ch’oltre all’esser maturo, esser concesso,
Frutto non son da femminile ingegno.
Ad ogni suo voler pronto e sommesso,
Mezza grazia appo lei così ritrovo:
Ma far mi tocca amari uffici spesso.
Ogni giorno mi nasce un dover nuovo;
Andar, venir, portar, cercar, condurre;
E sempre udirmi dir ch’io non mi muovo.
E guardi il Ciel, se avvien ch’io ne susurre;
Tosto veggio infiammarsi in fuoco d’ira
Le non benigne a me pupille azzurre.
Nè già il mio cor per lei d’amor sospira:
Ma il mio decoro vuol che alla più bella
Io serva, e l’ozio innato a ciò mi tira.
Fra me bestemmio la mia fera stella:
Ma con gli altri, orgoglioso di mia sorte,
Braccier mi vanto dell’ammorbatella.
Il vedi omai, che ai mali miei sol morte
Dar può fine. Su, via, dammela tosto:
O ch’io me stesso ucciderò da forte.
Gran peccato sarebbe (io gli ho risposto)
Se del bel-mondo una sì gran colonna
Mancasse: ed ecco, io ’l ferro ho già riposto.
Deh, vivi ad altra più cortese donna;
Poichè davver pur vivo esser ti credi,
Femminizzando in mal virile gonna.
Me fatto inerme e a te benigno vedi;
Che umil trionfo all’armi mie saresti:
Nè so come a intoppar m’abbi fra’ piedi.
Ben ti ravviso: precettor già avesti
Del rito amabil cui sì ben tu osservi,
Uom ch’a tue spese celebre rendesti.
Quegli i vostri usi stolidi e protervi
Pingea ne’ carmi acutamente amari,
Da ribellare alle lor dame i servi.
E se al Sonno ed all’Ozio eran men cari
Gl’Itali nostri, il di lui morso estinti
Avrebbe i Cavalieri Caudatari.
Ma noi viviam di tanta ignavia cinti,
Che denno uscir Braccieri i nostri eroi,
Nascendo eunuchi e di catene avvinti.
Quindi, più ch’ira assai, pietà di voi
Mi prende sì, che omai rivolger voglio
L’armi in quei che dan vita ai pari tuoi;
E scudo invan coll’insultante orgoglio
Ai vizi lor de’ vizi nostri fanno,
Saldi in tal base più che in alpe scoglio.
Io per timore il ver qui non appanno;
E spero in Dio mostrar ch’essi eran fonte
Primiera e sola d’ogni nostro affanno.
Ma, che dich’io? tai cose a te far conte,
Che in capo hai ricci assai più che cervello,
Sarebbe ai danni espressi accrescer l’onte.
Tu sei d’Italia un spezïale augello:
Non ch’oltre l’alpi il marital costume
S’abbia tra’ ricchi più securo ostello;
Ma il lungo inveterar nel tenerume,
Che in noi doppia il servaggio in cui si nasce,
Pur troppo è tutto Italico marciume.
Nostro è il morir d’anni sessanta in fasce;
E, omai sdentati, balbettar d’amore;
E averne, scevre dei piacer, le ambasce.
Ma, dal cospetto mio vattene fuore,
O tu ch’effetto sei più che cagione
Dell’odïerno Italïan fetore.
Ragion, ch’io serbi ogni mio fiel m’impone
A miglior tema e a men volgar nemico,
Sì che all’ingiuria il flagellar consuone.
Sol, nel cacciarti, o dolce Eroe, ti dico,
(Affinchè nobil l’arte tua più stimi)
Ch’egli è il Zerbino un fior d’Italia antico.
Alla morte di Roma, uno tra’ primi
Dama-serventi leggo esser pur stato
Cesare, quel modello dei sublimi;
Cui Clodïon ben tosto ebbe imitato.