Saggio critico sul Petrarca/I. Petrarca
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I
Francesco Petrarca ebbe grande intelligenza, squisita sensibilitá, ricca immaginazione, poca attitudine alla vita pratica.
Ebbe grande intelligenza, non tale però, che si possa chiamare una intelligenza superiore. Aveva tutte le facoltá elementari e assimilative, molta memoria, grande lucidezza e penetrazione di mente; gli mancavano le facoltá produttive. Non aveva né originalitá, né profonditá; cioè a dire, non aveva né la forza di trovar nuove idee e nuovi rapporti, e stamparvi su il proprio suggello, né la forza di squarciare la superficie, scartare gli accessorii e gli accidenti, cogliere il sostanziale. Aveva invece le qualitá scimie di quelle, che imitano gli stessi procedimenti meccanici, con tanto piú di ostentazione con quanto meno di forza. Non era originale, era singolare: dá al pensiero o alla frase un certo giro, una cert’aria di nobiltá e di ricercatezza da fare effetto. Non era profondo, era acuto; non rimane nella superficie, nel comune delle cose, spinge lo sguardo addentro, ma lá gli s’intorbida la vista, e dá in sottigliezze; vuol esser Tacito, e non è che Seneca. Scrisse opere filosofiche, e non fu filosofo; scrisse opere didattiche, e non fu pensatore. Una intelligenza superiore comanda a tutte le altre facoltá e le adopera ai suoi fini. Il Petrarca non ha una intelligenza signorile, suprema moderatrice dell’anima; ha una intelligenza nata ausiliaria di altre facoltá.
Ebbe una squisita sensibilitá. La quale è facoltá volgare, quando non lascia alcun durabile vestigio al di dentro. Tutti riceviamo giornalmente delle impressioni, che giungono e passano. Ma quando scuote tutta l’anima e la costringe a manifestar le sue forze, hai una differenza non solo di grado, ma di qualitá: la sensibilitá diviene sentimento. E, quando giunge fino all’oblio, alla concentrazione in una cosa sola di tutte le nostre potenze, il sentimento, sospinto alla sua cima, diviene entusiasmo. Il Petrarca ebbe un’anima facile alle impressioni, che s’innalzò in certi casi sino al sentimento, sino all’entusiasmo.
Il sentimento è indizio d’animo superiore. Il volgo ha sensazioni, non ha sentimenti. Perché la natura ci dá facoltá proporzionate ai nostri bisogni, la comune sensibilitá basta alle anime povere; ma quando le impressioni vanno a ferir le anime elette, le fanno lungamente risonare e vi accendono una fiamma, che o consuma l’esistenza, o dee farsi via. Ne’ filosofi, questo incendio interiore si calma con la meditazione; negli uomini di azione con l’azione. II Petrarca non fu né filosofo né uomo d’azione: fu poeta. L’immaginazione fu la sua facoltá dominatrice. La vita non ebbe per lui esistenza che nel suo spirito. Le impressioni operavano immediatamente, e lo rendevano inetto all’osservazione esatta e tranquilla del mondo esterno. Perciò tendeva non a fare di sé uno specchio della natura, come fu detto di Goethe, ma a fare della natura il suo specchio. Questa tendenza subbiettiva gli toglieva in gran parte il senso della realtá, e gliela rendeva trasmutabile secondo la varia onda delle impressioni. Il che lo avrebbe fatto infelicissimo, se la sua immaginativa avesse avuto tanto potere sopra dí lui, da costringerlo a dare ai suoi sogni un valore sostanziale, come fu del Tasso, e, appresso, del Leopardi, non solo poeti, ma personaggi poetici. Il Petrarca sogna e sa di sognare, rimane nel limite dell’immaginazione, non giunge sino all’azione; il che, se è bastante a farne un poeta, non basta a farne una schietta natura poetica. Non ci è proporzione tra la sua immaginazione e il suo carattere: sogna piú di quello che vuole; e, mentre le cose gli si presentano in immaginazione, sa ch’elle non son fatte a quel modo, né, per quanto s’infochi per i suoi fantasmi, si sente ben risoluto a recarli ad atto. Il fantasma è per lui come uno scopo ultimo, nel quale s’appaga; tutto il vario tumulto, che le passioni destano nell’anima, s’acquieta presso di lui in un dolce fantasticare, in un sonetto, in una canzone, in una epistola. Certo, di tutto questo non ha piena e chiara coscienza; e, com’è di tutti gli uomini, s’appassiona per i suoi fantasmi, e studiasi di mandarli ad effetto; ma sente confusamente che non è nato all’opera, ama meglio fantasticare che fare, e fantasticando sfoga il pieno dell’animo. Questa mezza coscienza d’impotenza, questa tanta abbondanza di immaginazione congiunta con si poca virilitá di carattere, ci può spiegare quello che di perplesso e di variabile s’incontra nella sua vita.
Non avea le qualitá della forza, la virtú dell’indignazione, la profonditá dell’odio, la magnanimitá del disprezzo, la santa ira di Dante, le buone e le cattive qualitá delle nature energiche. Gentile, temperato, elegante, facile a sdegnarsi ed a placarsi, inchinevole alla tenerezza, alla malinconia, natura impressionabile e delicata. Ebbe anche le cattive qualitá de’ caratteri deboli. L’orgoglio è la forza, la vanitá è la debolezza. L’ambizione è la forza, la cupidigia è la debolezza. L’emulazione è la forza, l’invidia è la debolezza. Il Petrarca fu vano, cupido, invidioso. Fu vano, si compiaceva delle lodi, e a provocarle era il primo a lodare; faceva la corte a’ principi, e i principi facevano la corte a lui; gli amici lo incensavano, i popoli lo festeggiavano; con un’aria di modestia si lagna spesso di tanti onori che lo perseguono fino nella sua solitudine, compiacendosi però di dirlo e di farlo sapere; l’elogio era la via piú diritta al suo cuore, e sapevanselo i principi, che per questa via mai non ricorrevano invano al Petrarca: serviva d’istrumento, e non se ne avvedeva, e credeva di regolare lui il mondo. Fu cupido di danaro e di onori, difetto di cui s’accusa e si scusa ne’ suoi colloquii con santo Agostino. Salito al pontificato Urbano V, si lamenta con Bruni suo amico di non aver niente ancora ricevuto da lui. E fu satisfatto: piovvero su di lui canonicati, priorati, ambascerie; confidente di principi, beniamino di popoli. Fu invidioso. Ebbe la rara felicitá di non avere eguali durante la vita, di essere superiore all’invidia, e di poter fare il protettore degli uomini di lettere con la stessa ostentazione con la quale i principi proteggevano lui. Ma l’ombra di Dante si drizzava innanzi alla sua immaginazione, come uno spettro nero. Assicura di non averlo mai letto; e, quando il Boccaccio lo prega, di volere pur dire alcuna parola in favore di Dante, e rimuovere da sé il sospetto di portargli invidia, egli vi si rifiuta, protestando di non potere esser tacciato d’invidia verso di un uomo, il quale non trovava ammiratori che presso il volgo. Che amarezza! e come scoppia l’invidia nel punto stesso che vuol nasconderla!
Tale fu il Petrarca. Ciascuno ha un po’ la pedanteria del suo mestiere. Letterato, si avvezzò a considerar gli avvenimenti come una materia letteraria, un tema di orazione o di poesia. Mirava innanzi tutto a fare un bel lavoro: era un po’ come un avvocato: — Il cliente ha perduto la causa, ma io ho fatto una bella arringa. — Cola da Rienzo proclama la repubblica dal Campidoglio: uno de’ sogni piú accarezzati dal Petrarca. Egli scrive una epistola latina, nella quale, dopo i debiti elogi al tribuno ed al popolo romano, conchiude di non poter far nulla lui, e perché prete, e per le gravi faccende che lo tenevano in Avignone. E quando le cose andavano a male, il Petrarca, supplicato di voler far pure alcuna cosa, risponde non poter dare altro a Roma che le sue lacrime. Parlava ardito e lo lasciavano dire; ammiravano la bella forma e poco si davano pensiero delle cose. Nelle sue ambascerie spesso non otteneva nulla; ma lodavano l’ingegno, la bella orazione, e gli regalavano un canonicato. Ben altro fu il destino di Dante. Principi e popoli non distinguevano in lui l’uomo dal poeta; sapevano che nella sua immaginazione non ci era niente di piú che non fosse pronto a mettere nelle sue azioni, onde meritò di essere perseguito da odii inestinguibili. Fu proscritto, povero, e mori, quando il sogno di tutta la sua vita, il suo sogno dell’impero, erasi affatto dileguato; mori in mezzo alle grida trionfatrici dei suoi avversarli. Disdegnoso e vendicativo, volle dei nemici, e li ebbe degni di sé, grandi e implacabili; ma il Petrarca aveva un po’ il desiderio femminile di piacere a tutti, e piacque a tutti. E se volete veder La differenza che corre tra questi due uomini, guardateli in faccia. Quel viso bruno e asciutto, con quelle guance incavate, con quella fronte scura, con quegli occhi infossati e divorati da un fuoco interiore, è Dante. E quella faccia bianca da canonico, quelle guance pienotte, con quella fronte serena, con quegli occhi dolcemente pensosi, è Petrarca.
Ancor giovinetto, mentre vegetava negli studii soliti di gramatica, rettorica e dialettica, il padre gli pose in mano Cicerone, come preparazione alt avvocherai. Ma gli falli il disegno. Cicerone, Virgilio, Livio furono le prime melodie, che sospinsero un’anima piena di entusiasmo e d’immaginazione verso lo studio della letteratura. E se con penosa ubbidienza spese parecchi anni in Montpellier e in Bologna nello studio delle leggi, appena morto il padre, ritornò agli studii prediletti. Si dié tutto alle lettere latine, e piú tardi alle greche, e con molta spesa e fatica procacciò di avere quanti piú manoscritti gli fosse possibile. Anche oggi, se un antico manoscritto è disseppellito, se ne fa gran rumore; e questo è debole immagine alla lunga e viva impressione che la scoperta di un manoscritto produceva in quei tempi, ne’ quali l’antichitá si levava appena sull’orizzonte, tanto piú bella ed ammirata, quanto meno conosciuta. Usò il Petrarca diligenza molta per trovare le opere di Varrone, le storie di Plinio, la seconda Deca di Livio, viaggiando e frugando da per tutto; talora, cercando un libro, ne scopriva un altro non meno prezioso: cosí per caso trovò in Liegi due orazioni di Cicerone, e le sue epistole familiari in Verona. Emendava, postillava, copiava; copiò di suo pugno tutto Terenzio. Dobbiamo alla sua liberalitá ed ai suoi conforti la prima versione di Omero e di parecchi scritti di Platone; e se nei dotti italiani si svegliò tale ardore che, dimentichi della loro propria letteratura, attesero non ad altro per tutto un secolo che alla illustrazione del mondo antico, è in parte opera sua. Fu insieme col Boccaccio il preparatore e il precursore del rinascimento.
Lo studio e l’amore dell’antichitá generò in lui alcune opinioni, che parrebbero singolari, se non fossero state comuni a tutti i contemporanei, cosí vive e tenaci, che anche oggi se ne serba alcun vestigio nel popolo. Roma e Italia antica era l’etá dell’oro collocata nel passato, l’ideale proposto e predicato, a cui la nazione dovea sforzarsi di giungere, in ciò unanimi guelfi e ghibellini, solo nel modo dissenzienti. Il Petrarca credeva fattibile una ristaurazione dell’antichitá; e che non fossero ancora redivivi i tempi de’ Fabrizii e dei Cincinnati, ne accagiona solo la corruzione de’ costumi, contro la quale grida spesso in poesia ed in prosa. Cancellò dalla storia il Medio evo, e congiunse immediatamente il presente con quei tempi antichi. Parla di Mario e di Catone, come se fossero vivuti l’altro jeri; assume volentieri un’aria da re verso gli stranieri, e, nella sua ammirazione per la sua illustre patria, che anche allora avanzava di civiltá tutta Europa, li chiama con romano disprezzo i barbari. Tenutosi lontano dalle gare municipali, ebbe coscienza chiarissima dell’unitá nazionale, né alcuno ha fatto sonar piú alto il nome d’Italia: e a rifarla benedisse a Cola da Rienzo, e non rifiutò Carlo IV. Avrebbe voluto una Roma libera e potente, capo d’Italia; e, fallitagli la speranza, si acconciava anche ad un impero, di cui l’Italia fosse il giardino. Queste opinioni furono in lui abbastanza efficaci per fargli comporre di belle poesie, ma non abbastanza per farlo operare romanamente. Se l’uomo conoscesse a che è buono, non disperderebbe le sue forze inutilmente, spesso a danno di quella causa che vuole e non sa difendere, e sempre con suo disdecoro. Il Petrarca era nato non all’opera, ma alio scrivere; e la parte meglio spesa della sua vita fu quando, secondato il naturai genio, si tirò dalle faccende e si ridusse in solitudine: ivi o compose o terminò o concepí i piú importanti de’ suoi lavori. Ma, in grazia delle sue opinioni, disviò, e fece come chi spendesse la vita alla ricerca della pietra filosofale. La sua pietra filosofale fu lo scopo chimerico di pareggiare gli scrittori latini: errore di quel tempo. I dotti disprezzavano la lingua italiana come «volgare», e poco degna a’ loro alti concetti, non ostante il grande esempio di Dante. Ed il gusto era ancora cosí grossolano, che i Bonati, i Mussati, i Lovato Lovati, erano tenuti quasi redivivi Orazii e Virgilii. E impossibile scrivere letterariamente in una lingua morta. Perché la vita della parola non è nel suo significato materiale, che solo sopravvive, ma nelle immagini, nelle idee accessorie, in certe fine gradazioni, che sono un sottinteso aggiuntovi dal popolo. Le parole latine giacciono senz’anima, come in un dizionario; hanno perduto la fisonomia e il calore, e né il Petrarca, né nessuno può risuscitarle. Fece un poema, e la natura non gli avea dato fantasia da comporre ed animare un vasto ordito. Nondimeno fu questo il principal titolo della sua incoronazione e della sua fama; i contemporanei salutarono con ammirazione il nuovo Virgilio. Sali tanto alto, che i popoli gli andavano incontro, e lo festeggiavano, acclamato principe della parola e della poesia. E venne in tanta grazia de’ principi, che gareggiavano a tirarlo ciascuno dalla sua. Il Petrarca ebbe il buon senso di rifiutare i carichi politici offertigli da re Roberto, da’ papi, da’ principi, non volendo essere frastornato ne’ suoi studii. Accettava però volentieri legazioni, poco rileva da chi o per che, e divenne il cicerone ambulante dei principi italiani. Traevasi da tutte le parti a sentire il legato che con rimbombo ciceroniano predicava comuni veritá, applauditissimo. Era nell’opinione un Virgilio ed un Cicerone, né gli bastò: imitò altri scrittori latini. Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino. Mutò Petracco, il suo cognome, in Petrarca; mutò i nomi degli amici, che diventarono de’ Socrati e de’ Lelii, e i Socrati e i Lelii con giusto cambio chiamavano lui Cicerone, dando il nome di Tullia alla sua figliuola. Pajono bambinerie: delle quali rideremo meno, quando penseremo ai Bruti ed ai Catoni della Rivoluzione francese. Sono le sublimi follie dell’umanitá; e, quanto a me, amo meglio i tempi pieni di fede e di forza, ne’ quali si può fare di tali follie, che i tempi scettici, ne’ quali se ne può ridere. All’ultimo, scrisse epistole a’ piú illustri dell’antichitá, co’ quali viveva in ispirito, a Cicerone, a Seneca, a Pollione, a Quintiliano, a Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, conversando con loro dimesticamente, mescolando lodi e biasimi, talora con molta giustezza di criterio. Poco innanzi di morire, indirizzò un’epistola alla posteritá, dove le si raccomanda, rassegnandole tutto quello che avea scritto per farsene degno. Ma di tutto quello che ha scritto, non è sopravvivuto che il suo epistolario; e non giá come opera letteraria, ma per un gran numero di circostanze e di fatti che ce lo rendono prezioso. Notabili soprattutto sono le familiari, e piú particolarmente le epistole senili, che si possono considerare come le sue Memorie. Sono uno specchio fedele del suo carattere e della sua vita ne’ tratti piú confidenziali, e dove non di rado trovi un accento che gli viene dall’anima e te gli affeziona. Talvolta vi esprime con effusione de’ sentimenti che hai giá letti felicemente condensati in qualcuno de’ suoi versi italiani.
Giunse il Petrarca alla posteritá, ma per un’altra via. E se alcuno avesse potuto dirgli: — Tu sarai grande non per quello in cui hai occupata tanta parte della vita, ma per le tue rime — , ne sarebbe rimasto stupefatto, lui ed i suoi contemporanei. Quelle rime fu piú volte tentato di bruciarle, e si dice che ne abbia bruciate un gran numero. Nondimeno in vecchiezza, veggendo l’universale favore in cui erano, con giusto presentimento attese ad ordinarle, a limarle; e ne usci il Canzoniere. Le sue fatiche di erudito gli hanno acquistato uno de’ primi luoghi tra i benemeriti delle lettere; ma la gloria, il nome di grand’uomo glie l’hanno acquistato le sue rime. E giunto a noi, accompagnato con Laura.