Saggio critico sul Petrarca/Appendice
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APPENDICE
Questo saggio è comparso la prima volta in forma di conferenze quando io era in Zurigo, e propriamente nel i858. In quella illustre cittá era allora accolto il fiore della emigrazione tedesca e francese. C’era Wagner, Mommsen, Vischer, Herwegh, Marx, Köchli, Flocon, Dufraisse, Challemel-Lacour, e talora vi appariva Sue, Arago, Charras. Divenuta centro di studii universitarii e politecnici, in Zurigo s’era formato l’ambiente della coltura, e la cittadinanza si mostrava in gran parte benevola agl’illustri ospiti. D’italiani c’era Filippo de Boni, Cironi, Passerini e qualche altro, tenuti in poco conto, non per la piccolezza loro, ma per la bassa stima che si aveva d’Italia. Un po’ di simpatia c’era tra italiani e francesi, ma i tedeschi ci guardavano con una cert’aria di superioritá protettrice, che mi faceva male. Peggio ancora a sentirli parlare. Noi altri eravamo i Velsci, gli occidentali, e la nostra parte era finita; il mondo apparteneva a loro. Un professore sosteneva dalla cattedra, che la Lombardia, come antico feudo dell’impero, apparteneva per dritto storico all’Austria. Queste opinioni mi parevano singolarissime, e rattiepidivano le mie simpatie tedesche, derivate dal grande amore ai loro filosofi e poeti, nel cui ambiente m’ero formato. Né mi riuscivano meno amare le loro opinioni intorno alla nostra letteratura. Salvavano dalla disistima appena Dante, come Wagner appena Rossini. Ignoravano affatto Leopardi. Il piú bistrattato era Petrarca, che guardavano a traverso il petrarchismo. Io era andato colá con le mie opinioni e con la mia presunzione, e rideva delle loro risa. Wagner mi pareva un corruttore della musica; e niente mi pareva piú inestetico che l’Estetica di Vischer. Tra conversazioni, epigrammi e diverbii, un giorno che mi si diceva molto male del povero Petrarca e degl’italiani nati sonettisti, mi venne in capo di fare una serie di conferenze sopra il Canzoniere, e mi confortò e mi stabili in questo pensiero un ottimo amico mio, Antonio Cherbuliez, riputato economista a quel tempo.
Vennero in gran numero studenti, professori, signore, molti con gli occhi sul testo. Attendevano ch’io spiegassi loro sonetti e canzoni, e talora domandavano qual era la pagina ch’io avrei illustrata. Questo spiega le copiose citazioni e le minute analisi. M’acconciai all’ambiente, com’era mio costume di professore, e mi studiai di fare intendere e gustare quelle poesie, che mi parevano piú degne. In ultime facevano cerchio intorno a me, e volevano chiariti i loro dubbii. Io ci misi molta pazienza, e provai una vera soddisfazione quando mi accorsi che giá facevano la cernita, e distinguevano il buono dal cattivo, il belletto dal bello. Procedettero cosí avanti in questa opera di selezione, che parecchi si maravigliavano come s’era potuto confondere petrarchismo e Petrarca, e nello stesso Petrarca il manchevole e l’eccellente. Era gente quella, che veniva non per applaudire, ma per imparare; e mi guari in parte di quella mia maniera italiana di predisporre nella mente alcuni pensieri o forme peregrine, atte ad assicurare l’applauso. Vedendo che piú mi riscaldavo io, e piú quelli si raffreddavano, mi lasciai ire alla mia natura, aliena da ogni artificio teatrale, e mi sentii piú io in quel dire e non declamare, in quella parsimonia di gesto e di frase.
Queste conferenze furono raccolte da uno de’ miei piú stimati amici, Vittorio Imbriani, e giacquero dimenticate per undici anni. Nel i869 mi tornarono a mente, venutomi innanzi il Petrarca del Mézières. In Zurigo avevo conseguito il mio scopo, ch’era di instaurare e rialzare l’immagine del Petrarca, alterata e abbassata nell’opinione. E c’ero riuscito, perché non ini ci ero messo con quel preconcetto, ma con imparzialitá e calma di giudizio, che m’acquistò grazia presso i dotti tedeschi. Videro che io non volevo ingrandire il Petrarca, né ci mettevo l’amor proprio di un italiano, e che dicevo cose mie, con perfetta sinceritá. Ora a me parve di vedere nel libro del Mézières un Petrarca magnificato, visto in superficie. Né mi parve piú grande, quale ce lo mostrava il simpatico francese, aumentato di volume e di circonferenza, con piú estensione che profonditá. Cosi fui tirato a scrivere di questo libro un giudizio, che apparve la prima volta nell’«Antologia». E come a me pareva non sufficiente questa cagione di scrivere, mi sentii crescere l’argomento; e a proposito del Peti arca e del Mézières trattai della critica e dell’ideale. Avevo notato da parecchio, e fin dal tempo delle mie conferenze dantesche in Torino, come in Italia si continuava come cantilena quel moto d’idee e di sentimenti che aveva prodotto Manzoni e Leopardi, splendido compendio di una grand’epoca, anzi che principio di una nuova. Quel correre appresso a ideali astratti, che facilmente si mutavano in tesi e concetti, mi pareva piú lo strascico stanco del passato, che avviamento a qualcosa di vivo. Una nuova rettorica ci minacciava, e io usai quella occasione per farne la diagnosi, e la chiamai malattia dell’ideale. Persuaso che a certi mali non è altro rimedio che il ricondurre le cose alle loro origini, richiamai l’arte alla sua base fondamentale, che è la vita o la forma vivente, il vero nell’arte. Su questa base avevo concepito il Petrarca e tutti gli scrittori di cui avevo discorso innanzi. E parecchi amici mi furono intorno, e mi dissero: — Perché non pubblicate il vostro Petrarca? — . Allora gittai l’occhio su quelle carte lasciatemi dall’Imbriani, ed ecco, venne fuori il Saggio sul Petrarca.
Ci feci pochi mutamenti; lasciai anche tutta quella copia di citazioni. Nel mio pensiero c’era che il libro doveva riuscire utilissimo a’ giovani, a’ quali le crestomazie porgono scarso nutrimento, ove non abbiano a base lo studio serio e completo di un solo autore. E mi pareva che quello studio fosse efficacissimo a formare in loro il gusto e il criterio, mettendoli in grado di leggere con profitto qualsiasi altro scrittore. Cosi pensavo, e cosí penso.
Oggi, dopo quindici anni, esce la seconda edizione! Io me la piglio con l’editore, che forse non c’entra. E forse me la dovrei pigliare col pubblico che legge poco, o con me che mi fo poco leggere.