Roma italiana, 1870-1895/Prefazione
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PREFAZIONE
Alcuni mesi fa, allorchè in Italia vi era nell’aria un caldo risveglio di amor di patria, una lieta primavera di dolci memorie per festeggiare il 25° anniversario della riunione di Roma alla patria, e col pensiero si evocavano i giorni che precedettero e seguirono quel fatto, che molti italiani avevano accarezzato come un bel sogno, forse senza speranza di vederlo attuato, nacque in me la curiosità di rappresentarmi Roma quale era nel 1870. E quella curiosità mi spinse a leggere i giornali che avevano corrispondenze da Roma, i libri nei quali erano fugacemente narrati gli avvenimenti di quel tempo, e soprattutto a interrogare alcuni Romani, così di parte liberale come di parte retriva, per ricostruire la fisonomia di Roma.
Avevo già preso molti appunti, trascritto diverse narrazioni fattemi da persone degne di fede, e rileggendo quelli e queste, mi parve che coordinando tutto quel materiale avrei potuto scrivere una cronaca di quell’anno, che avrebbe fornito notizie note insieme con altre curiose e poco note, atte a completare le prime, e porre uomini e cose nella loro vera luce.
L’argomento mi allettava moltissimo e in sui primi di luglio incominciai il lavoro, il quale secondo il disegno esposto doveva limitarsi alla cronaca dell’anno memorabile.
Ma appena ebbi scritte le prime cartelle mi accorsi che se il 1870 segnava per Roma e per l’Italia una data incancellabile, monco sarebbe riuscito il mio lavoro, limitandolo alla narrazione dei fatti svoltisi nel breve periodo di tempo che correva fra il settembre e il 31 dicembre, perchè se Roma ai primi del 1871 era italiana di nome, non era ancora la capitale di fatto del giovine Regno, e Vittorio Emanuele vi aveva fatto solo una breve apparizione, più come cittadino che corre a lenire una sventura, che come Re, e il Parlamento e il Governo risiedevano tuttavia a Firenze. Dopo la conquista materiale e dopo il plebiscito rimaneva da fare il più: insediarvi la capitale e conquistarla moralmente.
Allora fui sul punto di abbandonare il lavoro e di distruggerlo per evitare la tentazione di perdere dell’altro tempo nelle ricerche in cui mi dilettavo, ma quando stavo già per gettare sul fuoco tutti gli appunti e le cartelle già scritte, mi balenò l’idea di estendere la cronaca ai venticinque anni di Roma capitale, di narrare, senza spirito partigiano, il bene e il male che si era fatto, non con la pretesa di compiere un lavoro storico a base di considerazioni, che troppo lungo sarebbe riuscito e troppo arduo per me, ma una cronaca che potesse servire a chi fosse desioso di formarsi un idea di ciò che era avvenuto qui nell’ultimo quarto di secolo; una cronaca particolareggiata nella quale fossero notati così i grandi come i piccoli avvenimenti, che avevano appassionato e commosso, afflitto e divertito i Romani.
E quegli avvenimenti non scarseggiavano davvero: dopo la liberazione materiale si era intrapresa a Roma una vasta opera di distruzione del passato; opera morale che mirava a far della città cosmopolita, divenuta tale appunto per l’indole della Chiesa che la governava, la capitale italiana di un regno italiano; opera materiale che tendeva a risanarla, a ringiovanirla, ad ampliarla e a far penetrare nei luridi e malsani quartieri l’aria, il sole e la salute.
Questo duplice lavoro, questa conquista lenta, ma sicura della madre antica divenuta per le vicende della lunga separazione estranea ai figli, che non avevano cessato d’invocarla e d’inspirarsi nel nome di lei, le lotte che aveva suscitate l’improvvisa caduta di quel potere temporale, che pareva incrollabile, la legge sulla soppressione delle corporazioni religiose, il potere civile che si sostituiva a quello ecclesiastico, così nell’insegnamento come in altre manifestazioni della vita del popolo di Roma, la morte del primo re d’Italia, seguita da quella di Pio IX, il Conclave, le feste patriottiche, i pellegrinaggi e tanti altri fatti offrivano al cronista vasto campo in cui mietere e spigolare.
Il lavoro era lungo, specialmente per le ricerche e le indagini, paziente, penoso anche, ma non difficile, e l’intraprenderlo non costituiva, da parte mia, un atto di presunzione.
Il cronista non è come lo storico un giudice e un filosofo, dal quale si richiede che ponderi le cause determinanti i fatti, e studi gli uomini in mezzo alle condizioni della loro esistenza per trarre dagli avvenimenti, se non leggi scientifiche, come voleva il Buckle e prima di lui il Vico, almeno ammaestramenti; il cronista è un semplice narratore, e anche gli antichi compilatori delle cronache da cui ora si traggono le notizie più curiose, le quali servono a ricostruire la fisonomia di una città, di un popolo, e a mettere nella sua vera luce una figura, erano spesso tutt’altro che dotti, come non sono dotti i cronisti dei giornali, che hanno tra tutti i redattori l’ufficio più modesto, ma non meno utile.
L’idea di compilare la cronaca non mi sgomentò, e così gli appunti e le cartelle non perirono fra le fiamme e io ripresi a sfogliar giornali, a consultar persone, che avevano avuto parte negli avvenimenti più salienti, cercando di mandare avanti di pari passo il lavoro di ricerca con quello di compilazione. E quel lavoro mi occupava in maniera siffatta che io non mi accorgevo di vivere nel presente, tanto era assorta nel recente passato, e parevami di veder sfilare dinanzi ai miei occhi personaggi ormai discesi nella tomba, di assistere alle lotte e agli attriti fra il Papato e il Governo italiano, (li aggirarmi in quella Roma scomparsa, in mezzo alla gente che vi era nata e dall’altra che aveva portato dal di fuori idee, sentimenti e aspirazioni nuove, e più moderne.
Ai primi di settembre, il mio lavoro, non mai interrotto, era più che alla metà, e difatti per il giorno 20, allorchè Roma era piena di pellegrini di ogni parie d’Italia, e per le vie si udivano gl’inni, baldi che avevano infiammato i cuori alla riscossa, e gli ultimi raggi del sole estivo accarezzavano le bandiere nazionali e le vecchie camicie rosse, i primi fascicoli della “Roma Italiana„ erano già in vendita insieme con tante altre pubblicazioni fatte in omaggio delle nozze d’argento.
La prima parte del lavoro mi era costata fatica, moltissima fatica, ma non pena, perchè Roma nei primi quindici anni della sua riunione alla patria, era in un periodo di rapida trasformazione, in quel periodo del divenire, sul quale sempre aleggiano a frotte i sogni lieti. I capitali affluivano, affluiva la gente dalle provincie, e pareva che la speranza dovesse avverarsi, la lieta speranza di fare della terza Roma una grande e fiorente capitale moderna, che avesse sulle consorelle il privilegio delle gloriose memorie e dei vetusti monumenti.
Ma quando giunsi al momento di registrare le delusioni e le sventure, quando la penna dovette incominciare la narrazione delle crisi finanziarie, dei lavori sospesi, degli operai disoccupati, che non avevano più mezzo di campar la vita, allora il lavoro fecesi angoscioso e la mano non scorreva più veloce sulla carta. Non aveva più da notare disegni di grandi lavori, memorabili sedute parlamentari, concordia degli animi nel nome di Roma; ma disastri, lotte grette d’ambizioni, rovine morali e materiali, e scoraggiamento in tutti. Inoltre, riguardi verso persone tuttora vive, che avevano rappresentato una parte importante nella dolorosa tragedia romana, mi costringevano di dire di molte cose, non altro se non quello che già era stato stampato e anche meno, per non dare alla cronaca un impronta partigiana, un carattere polemico contrario all’indole del lavoro; cioè infinitamente meno di ciò che sapevo, e così esso perdeva una parte, e forse la maggiore, della attrattiva che avrebbe dovuto e potuto avere.
E allora la tirannia del limite imposto al lavoro, che non dovea superare quel dato numero di fascicoli, tirannia che aveva lamentata in principio, mi parve provvidenziale. Essa mi costringeva a toccare appena a molti fatti dolorosi, a molte cose che a noi contemporanei parvero rovinose ed esiziali, e che forse giudicate dalla storia appariranno come conseguenza necessaria della grande rivoluzione morale e materiale compiutasi a Roma.
Peraltro nella cronaca ho coscienza di non aver trascurato nessun fatto, grande o piccino; dall’avvenimento politico, al pettegolezzo nato nelle colonne dei giornali, sulle panche del caffè, e nei salotti aristocratici. E senza tracciar biografie delle persone, il cui nome mi cadeva sotto la penna, senza schizzarne il profilo, ho tentato di far emergere la fisonomia di esse dal loro operato. Non so se vi sarò riuscita, ma è certo che mi sono studiata di ottenere quel risultato.
Vi è un vecchio proverbio popolare che dice: “Beati i primi!„ Non mai come in questo lavoro, che è il primo fatto su Roma degli ultimi tempi, ho riconosciuto come quel proverbio sia falso. Se avessi avuto la scorta di libri o di cronache su questi venticinque anni di vita romana, avrei faticato molto meno, e il libro sarebbe riuscito più esatto. Poichè dovendomi contentare delle notizie dei giornali non sempre fedeli, e scritte spesso con spirito partigiano, e delle testimonianze di persone, che anche sincere, potevano aver memoria labile, sarò certo incorsa in errori come se ne notano in ogni storia e in ogni cronaca antica e moderna, errori che dànno tanto da fare ai critici, i quali senza quegli errori da confutare dovrebbero procacciarsi altra occupazione.
Mancando dunque di libri sarebbe stato meglio, e lo riconosco io stessa, il pubblicare i diversi capitoli della “Roma Italiana„ prima in un giornale, e valendomi delle rettifiche dei lettori, come ha fatto Raffaele de Cesare nella sua bella opera: “La fine di un Regno„ correggere i capitoli prima di riunirli in volume. Ma una parte del lavoro doveva comparire per il 20 settembre, e il tempo mi sarebbe mancato per la pubblicazione nel giornale.
Se errori dunque vi sono, i lettori avranno la cortesia d’indicarmeli, affinchè una nuova edizione possa riuscire più esatta e più completa, ed essi nel rettificarli non faranno solo un piacere a me, ma a quelli che della modesta cronaca mia si varranno per lavori di maggiore importanza.
In un libro così voluminoso e che non ha potuto esser sottoposto ad una revisione simultanea, essendo comparso a fascicoli, che venivano stampati via via che erano scritti, anche gli errori tipografici meriterebbero una errata-corrige; ma io so bene quale sorte è riservata a quella correzioni messe in fondo al volume: nessuno vi getta un occhiata, nè benevola nè malevola, e gli strafalcioni rimangono tali e quali. Preferisco lasciare correggere dal lettore stesso. Uno solo voglio rilevarne, che si vede appunto a pagina 6, là dove dice... «e ora che il Bixio è morto, che il Cadorna lo ha seguito nella tomba...». Dalla dicitura parrebbe che io avessi messo l’illustre generale, al quale auguro lunga vita, fra il novero dei trapassati. In quel punto è saltata una intera riga, e prego il lettore di leggere così come fu scritto: «... nella tomba volontaria dove si è rinchiuso forse tormentato dal rimorso di aver eseguito gli ordini del sue Re...». Questo scrivevo in luglio e la lettera al sindaco di Roma, con la quale il general Cadorna rifiutava di assistere alle feste commemorative della liberazione della città, lettera che suscitò tante polemiche, confermava uno dei pochi giudizi che io abbia osato manifestare nel libro.
Un altro, frutto di una profonda convinzione, oso esprimerlo qui, e si è che senza l’opera benefica dei due Re che si sono succeduti al Quirinale, e di Margherita di Savoia, Roma avrebbe passato giorni molto più tristi di quelli che le ha riserbato la sorte, e vivi si manifesterebbero ancora gli attriti fra le due parti della cittadinanza; quella devota al Vaticano, e quella devota al Quirinale.
Vittorio Emanuele e Umberto hanno saputo conquistare la stima e il rispetto degli avversari, spiegando senza pompa quella virtù che sono un retaggio dei Sabaudi; la Regina, con il suo amore per tuttociò che è bello e buono, col suo animo mite ha destato nei cuori l’ammirazione e la riverenza, e unita al Re nell’affetto per i miseri, nella brama di sollevare le sventure, ha dimostrato quanta influenza abbia una Sovrana, senza ingerirsi di politica, senza ambizioni di dominio, sui destini di un popolo.
Roma, 25 marzo 1896.
Emma Perodi.