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Ai primi di settembre, il mio lavoro, non mai interrotto, era più che alla metà, e difatti per il giorno 20, allorchè Roma era piena di pellegrini di ogni parie d’Italia, e per le vie si udivano gl’inni, baldi che avevano infiammato i cuori alla riscossa, e gli ultimi raggi del sole estivo accarezzavano le bandiere nazionali e le vecchie camicie rosse, i primi fascicoli della “Roma Italiana„ erano già in vendita insieme con tante altre pubblicazioni fatte in omaggio delle nozze d’argento.

La prima parte del lavoro mi era costata fatica, moltissima fatica, ma non pena, perchè Roma nei primi quindici anni della sua riunione alla patria, era in un periodo di rapida trasformazione, in quel periodo del divenire, sul quale sempre aleggiano a frotte i sogni lieti. I capitali affluivano, affluiva la gente dalle provincie, e pareva che la speranza dovesse avverarsi, la lieta speranza di fare della terza Roma una grande e fiorente capitale moderna, che avesse sulle consorelle il privilegio delle gloriose memorie e dei vetusti monumenti.

Ma quando giunsi al momento di registrare le delusioni e le sventure, quando la penna dovette incominciare la narrazione delle crisi finanziarie, dei lavori sospesi, degli operai disoccupati, che non avevano più mezzo di campar la vita, allora il lavoro fecesi angoscioso e la mano non scorreva più veloce sulla carta. Non aveva più da notare disegni di grandi lavori, memorabili sedute parlamentari, concordia degli animi nel nome di Roma; ma disastri, lotte grette d’ambizioni, rovine morali e materiali, e scoraggiamento in tutti. Inoltre, riguardi verso persone tuttora vive, che avevano rappresentato una parte importante nella dolorosa tragedia romana, mi costringevano di dire di molte cose, non altro se non quello che già era stato stampato e anche meno, per non dare alla cronaca un impronta partigiana, un carattere polemico contrario all’indole del lavoro; cioè infinitamente meno di ciò che sapevo, e così esso perdeva una parte, e forse la maggiore, della attrattiva che avrebbe dovuto e potuto avere.

E allora la tirannia del limite imposto al lavoro, che non dovea superare quel dato numero di fascicoli, tirannia che aveva lamentata in principio, mi parve provvidenziale. Essa mi costringeva a toccare appena a molti fatti dolorosi, a molte cose che a noi contemporanei parvero rovinose ed esiziali, e che forse giudicate dalla storia appariranno come conseguenza necessaria della grande rivoluzione morale e materiale compiutasi a Roma.

Peraltro nella cronaca ho coscienza di non aver trascurato nessun fatto, grande o piccino; dall’avvenimento politico, al pettegolezzo nato nelle colonne dei giornali, sulle panche del caffè, e nei salotti aristocratici. E senza tracciar biografie delle persone, il cui nome mi cadeva sotto la penna, senza schizzarne il profilo, ho tentato di far emergere la fisonomia di esse dal loro operato. Non so se vi sarò riuscita, ma è certo che mi sono studiata di ottenere quel risultato.

Vi è un vecchio proverbio popolare che dice: “Beati i primi!„ Non mai come in questo lavoro, che è il primo fatto su Roma degli ultimi tempi, ho riconosciuto come quel proverbio sia falso. Se avessi avuto la scorta di libri o di cronache su questi venticinque anni di vita romana, avrei faticato molto meno, e il libro sarebbe riuscito più esatto. Poichè dovendomi contentare delle notizie dei giornali non sempre fedeli, e scritte spesso con spirito partigiano, e delle testimonianze di persone, che anche sin-