Rivista di Cavalleria - Volume I/VI/Caccia alla volpe nella campagna romana
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Caccia alla volpe nella campagna romana
La rivoluzione francese prima e le guerre napoleoniche poi portarono radicali modificazioni nelle costumanze di tutti i paesi. Quelle relative all’equitazione si modellarono in Italia sull’imitazione degli inglesi, i quali, usciti senza gravi iatture da quel periodo di crisi, scesero in gran numero a svernare al nostro sole e a godersi i nostri tesori di storia e di arte. Larghi delle loro ricchezze, riuscirono facilmente ad attirarsi la simpatia della popolazione, e a generare nella nostra aristocrazia il desiderio d’imitarli, specialmente nel modo di vestire, e nelle consuetudini, diremo così, sportive, nelle quali loro erano maestri. Da qui l’importazione dei loro cavalli, delle loro carrozze, e l’abbandono delle antiche livree, cariche di galloni e dorature.
Ed è appunto agli inglesi, e precisamente a lord Chesterfield, che dobbiamo l’introduzione nei nostri costumi della caccia alla volpe e, in seguito, delle corse con ostacoli. Il metodo di equitazione, nuovo per noi, ma già praticato da molto tempo in Inghilterra, venne utilizzato a Roma più che nelle altre città d’Italia, perchè la campagna che la circonda non offriva comodi viali agli amatori dell’equilazione per puro passatempo, come ne offrivano le Cascine di Firenze o la Villa Reale di Napoli.
Allora, come adesso, a chi avesse voluto galoppare in aperta campagna, erano necessarii cavalli di fondo e di sangue, sia per le rilevanti distanze da percorrere, sia per le molte accidentalità del terreno da superare.
A Roma pertanto arrivavano ottimi cavalli di mezzo sangue e ne partivano invece quelli ammaestrati alle appoggiate ed al passo spagnuolo.
Così fu che, nell’anno 1844, un numero ristretto di signori, inglesi e romani, che facevano capo presso lord Chestertfield e presso il principe Don Livio Odescalchi, organizzarono, privatamente, le prime cacce alla volpe, e, poco dopo, con personale, cavalli e cani fatti appositamente venire dall’Inghilterra, per iniziativa di Don Livio Odescalchi e sotto la sua presidenza, fu fondata la Società Romana per la caccia alla volpe.
Il canile era allora nel palazzo di Papa Giulio, sulla via Flaminia, ove attualmente è il museo delle antichità extra-urbane; segretario della Società fu D. Flavio Chigi, che, fattosi in seguito prete, fu nunzio a Parigi e morì cardinale.
Nel 1845 la stagione ebbe termine con una giornata di corse, che venne ripetuta, con successo assai maggiore, nel 1846 e nel 1847 a Roma Vecchia, sulla via Appia Nuova.
Queste riunioni furono quelle che dettero origine alle corse con ostacoli in Italia, come gli steeple-chases, corsi da pochi genllemens alla Croix de Berny, presso Parigi, hanno dato origine alle corse con ostacoli in Francia.
La corsa più importante a Roma Vecchia, riuniva, su lungo e difficile percorso, tracciato in aperta campagna, i migliori cavalli che avevano cacciato durante la stagione; alle staccionate e macerie che tagliavano il percorso, indicato solo da banderuole, veniva aggiunta la banchina irlandese, cioè un rialzo di terra a pareti verticali, alto un metro e trenta e largo più di una grossa maceria, preceduto e seguito da un fosso di un metro, abbastanza profondo. Quest’ostacolo, ora abolito nei nostri steeple-chases, veniva superato facilmente, perchè i cavalli vi appoggiano i piedi sopra; il che era permesso dall’andatura che raramente sorpassava la velocità di un buon galoppo da caccia.
La giornata veniva chiusa con una corsa di cavalli di campagna, montati da butteri, con la classica bardatura, ancora in uso nella campagna romana.
Nel 1848 la società si sciolse, e non venne ricostituita che dopo il ritorno di Pio IX da Gaeta; ne fu redatto lo statuto il 5 maggio ’52.
Benchè assai pochi fossero ancora quelli che veramente seguissero i cani superando gli ostacoli, tuttavia il numero dei cavalieri era in quel tempo considerevole; gli appuntamenti erano il ritrovo della società elegante, e la colonia straniera, allora molto numerosa in Roma, interveniva in gran parte alle caccie. Alla mancanza di cavalli inglesi si rimediò con cavalli del paese, che venivano presi dai forestieri in affitto per cacciare. Questi cavalli, tutti di razze romane, galoppavano poco, ma saltavano benissimo, perchè messi in discreta condizione ed assuefatti a quel genere di ostacoli. D’altronde le staccionate erano, è vero, più numerose di adesso, essendovi maggior numero di bestiame, ma erano anche assai più basse; grossa staccionata era allora soltanto quella che tracciava il confine tra le diverse proprietà, e difficilmente s’incontrava quella di un metro e venti, quasi generale oggi.
In seguito a qualche disgrazia, principale delle quali fu la morte del signor Bossi, caduto nel saltare un fosso, il governo pontificio proibì le caccie, ascoltando, si dice, le istanze della principessa Odescalchi; ma per le pratiche assidue del duca Grazioli, il divieto veniva tolto due anni dopo e la società si ricostituiva su basi più solide. Aiutata largamente da S. M. il Re, essa continuò sempre dopo il 1870, e ne furono master, dal '70 in poi, Giulio Silvestrelli, Ladislao Odescalchi, Giulio Grazioli, il compianto Agostino Chigi e, presentemente, il marchese di Roccagiovine, il primo fa i nostri gentlemen riders.
Fu nell'anno 1871 e 1872, che il Principe Umberto seguì con assiduità le cacce, acquistandovi quella solidità e scioltezza di movimenti e quella confidenza all’ostacolo che non si ottenevano facilmente con i metodi prevalenti nelle scuole militari di allora.
Per desiderio del Principe Umberto, il pittore Blaas, nolo per gli studi fatti sui cavalli, dipinse un quadro rappresentante i migliori cavalieri di quell’epoca, alla testa dei quali è il principe, mentre, dietro ai cani, traversano una strada saltando la maceria e la staccionata che la racchiudono.
Vi si notano il marchese Carlo Origo, Augusto Silvestrelli, D. Mario e D. Giulio Grazioli, il marchese Luigi Calabrini, D. Ladislao Odescalchi.
Il quadro conservasi in una anticamera del palazzo reale di Monza.
In quell’epoca pure un vero rivolgimento avveniva nella produzione equina dell’agro romano, con utilità o danno, non potrebbe ancor dirsi.
Certo è che le grandi razze, esistenti allora, dei Cesarini, Silvestrelli, Tittoni, Chigi, non tardarono a scomparire. La prima traeva origine da stallone arabo, l’ultima da padre andaluso, le due di mezzo da padri tedeschi, i quali, accrescendone la mole e arrotondandone le forme, ne avevano ad un tempo infiacchita la fibra. I figli dell’andaluso avevano invece conservato, nella razza Chigi, l’antico brio e la facoltà di sollevare le estremità anteriori in modo così singolare, da richiamare al loro passaggio la generale attenzione; però quel modo, diremo cosi, di inciambellare le gambe, nuoceva alla forza di resistenza e alla velocità dei movimenti, non soltanto al galoppo, ma anche al trotto. Tuttavia questi cavalli venivano ammirati ed acquistati a caro prezzo. Della razza Cesarini alcuni residui durano ancora disseminati in diverse tenute prossime alla capitale.
Altra razza, interamente scomparsa, era quella dei principi Rospigliosi, rimarchevole per il pelame bianco perlino, volgarmente chiamato dai romani caffè e latte; ma i prodotti della vasta tenuta di Maccarese, provenienti anch’essi da padre spagnuolo, non uguagliavano in resistenza quelli delle altre razze romane.
A compensare siffatte mancanze si ebbero altri allevamenti, i quali dettero, sulle prime, non poche speranze, ma ben presto decaddero e impoverirono. Intendo parlare di quelli di Tanlongo, Mazzoleni e Piacentini, tacendo di altri, non saliti alla fama a cui quelli ben presto pervennero. L’ultimo anzi tutti provò che l’incrocio con l’arabo è da preferirsi per gli usi nostri; e infatti i prodotti della razza Piacentini segnarono un vero progresso per l’allevamento nell’Agro Romano; ed è perciò tanto più doloroso vederli scomparire per mancanza di mezzi, avendosi così nuova prova del poco tornaconto che offre da noi l’allevamento del cavallo, anche nelle località più idonee e favorite dalla natura.
È questo un argomento che ci trarrebbe a considerazioni ben più serie di quello che il titolo del nostro modesto articolo lo comporti.
Auguriamoci solo di progredire in questa, che potremmo dire davvero, patriottica industria, tanto da accrescere la produzione equina in guisa da provvedere ai nostri bisogni.
Ma per tornare donde siamo partiti, noteremo che ora anche la società della caccia tra i suoi cavalli ne possiede due italiani, nati nell’allevamento italiano Torlonia a Torricola e figli di cavalle irlandesi e di stallone puro sangue (Gullane).
Presentemente il canile possiede otto cavalli, trenta coppie di cani, e personale italiano, che non la cede per nulla a quello, non certamente di prim’ordine, che ci veniva mandato dall’Inghilterra, e che su quello ha i grandi vantaggi di costar meno, di conoscere meglio la campagna e di affezionarsi ai cavalli ed ai cani.
La campagna romana, questa grande maestra di equitazione, che ha formato i nostri migliori e più arditi cavalieri, è tanto vasta che lo sport non vi teme i progressi dell’agricoltura e il propagarsi delle semente.
Quante località, appena un poco lontane, non furono mai percorse dai cani! E appunto dal dover cercare in estensioni immense, dalla difficoltà che trovano i cani di definire la pesta, guastata e tagliata dal bestiame, dalla facilità che ha la volpe di prendere le spallette, o di salvarsi fra i ruderi e le catacombe di cui abbonda la campagna, dal genere di ostacoli infine che i cavalieri sono obbligati a superare pur di seguire il galoppo, la caccia in campagna romana può ritenersi più diffìcile e più seria di qualsiasi altra, anche di quella praticata in Inghilterra, dove la volpe si va a cercare al covert, ov’è nutrita e protetta.
Alla Società Romana si deve la lode di avere, sola in Italia, mantenuto le tradizioni dello sport, non ammettendo simulacri di caccia e cercando l'animale che i cani dovranno inseguire, a differenza delle altre cacce a cavallo praticate da noi, ove l'animale da cacciare è allevato in domesticità e condotto sul posto!
Agli abiti rossi che seguono i cani, si aggiungono oggi molti ufficiali dell'esercito, e sempre numerosi forestieri, che tornano ogni anno a percorrere l'incomparabile campagna e ad ammirare la monotona e pur sempre bellissima vista del classico e severo paesaggio di Roma.
Vicenza, 20 aprile 1898.
P. Campello della Spina Sottotenente in Genova Cavalleria. |