Rime (Vittoria Colonna)/Canzone I

Canzone I

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Sonetto CXXV Canzone II
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CANZONE I.


S
pirto gentil, che sei nel terzo giro

     Del Ciel fra le beate Anime asceso,
     Scarco del mortal peso,
     Dove premio si rende a chi con fede
     5Vivendo fu d’onesto amore acceso;
     A me, che del tuo ben non già sospiro,
     Ma di me, ch’ancor spiro;
     Poichè al dolor, che nella mente siede
     Sopra ogn’altro crudel non si concede
     10Di metter fine all’angosciosa vita;
     Gli occhi, che già mi fur benigni tanto,
     Volgi ora ai miei, ch’al pianto
     Apron sì larga, e sì continua uscita:
     Vedi, come mutati son da quelli,
     15Che ti solean parer già così belli.

L’infinita ineffabile bellezza,
     Che sempre miri in Ciel, non ti distorni,
     Che gli occhi a me non torni,
     A me, che già mirando ti credesti
     20Di spender ben tutte le notti e i giorni;
     E se ’l levarli alla superna altezza
     Ti leva ogni vaghezza,
     Di quanto mai qua giù più caro avesti;
     La pietà almen cortese mi ti presti,
     25Ch’in terra unqua non fu da te lontana:
     Ed ora io n’ho d’aver più chiaro segno,
     Quando nel divin Regno
     Dove senza me sei, n’è la fontana.
     S’Amor non può, dunque pietà ti pieghi
     30D’inchinar il bel sguardo alli miei preghi.

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Io sono, io son ben dessa; or vedi come
     M’ha cangiato il dolor fiero ed atroce,
     Ch’a fatica la voce
     Può di me dar la conoscenza vera.
     35Lassa, ch’al tuo partir, partì veloce
     Dalle guancie, dagli occhi, e dalle chiome
     Questa, a cui davi nome
     Tu di beltate, ed io n’andava altera,
     Che me ’l credea, poichè in tal pregio t’era.
     40Ch’ella da me partisse allora, ed anco
     Non tornasse mai più, non mi dà noja,
     Poichè tu, a cui sol gioja
     Di lei dar intendea, mi venne manco,
     Non voglio, no, s’anch’io non vengo, dove
     45Tu sei, che questo, od altro ben mi giove.

Come possibil è, quando sovviemme
     Del bel guardo soave ad ora ad ora,
     Che spento ha sì breve ora;
     Ond’è quel dolce e lieto riso estinto,
     50Che mille volte non sia morta, o muora?
     Perchè pensando all’ostro, ed alle gemme,
     Ch’avara tomba tiemme,
     Di ch’era il viso Angelico distinto,
     Non scoppia il duro cor dal dolor cinto?
     55Com’è ch’io viva, quando mi rimembra,
     Ch’empio sepolcro, e invidiosa polve
     Contamina e dissolve
     Le delicate alabastrine membra?
     Dura condizion, che Morte è peggio,
     60Patir di morte, e insieme viver deggio.

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Io sperai ben di questo carcer tetro,
     Che qua giù serra ignuda anima sciorme,
     E correr dietro all’orme
     Degli tuoi santi piedi, e teco farmi
     65Delle belle una in Ciel beate forme,
     Ch’io crederei, quando ti fossi dietro,
     E insieme udisse Pietro,
     E di fede, e d’amor di te lodarmi,
     Che le sue porte non potria negarmi.
     70Deh perchè tanto è questo corpo forte,
     Che nè la lunga febbre, nè ’l tormento,
     Che maggior nel cor sento,
     Potesse trarlo a destinata morte?
     Sicchè lasciato avessi il mondo teco,
     75Che senza te, ch’eri suo lume, è cieco.

La cortesia, e ’l valor, che stati ascosi
     Non so in qual antri, e latebrosi lustri
     Eran molt’anni e lustri;
     E che poi teco apparvero, e la speme,
     80Che in più matura etade all’opre illustri
     Pareggiassi de’ Publij quei famosi
     Tuoi fatti gloriosi
     Sicch’a sentire avessino l’estreme
     Genti, ch’ancor viva di Marte il seme;
     85Non pur non veggio, nè da quella notte,
     Che agli occhi miei lasciasti un lume oscuro;
     Non più veduti furo,
     Che ritornaro a loro antiche grotte;
     E per disdegno congiuraron, quando
     90Del mondo uscir, torne perpetuo bando.

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Del danno suo Roma infelice accorta
     Dice: poichè costui Morte mi tolli,
     Non mai più i sette colli
     Duce vedrà, che trionfando possa
     95Per Sacra via trar catenati i colli.
     Dell’altre piaghe, ond’io son quasi morta,
     Forse sarei risorta;
     Ma questa è in mezzo ’l cor quella percossa,
     Che da me ogni speranza ne ha rimossa.
     100Turbato corse il Tebro alla marina;
     E ne diè annuncio ad Ilia sua, che mesta
     Gridò piangendo: or questa
     Di mia progenie è l’ultima ruina.
     Le sante Ninfe, e i boscherecci Dei
     105Trassen il grido a lagrimar con lei.

E si sentir nell’una e l’altra riva
     Pianger Donne e Donzelle, e figlie e matri,
     E da’ purpurei Patri
     Alla più bassa plebe il popol tutto,
     110E dire: o patria questo dì fra gli atri
     D’Allia, e di Canne ai posteri si scriva;
     Quei giorni, che cattiva
     Restasti, e che ’l tuo Imperio fu distrutto,
     Nè più di questo son degni di lutto;
     115E ’l desiderio, Signor mio, e ’l ricordo,
     Che di te in tutti gli animi è rimaso,
     Non trarrà già all’Occaso
     Di questo il violente Fato ingordo;
     Nè potrà far, mentre che voce, o lingua
     120Forman parole, il tuo nome s’estingua.

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Pon questa appresso all’altre pene mie,
     Che di salir al mio Signor, Canzone,
     Sì ch’oda tua ragione,
     D’ogn’intorno ti son chiuse le vie.
     125Piacesse a’ venti almen di rapportarli,
     Ch’io di lui sempre pensi, e pianga, e parli.