Rime (Andreini)/Hielle piange la madre
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HIELLE PIANGE LA MADRE.
S’eran gli Augei notturni;
E già svegliata uscìa la Rondinella
A’ bei raggi diurni;
Quando più ch’altra bella
Hielle sorgendo, la vermiglia Aurora
Vide, che violette, e rose, e gigli
Da la sua chioma inannellata, e bionda,
E da l’eburneo seno
Spargèa del Ciel ne le contrade eterne;
E col piè vago d’animata neve
Di fior premendo l’ingemmato suolo
Seguitò fin che giunse
Là dove scaturìa da un vivo sasso
Liquefatto un bel vetro, che se n’ gìa
Con lento, e queto passo
L’herbe irrigando; ivi si pose, ed ivi
Pensosa al volto fè colonna, e letto
Del braccio, e de la mano; e fisò i lumi
A terra, intanto il Sole
Cominciò di se stesso à far corona
De’ vicin Monti à l’elevate cime
Del Gange uscito. ella dolente scossa
Quasi da sonno à lui rivolta disse.
Leggiadro almo Pianeta
Tu sorgi à rasciugar le molli brine,
Che da gli humidi vanni de la notte
Son cadute, nè mai de gli occhi miei
Perciò rasciughi il pianto.
Al tuo vago apparir più che mai lieti
Sorgono i fiori à prova: io (lassa) mai
Dal grave incarco de gli affanni miei
Erger non posso il core.
Spiegano al tuo venir dolci carole
I garruli Augelletti:
Io dolente non meno
O Sole al tuo venir, che al tuo partire
Vivo in amaro pianto;
Ma voi deh per pietade
Uscite meste de gli herbosi fondi
O Ninfe, ch’abitate i fonti, e i fiumi,
Ed aggiungete meco (ancor che ’nvano)
Lagrime al pianto; e voi
Lasciate ò molli herbette,
Lasciate il vostro verde: hor più non lice
Di smeraldo portar gonna ridente.
Dipinti Augei, che per le Tosche selve
Di ramo in ramo saltellando andate
Dite nel vostro canto
La gloria d’Arno, e la sua pompa è morta.
Morta è la nobil Donna,
Che fù del viver mio securo appoggio;
E brev’urna sotterra
Gran beltà, gran virtù, gran lode serra.
Ma che dich’io? sua lode intorno scorre,
Ed ha solo per meta i Poli, e ’l Cielo
Dov’hor si posa la bell’alma, e lieta
Vagheggia à voglia sua quel che noi tanto
In dubbio pone. à noi stà sopra il Sole
Con gli altri ardenti lumi;
E ben c’huom si consumi
Ne l’intender la forza, e i moti loro
Al ver però non giunge;
Ed ella à pien gli intende, e gli fruisce.
Hor noi di sì gran perdita dolenti
Poco il pomo curiam, poco la fonte,
Perche la fame l’un, l’altra la sete
E domi, e vinca, in altra parte il sonno
Sparga pur sua quiete: à noi non cale,
Ch’ei dal Mondo ne sciolga, ò da noi stessi.
Et io, che più d’ogn’altra afflitta vivo
Ben à dritta ragion il cibo, e ’l sonno
Cara Madre sbandisco
Ogn’hor Morte chiamando.
O nemica mia stella, ò destin rìo.
S’esser cruda per me devesse, ed empia
L’innesorabil Parca
Col levarmi dai vivi
Ben ella in ciò saria veloce, e presta
Come fù alhor, che tè da noi divise;
Ma perch’ella conosce,
Ch’essendomi crudel fora pietosa
Perdona al viver mio,
Quando l’alma dolente altro non brama,
Che trar gli infausti giorni
Per l’occaso di morte al fin de gli anni.
Deh giunga de’ miei dì l’ultima notte,
Notte, ch’à me più chiara fia del giorno.
Felicità de gli infelici Morte,
Morte deh prego trammi
Là vè sotto sembiante
Di morte è vita vera.
Pommi col cener freddo de l’amata
Mia Genitrice, pommi ov’è colei,
Che molto seppe al mondo, e poco visse.