Ricordi delle Alpi/Parte Seconda/V
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V.
L’Ossario.
Che cos’è un ossario?
È una cappelletta, una qualunque camera quadrata, ordinariamente di fianco, dietro o in prossimità della chiesa parrocchiale, con un altare e un crocifisso, le pareti della quale sono per lo più fasciate a varî ordini di palchetti, o di scaffali, in cui vengono simmetricamente riposti teschi d’ogni ragione, stinchi, femori, avambracci, omeri, ecc. Un ampio cancello, di ferro o di legno, fa ufficio di porta e per lo più ne lascia compiutamente vedere l’interno.
Son comuni in Lombardia questi siti destinati a conservare le ossa de’ trapassati; ma in Valtellina si possono dire pochissime le terre, che non abbiano il loro ossario, e udii citare come specialità quello di San Salvatore in questa medesima valle del Livrio, nel quale è notevole la grandezza dei teschi e delle ossa conservate.
Nell’ossario di Sondrio vedonsi gli avanzi delle vittime della peste onde fu tanto desolata la Valtellina nella prima metà del secolo decimosettimo; e anche gli affreschi ricordano pietosi episodi di San Carlo all’epoca della pestilenza di Milano.
L’ossario di Cajolo, de’ più meschini della valle, è intieramente aperto dinanzi, e solo protetto da rozzo cancello di ferro.
A’ due lati, su due semplici palchetti posano ordinatamente teschi moltiformi, più o meno rosi dal tempo: ce n’ha con dentiere tuttavia intatte, sceme o per intiero guaste; tale di una, tal altro manca d’amendue le mandibole; e chi ha l’osso frontale spaccato, chi tutto lucido e ben conservato.
Quante idee a mirarli e a fissarcisi col pensiero sopra! Che cosa siamo noi mai! Ve’, questo sembra pigliarsi beffe di te con riso di dannato; diresti che quest’altro, rabbioso di fame, ti si voglia avventare sopra; un terzo che, vinto da spasimo atroce, bestemmi oscenamente. È una vista pietosa ad una e terribile. — Labili monumenti della nostra frale natura, che come noi aveste vita, idee, affetti, piaceri e dolori, dove sono iti gli spiriti vostri?
Io aveva lo sguardo fisso a que’ teschi, e non me ne potevo staccare; e pensavo: — Siamo noi i vivi o il sono dessi? Dove sono, come sono, perchè sono? Mi veggono, mi ascoltano, mi comprendono?
Che cos’è la vita?
Che cos’è la morte?
Ma nessuno mi dava risposta, e tutto era silenzio intorno a me; prossima, mia sorella inginocchiatasi, pregava. — Sempre fisando que’ resti, la fantasia mi si accendeva, e qui parvemi che avessero vita: osservando, ecco un tale agitar le ganascie e profferire in suono secco come canna spezzata:
— Uno, cinque, dieci, cento, mille anni; e poi?
— Riso, gioja, ebbrezza, felicità, obblio; — e poi?
— Oro, potere, scienza, onori; — e poi?
— Pulvis et umbra!
La mia vita era tutta negli occhi; guardavo: ed ecco un altro:
— Io tenni prigione l’anima d’un avaro, ah! ah! ah!
Un terzo:
— Mi gonfiarono i fumi della potenza feudale, ed ebbi gli uomini in conto di schiavi, degni solo del flagello e della catena; macchiai il talamo altrui, e colsi di violenza il flore di caste zitelle. Che mi valse la vita? — Godere, godere e godere; — e poi?
— Il nulla! brontolò uno, a cui questo facea di cappello; il nulla!
— Ah! come preso d’atroce spasimo grugnì il primo: hai bestemmiato! Maledizione! Ed ecco un serpe uscirgli dalla bocca e, avvinghiatolo intieramente, allungare la testa a morderlo sulla fronte. A questo cranio mancavano proprio tutti i denti, tranne i quattro canini: erano forse il triste emblema della signorìa, da lui usata sì indegnamente?
In questa, quei cranî, quegli omeri, quegli stinchi, que’ femori, quelle braccia e i mille frammenti delle ossa presero a muoversi, ad agitarsi, a scricchiolare, a fremere.
— Ih, ih, ih!...
— Ah! ah!...
— Oh! oh!...
E un’ala nera nera di pipistrello, ampia come drappo mortuario, da’ lunghi peli, apparve a ricoprire quelle tristi vestigia dei trapassati....
Io provava il ribrezzo della quartana: un sudore freddo m’aveva madido tutta la fronte e le gote, e, per quanto mi sforzassi di sottrarmi a quel fascino, non lo potevo.
Nella parete di fronte, la principale, sorge un altarino di legno, sulle cui braccia i teschi sono messi in ordine con maggior cura, e questi sono i più conservati: e proprio nel mezzo, dov’è posta la pietra sacra, se ne scorge uno coperto d’un berretto da prete. Ha le occhiaie larghe come due lanterne, e le ganasce aperte in atto di fiero spasimo.
Continuando a stare là quasi confitto alle aste del cancello, gli occhi immobili e fissi su di lui, mi riuscì vincere la ritrosìa, e così me gl’indirizzai:
— Dimmi, fosti tu dei buoni del Nazzareno?
Le ganasce s’agitarono, ma non ne venne alcuna voce o suono distinto: apparvero solo alcune bolle di bava sanguigna a imporporare le labbra spolpate.
— Oppure, continuai, dei profanatori del santuario?
Qui le ampie mandibole allargaronsi oscenamente e lasciarono vedere la figura d’un rospo enorme, che si sforzava di uscire dalla gola; e un rantolo cavernoso si spegneva tutto in questa dolorosa interjezione: — Oh!
Don, don, don! — erano i primi tocchi del vespro, che oprarono sul mio cervello a guisa d’una scossa magnetica. Mi trovai quasi per incanto in me, e: — Che fai? chiesi a mia sorella, che mi stava a destra.
— Lo vedi, mi rispose amorevolmente; ho recitato un requiem a questi poveri morti. Possiamo andare.
— Andiamo; e mi riposi a meditare.