Ricordi delle Alpi/Parte Prima/VIII
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VIII.
Dopo la covatura.
Era il mondo che sorgeva dalle acque, quasi a somiglianza delle fantastiche concezioni del filosofo di Mileto, secondo il quale «il tutto si alimenta dall’umido, lo stesso caldo ne deriva e vi s’intrattiene, e il seme d’ogni cosa è umido. L’acqua, origine della natura umida; e siccome ogni ente ne procede e di quella si nutre, essa è primitivo principio di tutte le cose1.»
Finalmente su quello sferoide nascente si alzarono colli, massi l’un l’altro sovrapposti, montagne; e quelle acque si tinsero d’un bell’azzurro consolatore, che era vero sorriso alla vôlta soprastante del firmamento, in cui per altro nessun astro era sorto ancora a cominciare la eterna sua danza. — Il sole solamente pioveva i primi raggi sulle novelle manifestazioni della materia, a cui dovunque era seme vitale la virtù delle acque elementari.
Com’era bello in quest’istante il mare! Nessuna insidia s’era ancor tesa alla libera famiglia dei natanti; nessuno schifo maledetto spinto dalla sete avara dell’oro, o dal vento dell'ambizione a recare a’ popoli lontani le catene dello schiavo; nessuno a fabbricare spaventose città galleggianti per disputarsi sull’instabile e indomito elemento il dominio dei mondo!
Com’era bello quel primo mare sotto i riflessi di quella luce prima! E quelle acque quiete, lievi, o appena crespanti, che spiravano un indistinto murmure, arcana e misteriosa preghiera della materia al gran principio animatore.
Lo vedete là, là in fondo, quel
«Dolce colore d’oriental zaffiro»,
che si direbbe una tiratura di pennello fatta dalla mano d’un cherubino? — È un’iri di pace e d’amore, che il Genio della creazione mostra ai primi figli dell’innocenza.
Dalle lunghe scrinate delle alte montagne non apparivano nevi ancora; pur, lunghesso i dirupi, i fossi, i burroni e le forre precipitavano acque, che, riunite ne’ piani, stabilirono i primi corsi dei fiumi, onde veniano tosto travolte negli assorbenti amplessi dei sovrabbondanti mari.
E lunghesso queste arterie del gran principio umido, o acquoso, lasciate dapprima le rozze stanze delle alture e delle macchie, s’andavano trapiantando le tende delle primitive genti, a cui i bisogni della vita dirozzavano i torpidi criterî della intelligenza pel facile ed operoso magisterio delle industrie e delle arti. Alle quali primitive tribù tennero dietro di nuove, le cui costumanze, abitudini, bisogni, mito e lingua recavano le impronte delle varie distanze, dei climi opposti, delle configurazioni fisiche differenti.
Il sole dappoi s’oscurò alla sera per lasciar vedere lucentissime stelle, che con vece assidua rotearono danze paraboliche, costanti, facendo sentire quaggiù gli ultimi echi morenti d’un’armonia2, che ognor più si ritirava dalle orecchie mortali con l’alzarsi della nostra protervia e l'inflessione d'un’arroganza incredula e folle.
E il disco lunare sorse egli pure rorido e sorridente dal seno dell’onde in una sera di amore; e nei piani, nelle convalli, a' monti le moltiplici famiglie delle piante scuotevansi a fare i primi festosi saluti ai venticelli, che con lievi fremiti scendevano a spargere l'essicatrice loro virtù sopra ogni zolla di terreno acconcio alla vegetazione. Era uno spirito mistico che si diffondeva, un sussulto, un sospiro, lo spirito di Dio che aliava sopra le cose, le destava a vita, umile ad una e superbo....
« . . . . . sotto brevi soli,
Rapido, occulto germinò nei petti
Il seme delle colpe. Allor corrotta
Fu nostra carne; allor fu in due partito
Nostro lignaggio e disugual si fece
Di parlar, di costume e di sembianza.
Una parte di lui come percossa
Da subito spavento e da secreto
Terror, vagava per buie contrade.
Per acute boscaglie, invan sudando
E trafelando a scuotersi dal capo
Le funeste influenze: ognor con essi
Sta il frutto esizïal dell’anatéma
Impresso dentro l’alme e in loro schiatte
Da Caino trasfuso: orrido vitto
A costor procacciavano le membra
Sanguigne e palpitanti delle uccise
Belve, per entro le cui vuote lustre
Sgomentati dal folgore e dal sonno
Vinti ei giacevan. Di midolle estratte
Dall’ossa dei lïoni e gocciolanti
E livide di sanie eran cibati
I pargoletti, ch’entro un aspro, irsuto
Zaino sospesi alle materne spalle
Gìan erranti col padre, e primo studio
Di lor tenere mani avean le acute
Frecce e dell’orse spaventose i teschi.
Ferme, smisurate a lor crescevano
Le ferree membra, e parver pieni i boschi
Di giganti: nè queta, immobil sede
Ritenner mai: dall’ansia della tema
Esagitati, ramingavan sempre
Com’onde d’océano, o come nubi
Pei deserti del cielo. — In altre terre
Con altri auguri intanto un adamita,
Che Set nomòssi, e lieta al suo parente
Fe’ la tarda vecchiezza, erasi misto
In maritale amor con giovin bella,
Che in grembo raccoglieva il santo seme
Dei figliuoli di Dio, vasta progenie
D’ottimi nati, che cammin non fece
Nel consiglio degli empi: a lor fu vaga
Giocondissima stanza il giovin mondo,
E incominciossi un vero secol d’oro3...
- ↑ Enrico Ritter: Storia della Filosofia. — Non vorrei che taluno prendesse queste fantasie con la serietà di principi: esse non sono altro, che il naturale avvicendarsi d’immagini in quella momentanea impressione su me prodotta dalle acque, che stavo osservando.
- ↑ Allusione alle dottrine della scuola italica, o pitagorica.
- ↑ Terenzio Mamiani: I Patriarchi.