Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato (Vol. I)/II. Mantova/I. Relazione del clarissimo messer Bernardo Navagero ritornato di ambasciatore di Mantova (1540)

I. Relazione del clarissimo messer Bernardo Navagero ritornato di ambasciatore di Mantova (1540)

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I. Relazione del clarissimo messer Bernardo Navagero ritornato di ambasciatore di Mantova (1540)
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I

RELAZIONE

DEL

clarissimo messer BERNARDO NAVAGERO

ritornato di ambasciatore di Mantova

1540

Questa mia relazione sará conforme, serenissimo Principe, alla legazione, la qual, sendo stata di pochi di, ricerca ch’io mi debba spedire in poche parole. Il che tanto piú lo debbo fare quanto che, misurando le mie forze, da nessuna cosa conosco poter tanto piacere quanto che da questa parte della brevitá; la qual sará però senza lasciar nessuna di quelle cose ch’io estimo degne della cognizione della Serenitá Vostra, perché credo ch’importa grandemente, e più assai di quei che molti stimano, intender particolarmente le forze de’ principi, per piccioli e mediocri che siano. E perciò, non ripetendo altramente l’officio per il qual la Serenitá Vostra mi ha mandato, che fu di dolermi, del qual ho scritto copiosamente, dirò l’entrate e spese di questi signori, di quanta gente da piè e da cavallo si possano valere. Considererò poi le condizioni e qualitá particolari del reverendissimo cardinale e della signora duchessa, che ora si ritrovano al governo di quel Stato, non omettendo, in questa parte della duchessa, dire quel piú che ho potuto intendere del suo stato di Monferrá, concludendo questa parte con la speranza che si può aver del signor duca, il quale ora si trova di otto anni. Dirò poi quel ch’aspetta con desiderio la Serenitá Vostra e questo eccellentissimo senato circa la risoluzione delli [p. 52 modifica]banditi ed alcune altre cose che Sua Signoria reverendissima mi commise, nel partire, ch’io dovessi dire alla Serenitá Vostra.

Mantova ha d’entrata 90 in 100.000 ducati. II dazio del sale rende da 28 in 30.000 scudi, il qual, per esser il principal fondamento della sua entrata, è diligentemente osservato, e son poste alli contrabandieri di questo dazio quasi le medesime pene con le quali son puniti quelli che macchinano contro il signore. II dazio della macina: 12 in 13.000; il dazio delle porte dell’entrata e uscita: 10.000; il dazio delli contratti di beni stabili, compre e vendite: 4000; la lana: 2000; il vino: 3000; il passo de’ fiumi, il dazio de’ castelli di fuori, le becherie, le tanse de’ contadini, le possessioni proprie ascendono alla somma, c’ho detto, di 90 in 100.000 ducati.

Le spese solevano esser al tempo del duca morto molto grandi, perché Sua Eccellenza spendeva assai nelle stalle, assai nelle fabbriche e molto in tener gran corte, che ascendeva al numero di 800 e piú bocche, con diverse provvisioni a molti di loro. Ora sono minuite in gran parte, si perché non si attende con quella cura e diligenza alle stalle, e si perché il signor cardinale ha ridotto la spesa della corte in 350 bocche ed ha levato molte provvisioni superflue a uomini poco utili. Talché, spendendo solamente nelle cose necessarie, che sono gli ufficiali di giustizia ed altri ministri, ed altre spese ordinarie da 30 in 35.000 ducati al piú l’anno, è da credere che in poco tempo sia per accumular una gran somma di danari: li quali, essendo quel prudente e savio signore che egli è, il cardinale conosce poter dare e a lui, mentre si troverá in questo governo, e al duca suo nipote, quando succederá, molta reputazione. Benché un giorno, cavalcando, Sua Signoria reverendissima mi disse che per necessitá era astretta a liberarsi da molte spese, per averli lasciato il signor suo fratello molti carghi di debiti, a’ quali tutti voleva sodisfare; e per aver lasciato tre altri figlioli: il signor Guglielmo ed il signor Lodovico, ali! quali lasciava che fossero comprati 8000 ducati d’entrata per uno (4000 da essere scomputati nel signor Guglielmo secondogenito ogni volta ch’egli avesse de’ beni ecclesiastici); e [p. 53 modifica]alla signora Isabella, sua figliola, 25.000 per sua dote, oltre quello che suol dare il Stato di Monferrá nel matrimonio delle figliole delli loro marchesi e, quando non lo potessero dare, ch’ella si accrescesse fino alla somma di 50.000: e perché la signora duchessa è gravida, se di questo parto nasce maschio, avesse il medesimo legato che hanno gli altri; se femmina, fosse alla medesima condizione che la signora Isabella. Oltre molti altri legati a molti altri suoi servidori, fra’ quali uno al signor Alessandro, suo figliolo naturale con la Boschetta, di 1500 scudi all’anno d’entrata. Per queste cose, mi disse Sua Signoria reverendissima, conosceva esser necessarissimo usar molta parsimonia per poter lasciare il Stato intiero e qualche somma di danari al signor duca suo nipote, perché vedeva che a comprar tanta somma d’entrata bisognava gran somma di danari.

Le cittá e castelle del Mantovano sono molte; le quali se io volessi commemorar, saria più tosto una vana ed ambiziosa ostentazione di memoria che cosa utile o dilettevole alla Serenitá Vostra. Basta che di tutti questi suoi luoghi, compresa la cittá di Mantova, può cavare fino a 300 uomini d’arme, tutti gentiluomini e buoni cittadini, 500 cavalli leggieri e da circa 7000 fanti, non lasciando però il Stato sfornito di quanti potria far bisogno in una occasione. Nella monizione si ritrovano 118 pezzi d’artigliaria tra grossa e piccola, da offesa e difesa. E benché queste forze ch’io ho detto siano di qualche momento, pure, serenissimo Principe, io giudico che si debbano stimare questi signori di Mantova non meno per la commoditá del sito che per qualunque altra condizione, avendo prima una cittá molto forte e per natura e per arte: per natura, essendo difesa dal lago per molte sue parti; per arte, da una grossa muraglia e gagliardi bastioni ove ne ha bisogno: situata in luogo che, come amica, è atta a soccorrere tutta la Lombardia e tutto lo Stato della Vostra Serenitá, e come nemica molto atta ad offenderlo, perché da Verona è discosta miglia 20; da Legnago miglia 25; da Brescia, da Parma, da Reggio e da Modena in 40; da Cremona, da Milano e da Padova in 60; da [p. 54 modifica]Vicenza, da Ferrara in 50. Talché il signor Prospero Colonna, che fu quel gran capitano che sa la Serenitá Vostra, quando che papa Leone fece lega con l’imperatore di cacciare francesi d’Italia, suase anco Sua Santitá che facesse capitan generale della Chiesa il signor marchese di Mantova, ch’era in quel tempo molto giovine, né aveva dato molto gran conto di lui, non per altro se non per potersi valere del suo Stato in quella occasione. Il qual suo disegno li riusci mirabilmente, perché, con le spalle e favore del Stato di Mantova, ebbe delle vettovaglie, sostenne l’impeto de’ francesi e finalmente li cacciò, come sa meglio di me la Serenitá Vostra e illustrissimo senato. Né voglio restar di dire in questo proposito quello che, essendo io in Mantova, ho inteso per bona via e per bocca di chi si ritrovò presente: che era venuto uomo a posta con lettere di credenza per offerir al duca, ch’è putto di otto anni, una figliola del re de’ romani; a che fine e con qual disegno, io lo lascio al sapientissimo giudizio della Vostra Serenitá. Alla qual proposta il reverendissimo cardinale tolse tempo di rispondere, dicendo di volerlo comunicar con la signora duchessa; poi si risolse di non voler altrimenti parlare di maritar suo nipote per ora, essendo dell’etá che gli è e potendo in questo mezzo occorrere molti accidenti.

Veduto brevemente l’entrate e spese di Mantova, le genti da piedi e da cavallo delle quali quel Stato se ne può valere, e considerate quelle poche cose che ho giudicato necessarie intorno al sito di quella cittá, dirò ora brevemente le condizioni del reverendissimo cardinale e della signora duchessa, che si ritrovano al governo di quel Stato e sono per continuar dodici anni continui, perché per testamento sono lasciati tutori essi due e il signor don Ferrante per terzo fino che il duca pervenga all’etá di 20 anni.

Questo reverendissimo cardinale, serenissimo Principe, è della famiglia e del nascimento che sa Vostra Serenitá. Si ritrova ora d’anni 35, proporzionatissimo di corpo, grande di statura, di colore tra il bianco ed il rosso. Ha nella faccia una certa dolcezza congionta con una infinita e mirabil gravitá; dal che nasce [p. 55 modifica]che al primo aspetto ognuno se li affeziona, ma però talmente che, insieme con quell’affezione, lo conosce degno di esser riverito. Ha movimenti d’occhi e di tutto il resto molto gravi, e tutti da principe; e finalmente ogni sua parte, quanto al corpo, dimostra esser nato alle grandezze. Esso ha, come cardinale, d’entrata circa 20.000 scudi: il vescovato di Mantova che gli dá 7000 scudi, l’abbazia d’Acquanegra 1000 scudi, il vescovato in Spagna 5000 scudi, l’abbazia del Flonego 2000; di patrimonio 3000, perché, avendogli il signor suo padre lasciato 8000 scudi, gli diede questa condizione: che quando avesse benefizi di valuta di 8000 scudi, lasciasse li 5 e restasse solo in 3. L’abbazia di Lucedio in Monferrá 5000, per la quale sono state tante liti tra Sua Santitá e questo reverendissimo cardinale; il quale mi disse che, conoscendo Nostro Signore costante nelle sue opinioni e molto gran principe rispetto a lui, s’era risoluto di far tutto quello che volesse Sua Santitá, dicendomi: — Ambasciatore, io ho tal cura di questo mio nipote che, non solamente per 1000 scudi, che tanto è la nostra controversia, e per 3000 di contadi, che possono importare gli usufrutti, ma per molto maggior somma, ho deliberato voler cedere tutte le mie ragioni a Sua Santitá, perché io stimo che faccia per me, e come cardinale e come tutore di questo mio nipote, tórre ogni occasione al pontefice di poter essere ragionevolmente nemico ed a me ed a lui. Perché, a ciò che voi sappiate in tutto, questa abbazia non vai piú di 7000 scudi, benché altre volte valesse molto piú; delli quali due ne sono obligati alla mensa de’ monaci, due altri se ne vanno in diverse pensioni a diversi gentiluomini; di maniera che la difficultá che mi fa Nostro Signore è di solo 1000 ducati, volendo che la metá dell’entrata sia di monsignor reverendissimo Farnese. E però io ho scritto ultimamente a Roma che si faccia tutto quello che vorrá Sua Santitá. —

Queste cose, dette da me sinora di questo illustrissimo cardinale, ancora che siano da esser stimate grandemente, sono però tali, che in esse si può conoscere piú presto la benignitá della fortuna e perciò ringraziarla, che laudare alcuna particolare [p. 56 modifica]industria e virtú dell’uomo; imperocché nascere d’un bellissimo corpo, nascer principe ed in una larga ed abondante fortuna non è in potestá nostra. Ma bene con le operazioni dimostrarsi poi degni di queste ricchezze nelle quali siamo nati, e di maggiore assai, questo è in che si può conoscere la industria dell’uomo propria e laudarla: si come, se di nessun altro, in veritá si può dire di questo reverendissimo ed illustrissimo cardinale; veramente reverendissimo ed illustrissimo, perché, oltre l’esatta intelligenza della lingua greca e latina e la cognizione di diverse scienze e un mirabil giudizio di tutte le cose, è poi d’una innocentissima vita e di purissimi e candidissimi costumi. Governa il clero di Mantova con tal maniera che in tutti loro, e quanto aspetta all’abito e quanto si può intendere della vita, appare la vera immagine della vera religione. Nel conceder i benefizi ed elegger i sacerdoti è molto diligente, né ammette alcuno al culto di Dio, la vita del quale non sia probatissima e senza alcuna macchia. È abbondantissimo nelle lemosine; e questo anno passato, quando che li uomini erano ombre e simulacri d’uomini per la fame, se non fossero stati li suoi granai e le sue caneve, le quali erano sempre aperte a’ poveri, ne sariano morti altrettanti di Mantova di quanti son morti.

Sua Signoria reverendissima, poi che è al governo di quella cittá, ha levato un dazio che si chiamava il «macalufo», che era che ognuno pagasse la quarta parte di piú, sopra le sue entrate, di quello che solevano pagare (questo «macalufo» fu prima posto dal signor marchese suo padre per dare alcuni danari a’ francesi, da poi rinnovato dal signor duca morto sotto pretesto di fabbricar la cittá); la qual cosa gli ha dato tanto credito e tanta riputazione, che non è uomo che tacitamente nell’animo suo non desideri essere sotto il governo di Sua Signoria reverendissima. Né ha però fatto molto danno alle sue entrate, perché, venendo ora tanto maggior copia di robbe nella cittá, vengono a crescere il dazio ordinario tanto che poco è quello che gli ha potuto tórre questa si santa e cosí giusta operazione sua. Poi, essendo per li tempi passati ridotte le cose della mercanzia in mano d’uno over due al piú, i quali [p. 57 modifica]compravano e vendevano le cose per quei prezzi che piacevano a loro, Sua Signoria reverendissima ha levato del tutto questo monopolio e vuole che la mercanzia sia libera, e che ognuno venda le sue entrate quanto e quando gli piace. Oltre che, ha fatto ritenere Carlo da Bologna ed il sindico, delle operazioni de’ quali per molti rispetti non debbo dir altro: basta che la retenzione di questi tali è stata gratissima, la quale quanto sará maggiore tanto sará piú grata. Né voglio restar di dire che finalmente, per levar ogni occasione a ciascheduno d’opprimere i poveri sudditi, ordinariamente, insieme con la signora duchessa, dá udienza publica a chi la vuole e secreta a chi la domanda, per poter intendere i portamenti de’ suoi ministri; e quanto è piú povero e piú abietto e piú senza favore quel tale che gli va innanzi, tanto piú benignamente l’ode: di sorte che ha impresso e va imprimendo ogni giorno piú negli animi di tutti una certa affezione cosí rara che, aggionta a quella che è naturale a quella gente verso i suoi signori, fa che ognuno gli desideri tutte le maggiori felicitá che si possono desiderare alli suoi principi. E questo basti quanto al cardinale.

La signora duchessa, serenissimo Principe, è ultima della casa Paleologa, antichissima e nobilissima, dalla quale sono usciti tanti imperatori e cosí virtuosi; perché, essendo mancata la successione della nobile famiglia di Longaspata nel 1305 per la morte del signor Giovanni Longaspata, quintodecimo marchese di Monferrá, senza eredi mascoli, successe in questo marchesato di Monferrá Teodoro Paieologo, figliolo di Andronico Paleologo, imperatore di Costantinopoli, e di madama Violante, sorella del detto signore Giovanni Longaspata: e cosí successivamente, sempre con matrimoni onoratissimi e di principi e di re, sono successi i loro discendenti in questo marchesato. Ed ultimamente, del 1508, Guglielmo marchese ebbe di madama Anna, figliola di Renato duca di Alenson, del sangue regio di Francia, e di madama Margherita di Lorena, due figliole: la prima, Maria, fu promessa del 1517 al signor Federico II, duca di Mantova, il quale, o fosse per rispetto di questi suoi amori o pur perché viveva ancora il padre, non ebbe alcun [p. 58 modifica]buon fine. Morto poi Bonifazio, l’altra, Margherita, fu promessa al medesimo signor duca; il qual, vedendola erede di questo Stato, perché di Giovangiorgio, suo barba, ultimo mascolo della casa Paleologa, non si potea sperar prole, essendo giá vecchio e mal condizionato, la tolse per moglie; della quale ha avuto tre figlioli: il signor duca, il signor Guglielmo, ed il signor Lodovico, ed una figliola, ed halla lasciata gravida. Questa dunque è ultima di questa illustrissima casa Paleologa; la quale veramente mostra esser nata d’una nobilissima progenie e d’uno chiarissimo sangue, come è, essendo di quelle condizioni che poco presso intenderá Vostra Serenitá, lo della statura, del corpo e della bellezza non ne posso affermare cosa alcuna, avendola ritrovata, e quando andai a fare il primo officio che mi commise la Serenitá Vostra e quando fui per partirmi, in luogo cosí oscuro che né io posso dire con veritá com’ella sia, né in lei, io credo, possa esser rimasa alcuna mia immagine; ma pur, per quanto ho inteso, ella è di mediocre e forse anco manco che mediocre bellezza, ma non giá di mediocre virtú. Imperoché, vivendo il signor suo marito, sopportò sempre con molta pazienza le ingiurie e la in.solenzia della Boschetta, la quale voleva in molte cose concorrere con lei; ed è di tanta religione che tutte le feste principali si comunica. Fa elemosine e molte e larghe e, quello che importa assai, occulte e senza pompa alcuna e senza volere che se ne sappia; ed io ho inteso che l’anno passato, quando gli uomini avevano a un tratto a combattere e con la fame e col freddo, la notte secretamente si donavano i scudi e i mezzi scudi e mocenighi a molte miserabili persone, né si è mai saputo da chi, ma è costante ed universal opinione che sia stata la signora duchessa. La quale alleva in tanta santitá di vita e di costumi quelle sue donzelle, che è riputato bene maritato quello che ne può avere una di quella scola.

Questa signora è cosí unita col signor cardinale, che piú non si potria desiderare. Con la quale Sua Signoria reverendissima comunica sempre tutte le cose grandi e picciole, e la vuole per compagna in tutte le sue azioni; ed a me disse che si [p. 59 modifica]fidava molto del giudizio e della prudenzia di questa donna. La quale, nel partire, mi pregò che io volessi ringraziare la Serenitá Vostra del favore che le aveva fatto degnandosi di consolarla con un suo ambasciatore, ed insieme raccomanda lei, li figlioli ed il Stato alla fede e pietá, per usar ristesse parole, della Serenitá Vostra. E perché, a questo proposito, io giudico esser necessario intendere del Stato di Monferrá, io ne dirò quel piú che in cosí breve tempo mi son potuto informare.

Nel 1532 fu investito il signor duca e la signora duchessa del Stato, che giá era ritornato nell’imperio, da Cesare con condizione rarissima che, mancando la linea mascolina, succedesse la feminina, oltra che Sua cesarea Maestá li confermò tutti li privilegi concessili da Carlo IV e da tanti altri imperatori fino a questo giorno. Li suoi confini sono la Savoia, Saluzzo, Genova, parte de’ svizzeri e parte del Stato di Milano. Nel Stato sono tre cittá: Alba, Casale, Acqui, e 366 castella, fra le quali ne sono tre dell’istessa bontá, ricchezza e fortezza, che sono le cittá Trino, Vulpiano e Verulengo, l’uno de’ quali è in mano del signor duca, il secondo de’ francesi, il terzo de’ imperiali. La sua entrata vecchia, innanzi la guerra di Savoia, era circa 40.000 scudi; ora, parte perché s’era impegnato per 13.000 scudi, parte per le ruine che hanno apportate le guerre, non rende piú di 18 in 20.000 scudi.

Questi signori hanno molti privilegi. I! Stato è obligato farli le spese in ogni luoco dove egli vadi, a lui e alla corte, per tre giorni. Donano al nascimento delli figlioli ed al matrimonio delle figliole di loro marchesi una gran somma di danari; ed ultimamente donarono 50.000 scudi, da esser pagati in tre anni, per ricuperar le terre impegnate. Questo Stato al presente è governato dalla signora marchesa, madre della signora duchessa, e dalli agenti del signor duca e dal suo senato. Sono nel Stato circa cinquanta famiglie di gentiluomini, che tutti hanno giurisdizione di castello e di signorie. Si può cavar di questo Stato, in tempo di bisogno, 5000 buoni fanti, 2000 uomini d’arme e 3000 cavalli leggieri. [p. 60 modifica]

Avendo detto finora delle condizioni del reverendissimo signor cardinale e della signora duchessa, ed in questa parte considerato quel che ho potuto del Stato di Monferrá, resta, si come ho promesso a Vostra Serenitá, dire del signor duca qualche cosa; del quale si come si può affermar poco, essendo di circa otto anni, cosí si può sperar molto, dimostrando nella indole un molto vigore ed una molta vivacitá. Il putto è malanconico di complessione, ha due occhi pieni di spirito, né si diletta di cosa alcuna puerile, e pare che tacitamente si goda d’esser signore. Ha buonissima memoria e dimostra esser molto inclinato alle lettere, nelle quali ebbe giá per precettore messer Lampridio, che mori, uomo molto letterato, ed ora ha messer Francesco Conterno, del quale il signor cardinale si contenta sopra modo, ed usa in ammaestrarlo ed insegnarli molta diligenza. Abita con la signora sua madre nel castello. Stanno al suo governo due cavalieri: messer Alvise Gonzaga e messer Carlo di Nuvolone, quali sono quelli che entrano nel consiglio secreto, con il signor cardinale e la signora duchessa, insieme col secretano Calandra, uomo riputato assai.

Vengo mò, serenissimo Principe, alla terza parte, nella quale ho da dire la risoluzione circa li banditi ed alcune altre cose che mi disse Sua Signoria reverendissima e mi commise che in nome suo dovesse riferire a Vostra Serenitá.

Il giorno che io doveva partire, Sua Signoria reverendissima mi venne a trovare nella mia camera, ove, essendo noi soli ed il secretar io, mi disse quello che ancora aveva detto innanzi: — Ambasciatore, circa li banditi direte a quell’illustrissima Signoria che io aveva in animo di prevenir la loro dimanda, perché nessuna cosa ho tanto cara in questo governo quanto che conservare la giustizia per quanto possono le forze mie; e spero che nostro signore Dio aiuterá questa buona intenzion mia. Ho voluto vedere la convenzion del duca di Ferrara, la quale perché in alcune cose non mi piace, farò fare una scrittura, la qual sará poi appresentata per l’ambasciator mio; il qual voglio ad ogni modo che vi accompagni, poiché siete disposto di voler partire. E se quei signori vorran fare come vorrò io, mi [p. 61 modifica]piacerá avermi conformato con la intenzione loro. Se non, io voglio fare quello che vorrá quella eccellentissima republica. — Si che la cosa si concluderá per mezzo del suo ambasciatore, come vorrá la Serenitá Vostra. Il qual ambasciatore dimostra talmente esser affezionato alle cose di questo illustrissimo Stato, per aver abitato undici anni continui qui e per aver sempre ricevuto e dalla Serenitá Vostra e dalli particolari gentiluomini cortesia, che dice non voler cedere d’affezione a questa republica a qualunque altro che sia nato in questa cittá.

Soggiunse poi che si trovava per molte cause obligato alla Serenitá Vostra, ma, avendogli ora fatto questa republica questo cosí gran favore d’avergli mandato un ambasciatore, conosceva che un tanto beneficio li aveva tolto il modo di potersi disobligare; con molte altre parole in questa materia, le quali conosco esser debito mio tacerle. Entrò poi a dire che io volessi affermare alla Vostra Serenitá che l’intenzion sua era di non partire mai dall’antica sua servitú con la Serenitá Vostra, ed al signor duca suo nipote non voler imprimer cosa piú ferma che questa divozione di questo illustrissimo Stato; il che conosceva esserli molto facile, essendo nato di chi è nato e dovendo essere sotto il governo di chi deve essere. Pregommi che io dovessi cosí assicuratamente dirlo, come cosa che non potesse essere altramente. E certo, serenissimo Principe, si come n’è buon testimonio il secretano mio, lo diceva con tanto affetto quanto era bastante a far credere che lo dicesse di cuore e per la veritá! Discorse poi delle laude del governo di questo illustrissimo dominio con tanta copia che il secretano ed io, come veneziani, non potevamo se non molto consolarsi; dicendo che qui era la vera immagine e idea della vera republica, dove con tanta concordia vivono li cittadini, dove con tanta equalitá si amministra la giustizia, dove tutti hanno un istesso fine, che è la grandezza e dignitá publica, e che questa republica aveva esterminata la gloria delle altre republiche, per esser nata cristiana, per la commoditá del sito, per la instituzion delle leggi e per il modo del governo, il quale Sua Signoria reverendissima si aveva proposto d’imitare in tutto quello che [p. 62 modifica]potesse. Nella fine: che Vostra Serenitá li faria singoiar grazia di compiacerlo di due cose: la prima di darli Ieronimo da Fermo, dicendomi a questo passo: — S’io credessi che questo tale avesse, non dirò fatto, ma immaginato di far cosa alcuna contra quell’illustrissimo Stato, non solamente noi domanderei ma saria con quelli che volessero severamente punirlo. Ma credendo ch’ella sia stata piú tosto suspizione che colpa, il che mi fa molto piú certamente credere il vedere che tanto tempo fa non è stato fatto di lui altro, supplicate quell’illustrissima Signoria in nome mio che, essendo la cosa di poca importanza e forse vana, come io credo, che siano contenti di donarmelo, che io, per esser stati li suoi antichi servitori e amorevoli di casa nostra, le riputarò singoiar grazia. — Vostra Serenitá, che sa particolarmente le opposizioni di questo tale, può anco conoscere se è degno di questa grazia; io non doveva né poteva mancar di dirlo. La seconda cosa fu che Vostra Serenitá fosse contenta che cosí potessero venire in questa cittá li panni mantovani come vengono i vicentini e i veronesi; — I quali due luoghi si servono delle lane della nostra cittá e si portano con noi ingratamente, avendoci fatti privar a sua instanza di poter condur panni ancor noi, il che saria con beneficio de’ vostri dazi, con avvantaggio ed utilitá di chi comprasse, oltra che questa concorrenza faria far migliori robe che non si fanno. — Io risposi a questa sua orazione, che fu piú d’un’ora continua, quel che mi parve che meglio si convenisse alla gravitá e dignitá della Serenitá Vostra, affermandogli sempre però che questa eccellentissima republica non mancaria mai in tutte le cose ch’ella potesse e che per le sue leggi le fosse concesso, per far piacere a Sua Signoria reverendissima, dalla quale conosceva esser tanto amata.

Resta che io supplichi questo senato eccellentissimo che, se io avessi mancato in alcuna parte di questa picciola legazione mia, che è però maggior assai di quello che mi si conviene, accettino il buon animo mio, il quale se li dimostrará sempre con quelle offerte che portaranno le picciole forze mie.

Del secretano reputava superfluo dirne, riportandomi a quello [p. 63 modifica]che hanno detto di lui tanti clarissimi e prestantissimi senatori, che l’hanno provato in tante legazioni d’importanza, e riportandomi a quello che dicono di lui continuamente le molte sue fatiche ed operazioni e nell’eccellentissimo collegio e in questo consiglio. Ma per usanza, piú tosto che perché ne abbia bisogno o che io pensi poterli apportar maggior ornamento, dirò che (essendo di quella pratica e cognizione delle cose di Stato che è e di quella eccellenza nei studi delle lettere che ha pochi pari e nessuno superiore, avendo servito Vostra Serenitá in maneggi d’importanza con clarissimi suoi ambasciatori) averla voluta servire in questa legazione di Mantova fa ch’io li debbo esser molto obligato e Vostra Serenitá conoscer la sua fedeltá, della quale il signore non può aver piú certo pegno che quando il servitore non si sdegna di prestar l’opera sua in minore e manco importante officio di quello che altre volte ha fatto e che si conviene a lui.