Ragguagli di Parnaso (Laterza)/Centuria seconda/Ragguaglio VI

Centuria seconda - Ragguaglio VI

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RAGGUAGLIO VI


Le monarchie tutte dell’universo, spaventate dalla soverchia potenza e dal felicissimo incremento delle republiche alemanne, in una general Dieta consultano il rimedio per assicurarsi di non essere col tempo oppresse da esse.

La Dieta generale che i monarchi tutti dell’universo giá quattro mesi sono per li quindici del passato intimarono in Pindo, e la quale, per l’importante novitá di aver da essa escluse le republiche tutte di Europa, ha in esse cagionate gelosie grandissime, dubitandosi della conclusione di una universal lega contro tutte le patrie libere, ai venti finalmente del presente essendosi disciolta, e di giá i prencipi tutti essendo ritornati agli Stati loro, per cosa certa si è risaputo che non ad altro fine ella è stata convocata, che contra le infinite republiche che da alcun tempo in qua si veggono instituite tra gli svizzeri, i grigioni, i bernesi e gli altri popoli di Alemagna, e contra quelle particolarmente che con tanto scandalo delle monarchie cominciano a sorgere tra gli olandesi e zelandesi ne’ Paesi Bassi. Dapoi dunque che i prencipi tutti dell’universo in una gran sala secondo gli ordini loro si furono posti a sedere, è fama che il loro gran cancelliere ragionasse in questa sentenza: — Serenissimi monarchi, rettori del genere umano, dal caso tanto lugubre e pericoloso, che ora vi sovrasta, chiaramente si può conoscere esser verissimo che sotto il cielo cosa alcuna non si truova, non dico perpetua, ma che non minacci presentanea ruina. Poiché la monarchia stessa, anco da’ piú intendenti politici tenuta sorte di governo eterno col mondo, e la quale le genti tutte mai sempre hanno predicata sovrana reina di tutte le piú perfette polizie, ora nella sua fabbrica ha gettato cosí gran pelo e fatta cosí patente fessura, che non solo chiaramente si conosce che ella non ha quell’eterno fondamento che gl’intendenti delle cose di Stato tanto assertivamente hanno del continuo predicato, ma pare che minacci presentanea ruina. Le monarchie dallo stesso primo principio del [p. 18 modifica] mondo fino al presente giorno di oggi felicissimamente con tanta riputazion loro hanno regnato, che meritamente tra tutte le sorti de’ governi si hanno guadagnato il primo luogo di lode, e di tutte le republiche loro nemiche mai sempre hanno riportate gloriose vittorie. E tuttoché altrui paresse che l’immensa Libertá romana con la distruzione di numero grande delle piú famose monarchie fosse per porre il mondo tutto in libertá, pur alla fine, benché dopo lungo tempo, ancor ella si converti in un principato: fine certo, morte inevitabile di tutte le republiche; e tuttoché i primi ingegni del mondo piú che assai si sieno affaticati per instituire contro l’eternitá delle monarchie republiche di lunga vita, non però giammai ad alcuno è succeduto il poter conseguir l’intento suo. Le oligarchie, per esser state conosciute insopportabili tirannidi di pochi, ben presto abbiamo vedute convertite in principati. E gl’institutori delle democrazie non mai hanno saputo trovar strada buona da frenare un popolo che la somma autoritá abbia di comandare, si che dopo sanguinolenti sedizioni egli non sia precipitato in una crudelissima servitú, e che da se stesso non si sia allevato la serpe in seno di un ambizioso cittadino, che col mezzo certissimo dell’affezion universale della plebe ignorante non abbia saputo acquistarsi la signoria della patria libera; oltre che piú volte abbiamo veduto il governo popolare cosí esser noioso alla nobiltá, che i romani prima dopo la morte di Cesare, i fiorentini poi, seguita che fu l’occision del duca Alessandro de’ Medici, anzi viver amarono sotto nuovi prencipi, che ritornare a provare la crudel servitú della plebe sempre sediziosa. E gli stessi governi aristocratici, i quali soli tra tutti gli altri tanto ne hanno dato da sudare, pur alla fine sono terminati in monarchie, mercé che gl’institutori di cosí fatte republiche non mai sono arrivati a perfettamente conseguir quelle due importantissime qualitadi, che eterne rendono le aristocrazie: di tanta uguaglianza mantener tra la nobiltá, che in lei non sorga odiosa sproporzione di onori e di mostruose ricchezze, fecondissime madri delle tirannidi, e di tanta soddisfazione dar a’ soggetti insigni, agli animi elevati de’ cittadini esclusi dal publico governo, si che servi si contentino di vivere [p. 19 modifica] in quella patria che ha nome di libera. E que’ che si sono millantati di far le republiche miste eterne, ancor essi grandemente si sono trovati ingannati; percioché, si come ne’ corpi umani i quattro umori, de’ quali egli è composto, dopo la concordia di una lunga sanitá si alterano alla fine, e quello che piú agli altri prevale uccide l’uomo, cosí la mistura di por in una republica la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia, col tempo prevalendo uno de’ tre umori, forza è che con lunghezza di anni egli si alteri: il quale, mutando poi la forma del governo, toglie alla fine la vita alla Libertá, come ne’ tempi passati mille esempi abbiamo veduti. Che non tutto quello, che gli uomini dotti co’ bei concetti loro sanno dipinger nelle carte e provano co’ fondamenti di buone ragioni, riesce poi posto nell’atto pratico: chiaramente toccandosi con la mano che Licurgo, Solone e gli altri legislatori del viver libero, che con le ottime provisioni di santissimi instituti hanno creduto di poter frenare gl’indomabili ingegni degli uomini e con le rigorose pene proibir la malizia delle persone ambiziose, nell’opinion loro piú che molto si sono incannati. Ma ora (né posso dirlo senza grandissimo spavento e senza infinito cordoglio) con questi nostri occhi chiaramente vediamo che gli alemanni, sottilissimi e acutissimi artefici non meno di orologi che di prestantissime republiche, quelle eterne libertadi hanno finalmente saputo inventare, che per tanti secoli, e sempre indarno, è andata cercando la somma prudenza de’ filosofi antichi, dalle quali con molta ragione deono le monarchie temer la morte e l’ultimo esterminio loro. Giammai, serenissimi monarchi, non fu detta sentenza piú aurea di quella: che qualsivoglia picciola scintilla disprezzata è atta a cagionar incendi grandi. Percioché chi mai averebbe creduto che la scintilla della picciola Libertá, che nacque tra gli svizzeri, avesse potuto accendere un fuoco che tanto poi si fosse dilatato nella Germania, quanto oggi vede il mondo e ammira? E qual uomo, per saggio e prudente ch’egli fosse stato, giammai averebbe saputo predire che in cosí brieve tempo avesse potuto cagionar l’incendio di tante cittadi, di tante bellicose nazioni, che con grandissima [p. 20 modifica] vergogna e infinito pericolo delle monarchie si sono sapute vendicar in libertá? Che certo cosa vicino al miracolo è il vedere che la picciola Libertá, che cominciò a nascer tra gli svizzeri, gente povera e agricoltori di una sterilissima terra, e la quale tanto fu disprezzata da voi, del morbo medesimo avesse poi potuto infettare le piú armigere nazioni di Alemagna; e, quello che maggiore fa lo stupor mio, chi mai averebbe saputo prevedere che esse republiche in tempo brevissimo appresso ogni potentato in tanta riputazione dovessero salire nella prudenza civile, in tanto credito nel mestier delle armi, che non solo supreme arbitre dovessero essere stimate della pace e della guerra di Europa, ma lo stesso grandissimo spavento de’ maggior prencipi del mondo? Le republiche di Alemagna, serenissimi prencipi, sono trombe che vi deono destare dal sonno, nel quale finora pur troppo supinamente avete dormito. Riconoscete i vostri mali, rimirate i vostri pericoli, i quali ad alta voce chieggono presto rimedio, poiché nelle republiche alemanne non solo vedete le aristocrazie fondate con leggi di tanta prudenza che di loro stesse promettono lunghissima vita, ma (quello che impossibile hanno stimato tutti) le stesse democrazie quiete e pacifiche. La republica romana, la quale, con una ambizione senza esempio, per suo ultimo fine si propose l’assoluto dominio dell’universo, per giungere a conseguir intento tanto immenso, perpetuamente fu forzata maneggiar le armi e darle in mano a’ suoi cittadini; i quali col continovo comando degli eserciti e con lungo tempo governar province immense, la loro casa privata empirono di tesori veramente degni di re, ma molto sproporzionati ad un senatore di una ben ordinata republica: e con la soverchia autoritá, che dal senato con infelice e veramente mortai imprudenza fu data loro di donar, a chi meglio loro pareva, gl’intieri regni, tanto si gonfiarono del vento dell’ambizione, che nella nobiltá romana affatto si sconcertò quella uguaglianza di autoritá, che è l’anima delle patrie libere. Di modo che per somigliante disordine sorsero prima in Roma i Silli, i Mari e poi i fatali Pompei e Cesari, i quali dopo lunghe e sanguinolenti guerre civili uccisero cosí famosa Libertá. Questa tanto patente e aperta [p. 21 modifica] porta, per ultima calamitá delle monarchie, giammai non può sperarsi che si apra nelle ben regolate republiche alemanne, nelle quali perpetuo bando essendosi dato all’ambizione di comandare a’ popoli conquistati e alle nazioni vicine, solo si vede regnar in esse una gloriosa deliberazione, un fermo proposito di non ubbidir ad alcuno: risoluzione felicissima, la quale tra i cittadini di quelle republiche mantiene la necessaria ugualitá tra i soggetti piú principali del senato, e opera che, non maneggiando essi le armi per imporre ad altri quella servitú che essi tanto mostrano di fuggire, a’ popoli vicini non si rendono né sospette né odiose. Onde maraviglia non è se di loro stesse si promettono lunga vita, e se dalla forza di qualsivoglia potentato si stimano inespugnabili. Percioché son di parere che il miglior precetto politico, che altri possa ammirare nelle republiche alemanne, sia l’aver in sommo orrore gli acquisti delle nazioni vicine, perché con simil prudenza godono quella pubblica pace con gli stranieri, quella privata concordia co’ loro cittadini, che formidabile rende la Libertá loro fuori, sicura nella casa. Tutto questo ch’io dico chiaramente si conosce dalle miserie nelle quali dopo seicento anni cadde alla fine la republica romana, la quale, per tacer gli altri infiniti che ella fece in Italia e fuori, per l’ultimo acquisto che volle fare della Francia, (regno sempre fatale a que’ forastieri e’ hanno tentato di soggiogarlo), miseramente precipitò nella tirannide di Cesare; e i fiorentini, con l’ostinata ambizion loro di voler far servi i pisani, in tanti disordini posero la propria libertá, che chiaro documento sono al mondo miglior partito, grandezza piú sicura esser alle republiche aver le cittadi e le nazioni vicine confederate e amorevoli, che suddite e nemiche. Questo disordine non si vede nelle republiche di Alemagna; l’ambizion delle quali terminando nel contentarsi della propria libertá, il poter con le leggi della patria loro viver liberi a que’ popoli concedono, che si uniscono con esso loro. Onde è che nell’Alemagna una sola republica si vede negl’interessi universali, molte ne’ fatti delle cose particolari; e le armi degli uomini liberi di quella bellicosa nazione servono solo per istrumento della pace e per [p. 22 modifica] conservar la propria, non per occupar l’altrui libertá. Portento per certo orrendo e spaventevol mostro di natura per le monarchie; percioché qual piú crudele e pernizioso nemico può provar un prencipe di colui che l’assale con l’arme potentissima del pretesto di comunicare co’ popoli soggiogati la libertá? Che con questa sola arme tanto si sono le republiche alemanne dilatate; e certo con gran ragione, perché non sanno i nostri popoli uccider quel nemico, che invece di morte, di incendi e di rubbamenti porta loro la libertá, dagli uomini tutti per instinto di natura tanto amata. Ecco dunque, serenissimi monarchi, che, come vedete, le republiche alemanne picciole sono in particolare, ognuna di esse contentandosi della libertá della sua patria: grandi, anzi immense nell’universale, poiché tutte insieme hanno comunicati gl’interessi della pubblica libertá. Di maniera tale, che in cosí infernale strumento, in organo tanto diabolico, non può un prencipe toccar tasto alcuno, che non oda l’orrendo e spaventevole strepito di molte canne che tutte suonano insieme. Disordine tanto maggiore, quanto, a guisa di contagioso morbo, di arrabbiato canchero, ogni giorno va serpendo e rodendo nuove cittá, nuovi popoli; i quali tutti aggregando alla libertá loro, lo stesso primo giorno dell’acquisto, naturali fanno le nazioni straniere, cari amici i popoli e le cittadi nemiche: per le quali cose ragionevolmente può temersi che in progresso di brieve tempo l’universo tutto sia per appestarsi del morbo di cosí fatto contagio; pericoli tanto piú spaventevoli in questi infelicissimi tempi presenti, ne’ quali la libertá delle republiche in tanto pregio, in cosí gran credito esalila, che gli stessi sudditi nostri non temono di chiamarla unica felicitá del genere umano: onde accade che da ognuno (qualora altri speri di poterla ritrovar quieta, e che, come accade nelle republiche alemanne, permetta che ognuno in libertá viva con le leggi della sua patria), cosí intensamente è affettata, che fino col prezzo di grandissima copia di sangue è comperata. Che se tra gente dissoluta, tra popoli immersi nella crapula e nella ubriachezza cosí fatto morbo in tempo tanto brieve ha potuto dilatarsi tanto, che dobbiamo creder noi ch’egli fosse per fare, se si attaccasse tra le sobrie nazioni [p. 23 modifica] d’Italia, di Spagna e di altre di Europa, la maggior parte di esse verso la signoria delle monarchie affette nel modo che sappiamo tutti? Il caso, per lo quale in questo augustissimo luogo vi siete radunati, serenissimi prencipi, come avete udito, è importante; e però tanto maggiormente ha bisogno di presentaneo rimedio, quanto, se agli olandesi e zelandesi succedesse il ben fondarsi e perpetuarsi nella Libertá, che contro la forza del potentissimo re di Spagna, loro natural signore, si hanno usurpata, ben potete assicurarvi che da scandalo tanto brutto giustamente dovete temer l’ultimo vostro esterminio. E giá voi, cristianissimo altrettanto quanto potentissimo regno di Francia, che in questa tanto maestosa radunanza tra le maggiori monarchie dell’universo meritamente ritenete il primo luogo, molto ben sapete che nelle turbulenze de’ vostri ultimi travagli dai sediziosi vostri nemici piú volte si è discorso e forse conchiuso di accender nel vostro seno e tra’ vostri fedelissimi franzesi il fuoco delle Libertadi alemanne: tanto innanzi si sono avanzati i mali, de’ quali appresso gli orecchi che intendono molto, mi contento di aver accennato queste poche cose! — Questo ragionamento del gran cancelliere in infinito trafisse gli animi di que’ grandissimi monarchi; percioché molti prencipi, per aver gli Stati vicini a quelle republiche, piú prossimi trovandosi al pericolo, sentirono straordinario affanno. Subito dunque fu pensato al rimedio; e per lo piú presentaneo fu ricordato che in quel pubblico bisogno ottima risoluzione sarebbe stata che dalle monarchie tutte una stretta lega si fosse formata contro esse republiche, perché con l’aperta forza di tanti potentati uniti insieme facilmente speravano di soggiogarle. Ma in questo parere, il quale da principio ottimo parve ad ognuno, gravissime difficultadi si scoprirono poi, mercé che alcuni segnalati prencipi ricordarono alla Dieta che non solo imprudenza, ma somma temeritá era con soldati mercenari, i quali nella guerra altro interesse non avevano che dal signor loro meritar il miserabil stipendio di un giulio il giorno, affrontar una nazione che impugnava le armi per l’importantissimo interesse, che tanto fa gli uomini coraggiosi, della difesa della libertá; e in questo [p. 24 modifica] proposito fu ricordato il caso infelicissimo succeduto al duca Carlo di Borgogna, il quale, ancor che fosse stimato il fulmine della guerra, l’Orlando e il Marte de’ suoi tempi, dagli svizzeri nondimeno con la maggior parte del suo esercito fu tagliato a pezzi: tutto perché l’uomo che difende la libertá ha venti mani e altrettanti cuori. E fu anco considerato che, come ricercava il bisogno, in tempo brieve a’ prencipi non essendo possibile debellar tante Libertadi, che col molto che vi averebbono consumato, il negozio si rendeva impossibile; percioché gli stessi olandesi e zelandesi ad ogni prencipe avevano insegnato che se, con lungo tempo maneggiar le armi, agguerrivano i popoli che difendevano la libertá loro, li facevano divenir insuperabili. E dissero che ciò accadeva perché la caritá della patria libera non solo rende il cuor de’ suoi cittadini in infinito intrepido e le mani pronte, ma l’animo fedele e svegliato l’ingegno; e fu detto ancora che duro negozio per le mani aveva quel prencipe, che contro l’inimico suo non poteva servirsi di quel cannone caricato di scudi di oro, che sbaragliava tutti gli eserciti e che dava vinte tutte le guerre e che il mirabile effetto faceva di uccider nell’animo di un uomo la fedeltá. E intorno a questo particolare molta riflessione fu fatta sopra le moderne azioni degli olandesi e zelandesi, i quali, per la sviscerata affezione che sempre avevano portata alla libertá della patria loro, cosi gagliarda resistenza avevano saputo fare non meno al ferro che all’oro di quella valorosa e pecuniosa nazion spagnuola, che tanto esattamente possiede la scherma di ben sapere maneggiar l’uno e l’altro; e, quel che fu tenuto cosa vicino al miracolo, che in un tempo medesimo avessero saputo e potuto difender la novella libertá loro contro l’aperta forza degli spagnuoli non meno che contro gli occulti inganni de’ franzesi, degli inglesi, e sopratutto dai sottilissimi artifici di quella fina volpe del prencipe di Oranges: i quali tutti, sebbene sotto vari e speciosi pretesti di libertá, cosí avevano animo di farsi signori di quegli Stati e signoreggiarli, come il re di Spagna di ridurli sotto il suo antichissimo dominio. A questa poi sí aggiunse la seconda e molto piú importante diffícultá; percioché fu posto in [p. 25 modifica] consulta, quando dalle armi de’ collegati monarchi fossero state domate le republiche alemanne, che far si doveva degli Stati che si fossero conquistati. Per risposta di questo fu ricordata la comune ragione delle genti e l’uso ordinario delle leghe, le quali vogliono che gli acquisti, fatti dai collegati, degli Stati nemici, quando alcuno di essi sia nel numero de’ prencipi collegati, sieno restituiti agli antichi signori loro. Per vigor della qual legge l’imperio romano faceva instanza che dopo la vittoria a lui fossero restituite quelle cittadi che dalla sua autoritá si erano sottratte. E la serenissima casa d’Austria con ottime ragioni pretendeva di ripeter l’antico suo dominio avuto sopra la maggior parte degli svizzeri e degli altri popoli, che per farsi liberi si erano levati dal suo dominio. Queste pretensioni ancor che dalla Dieta tutta fossero conosciute giuste, per esse nondimeno tanto si stomacarono que’ prencipi, che dopo lungo contrasto fu alla fine risoluto che a materia tanto odiosa fosse posto silenzio. E fu detto poi che, per le due difficultadi proposte impossibile riuscendo alle monarchie con la forza aperta soggiogar le republiche alemanne, con ogni sorte di prudente riparo talmente per l’avvenire dovessero attendere a ben forticarsi, che il male delle Libertadi alemanne, il quale fino a quell’ora aveva fatti progressi tanto segnalatamente pregiudiciali, non divenisse maggiore; e fu risoluto che, toccandosi con mano che i molto larghi privilegi, che da alcuni prencipi troppo prodighi erano stati conceduti a’ vassalli loro, in un mezzo viver libero, nel quale si trovavano, grandissima occasione avevano data loro di affettar tutta la libertá: che però simili privilegi, come scandalosi e ad ogni monarchia sommamente perniziosi, anco per qualsivoglia grandissimo merito non solo piú non si dovessero concedere per l’avvenire, ma che con buoni artifici a poco a poco ogni potentato dovesse cercar di tórli a’ popoli loro, e talmente ridurli a ricever tutta la servitú, che né pur minima notizia avessero di que’ privilegi che l’animo loro sollevano ad affettar tutta la libertá. E in questo proposito severamente furono ripresi alcuni passati imperadori di Germania e i duchi di Borgogna, che non solo sciocchi furono in conceder [p. 26 modifica] a’ popoli loro pregiudicialissime esenzioni, ma ignorantemente avari in venderle per picciola somma di danari, con simile azione avendo posto loro stessi e le altre monarchie tutte in grandissime difficultadi. E per tanto maggiormente assicurarsi, fecero que’ prencipi decreto che tra i sudditi loro fino dall’ultima radice estirpassero ogni forma, ogni vestigio di ugualitá, affermando sopra questo proposito i piú saggi della Dieta che la molta disuguaglianza, che in un regno si trovava tra la nobiltá, l’assicurava che giammai non era possibile che altri vi avesse potuto introdur forma di viver libero. E la stessa monarchia di Spagna cosi vivamente tenne per questo parere, che liberamente disse di essersi accertata che dopo la morte di Filippo Maria Visconte ninna altra cosa piú aveva preservato il ducato di Milano dal viver in quella libertá che si ragionò di instituir in esso, che la molta sproporzione delle ricchezze che in quel nobil ducato si è sempre veduta non solo tra la nobiltá e il popolo milanese, ma tra la nobiltá stessa: cosa che anco aveva cagionato che nel ricchissimo regno di Napoli da que’ baroni, anco nelle bellissime occasioni che si erano presentate loro della mancanza del sangue reale e di molti altri interregni che nelle loro turbulenze avevano avuti, giammai non si era parlato di fondarvi il viver libero. Mercé che la nobiltá delle monarchie per suo particolar instinto aveva il costume di piú tosto voler per re qualsivoglia soggetto barbaro, che vedersi fatti uguali non solo i baroni di bassa mano, ma i dottori e i bottegai, che la Libertá farebbe loro pari. Di piú per ottimo rimedio da indebolir le republiche alemanne fu ricordato che i potentati di Europa lasciassero l’uso tanto pernizioso di comperar col molto caro e poco onorato prezzo delle pensioni le immondizie delle case degli svizzeri, de’ grigioni e delle altre nazioni di Alemagna; le quali cosa chiara era che quando fossero rimase in quegli Stati, tali sedizioni vi averebbono cagionate quegl’ingegni inquieti, sediziosi ed eterocliti che con molto lor profitto mandano a morir fuori, che contro loro si sarebbono veduti rivoltar quelle armi che a peso di oro vendevano a’ prencipi poco accorti. Ma le molte gelosie, che mai sempre hanno regnato, che ora piú [p. 27 modifica] che mai regnano e che si crede che in eterno regneranno tra i maggiori re di Europa, operarono che, per téma che l’uno aveva di lasciar al compagno tutta quella immondizia, ricordo tanto salutare pubblicamente da tutti fu lodato e secretamente da ognuno aborrito. Ben è vero che, per render, piú che a’ prencipi fosse possibile, amabili a’ popoli le monarchie, nella Dieta con solennitá grande furono formati, stabiliti e giurati gl’infrascritti capitoli, da inviolabilmente esser osservati:

Che la piú saggia politica, la piú perfetta ragion di Stato, che imparare e praticar dovevano i prencipi, essendo la sapienza di amare e temer Iddio con tutto il cuore, del sacrosanto suo nome non piú per l’avvenire, come molti per lo passato bruttamente avevano fatto, dovessero servirsi per istromento da cavar danari dalle mani de’ popoli, e per aggirarli con le diverse sètte e con le nuove eresie ove piú loro dettavano gl’interessi mondani, ma per acquistarsi quella buona grazia di Sua divina Maestá, che a’ prencipi timorati di Dio, a’ popoli che ubbidiscono alla sua santa legge apporta l’abbondanza d’ogni bene;

Che per l’avvenire con tal avvertenza si contentassero di mungere e di tosar le pecore del loro ovile, che non solo non le scorticassero, ma che punto non intaccassero loro la pelle, ricordevoli che gli uomini erano animali che sapevano, non bestie che non conoscevano; che però infinita differenza era tra’ pastori che tosavano e mungevano le pecore, e i prencipi pecorai che mungevano e tosavano gli uomini, dovendo questi servirsi della forfice della discrezione, invece di quella del nudo interesse, solo usata, e sempre infelicemente, dagli avari pecorai; piú volte essendosi veduto che l’odio pubblico aveva potuto e saputo far la spaventevole metamorfosi di convertir le semplicissime pecore de’ sudditi in tanti viziosissimi muli, che a furor di calci fuor dell’ovile avevano cacciato il pastor loro troppo indiscreto;

Che in timore e in freno tenessero i popoli loro, non con quella bestialitá di un ingegno capriccioso, che altrui spaventevole fa parer la signoria di un uomo solo, allora sommamente perniziosa, che col solo giudicio naturale vuol giudicar la vita [p. 28 modifica] degli uomini; ma con solo in que’ delitti mostrarsi inesorabile, che, non meritando il perdono, avevano bisogno di esser puniti con tutto il rigore delle leggi;

Che verso le persone indegne avari fossero del pubblico danaro, prodighi co’ meritevoli, mercé che, con tante pessime soddisfazioni essendo egli cavato dalle viscere de’ sudditi, ogni prencipe che voleva meritar il nome di buon pastore strettissimamente era obbligato dar loro il contento di vedere che non nelle prodigalitá delle cacce, de’ tornei e delle cene troppo sontuose, non ne’ scialacquamenti di arricchir ruffiani, buffoni e adulatori, ma che virtuosamente era speso e giudiciosamente dispensato per beneficio della pubblica pace;

Conferissero per l’avvenire le dignitadi e i magistrati a’ soggetti piú degni, solo avendo in considerazione il merito di chi chiedeva, non l’affezione che si portava a chi raccomandava: quegli veramente meritando il nome di pazzo, che per far utile e onore ad altri svergognava se stesso e annichilava le cose sue proprie;

Sepelissero i propri capricci e perpetuo bando dessero a tutte le loro private passioni; e, affine che commodamente potessero far quella mirabil risoluzione, che tanto felicita i prencipi e floridi rende i regni, di sottoporsi all’assolutissimo dominio dell’interesse della pubblica utilitá de’ loro popoli, affatto rinnegassero la propria volontá del senso;

Assoluti monarchi si mostrassero degli Stati loro nell ’eseguire le deliberazioni de’ negozi loro piú importanti, ma nel consultarle capi di una ben ordinata aristocrazia: sicuri che quattro sciocchi, che si consegnavano insieme, migliori deliberazioni facevano sempre di qualsivoglia ingegno grande che operava solo;

Che, imitando il grande Iddio, del quale i prencipi luogotenenti erano in terra, l’orrendo eccesso dell’omicidio solo perdonassero per quella misericordia che si deve alla minor etá, alla grandezza dell’offesa ricevuta piú nell’onore che nella vita, a certo furor d’ira che ne’ casi repentini altrui toglie l’imperio di se stesso, il senso del giudicio e il discorso della ragione, ma [p. 29 modifica] non mai per avarizia di danari: non altro traffico piú scelerato potendo i prencipi introdur ne’ loro tribunali, che il mercatarvi il sangue umano; che però gli omicidii dolosi commessi per malignitá di sanguinolente superbia, per malizia di genio tirannico, non solo per l’importantissimo fine di non tirarsi contro l’ira del giustissimo Iddio, ma per quella soddisfazione che con l’amministrazione di ’una retta giustizia erano obbligati dar ai sudditi loro, con l’omicidio dell’omicida severamente vendicassero: quella veramente essendo lode di avara e scelerata clemenza, che con perdonar le altrui gravi offese i prencipi volevano acquistarsi;

Che fermamente credessero di esser signori e assoluti padroni de’ sudditi, non come i pastori sono delle pecore loro, le quali fino possono vendere ai macellai, ma solo utendo, non abulendo: mercé che i popoli, esacerbati dalle offese de’ mali trattamenti, lungo tempo non sapevano vivere in quella mala soddisfazione, che madre feconda è delle brutte risoluzioni;

Che stimassero il vero tesorizzare essere il dar contento a’ popoli, e di sudditi farli fratelli cari, figliuoli diletti: cosa tanto vera, che l’arte felicissima di prender con le sardelle gli storioni altro non era che con l’artificio di una accorta liberalitá e col danaro della clemenza mercatantar amore per far acquisto del ricco tesoro del cuor degli uomini; poiché l’empir, che alcuni prencipi facevano, le arche di masse grandi di oro accumulato con l’esazione di dure gravezze, non solo era un ingrossar quella milza che tanto deteriorava la salute di un corpo ancorché sano^ ma spesse volte per stimoli pungenti e per trombe sonore servivano agli stranieri, acciò si armassero per far di quei tesori ricca preda;

Che, nelle insolenze che usavano e nelle stravaganze che facevano, punto non si fidassero nell’amor pubblico de’ loro vassalli: il quale per una impertinenza usata, per un disgusto dato loro, cosí facilmente si perdeva, come per una sola cortese e liberal azione si acquistava;

Che nemmeno fondamento alcuno facessero nella passata pazienza mostrata da’ popoli loro, essendo vero che co’ tempi. [p. 30 modifica] CO’ luoghi e con le persone variavano e si mutavano ancora gl’ingegni e gli umori degli uomini; che però dell’ignoranza, ancorché molto crassa, de’ sudditi loro e del vederli affatto disarmati e imbelli non insuperbissero, né sopra i popoli loro pigliassero soverchio ardire; poiché non mai si trovò regno che grandemente pieno non fosse di que’ soggetti nobili, inquieti, ambiziosi e mal soddisfatti, che per sicure guide servivano ai popoli ciechi e per dotti pedanti che agl’ignoranti sudditi insegnavano l’importante precetto, la sediziosa dottrina: che, per uscir dal laberinto della servitú di una monarchia governata col solo termine dell’insolenza e di uno sregolato capriccio di un prencipe furioso, a guisa di Teseo faceva bisogno seguir il filo delle armi: cosa di tanto maggior pericolo a’ prencipi, quanto la disperazione, che per trattamenti tali entrava ne’ popoli, ancorché disarmati, ancorché imbelli e ignoranti, per ogni cantone faceva trovar loro arme, cuore e giudizio;

Che l’arme potentissima dell’infinito imperio, che anco sopra la vita degli uomini vogliono le leggi che abbiano i prencipi, mai sempre per ispavento de’ malvagi, per sicurezza de’ buoni portassero al fianco, ma però senza giammai porla essi in uso: ma, nelle occasioni ove faceva bisogno vibrarla contro quei che appresso le leggi avevano demeritato, liberamente dessero in poter di quella sacrosanta giustizia, che, anco co’ piú crudeli castighi dilaniando il corpo de’ rei, punto non esacerbava loro l’animo di rancore e di odio di vendetta. Che però, acciò i delinquenti, anco nel caso acerbissimo della morte, potessero acquetar l’animo loro tanto alterato, studiassero che nelle cose criminali dalla immediata mano loro solo fosse dispensato il miele della grazia, e che l’aculeo della giustizia solo fosse esercitato da’ loro magistrati;

Che nelle imposizioni de’ pubblici dazi per l’avvenire meno che fosse possibile aggravassero le cose necessarie al vitto e al vestito di quei poveri che con l’industria de’ perpetui sudori sostentano la vita loro; e che rigore di imposizioni maggiori usassero in quelle che solo appartenevano alle delizie, ai lussi e alle superfluitá de’ facoltosi, che, delle rendite loro vivendo oziosi, [p. 31 modifica] solo attendono all’arte di star immersi ne’ giuochi e all’esercizio di perpetuamente inventar nuovi vizi;

Che sopra tutte le cose esquisitissima diligenza usassero acciò i pubblici proventi fossero esatti con modestia e da persone discrete: spesse volte accadendo che a’ popoli piú odioso rendeva il dazio la qualitá della persona che lo riscuoteva e il violente modo usato nell’esazione, che la gravezza stessa;

Che ogni industria loro ponessero in pascer la plebe di pane, la nobiltá di gradi onorati; e che, per conseguir fini di tanta felicitá, tra i loro sudditi libero lasciassero il commerzio del vendere e del comperare i frutti e le rendite de’ loro terreni e il guadagno de’ loro traffichi, ma che ogni industria dovessero impiegare nella gloriosa e ricca mercatanzia di empir i magazzeni degli Stati loro di grano e di ogni sorte di biade necessarie al viver degli uomini, comperate ne’ paesi lontani: traffico felicissimo e ricchissimo, il quale allora a’ prencipi dava il guadagno di cento per uno, che, per la grassa abbondanza ch’avevano cagionata, vi avevano perduto tutto il capitale;

Che poi, per lautamente pascer la nobiltá, sempre famelica del cibo della gloria, del pane dell’onore, non ad altri che a soggetti nobili degli Stati loro conferissero i magistrati e le altre degnitadi piú principali; e che come dal fuoco si guardassero di dar loro quella mortai ferita, la quale ne’ maggior regni di Europa aveva cagionate lagrimevoli sovversioni, di ammettervi forastieri per ingrassarli e ingrandirli, e di esaltar, piú per capriccio di amor particolare, che cosí comportino le gelosie di Stato, a gradi sublimi i vili soggetti della plebe ignorante. E che nel particolare di tanto rilievo imitassero la sapienza de’ cani, dalla stessa sagacissima natura insegnata loro, i quali in modo alcuno non possono sofferire che altro cane forastiero entri nella casa loro, solo per lo timor e’ hanno ch’egli non furi loro quella buona grazia del padrone, della quale essi tanto sono gelosi, e quel pane che, per mercede di aver con le perpetue loro vigilie ben custodita la casa, meritamente si deve loro;

Che, negli editti che pubblicavano, imitassero le ben ordinate republiche, nelle leggi delle quali sempre evidentemente [p. 32 modifica] si scorgeva il fine chiaro del pubblico bene, non, come spesse volte si vede ne’ principati, del privato interesse;

Che dalle lor case perpetuamente esterminassero quegli adulatori, que’ buffoni e que’ mignoni, che tanto scolorano la riputazione di qualsivoglia gran prencipe; e che non solo ardentemente s’innamorassero e tutti in preda si dessero al valore, alla virtú e al merito de’ loro ministri, ma che fino gl’idolatrassero;

E perché cosí a’ privati poca riputazione arrecava il perder le liti, come a’ prencipi molta vergogna il piatir co’ loro vassalli e riportar poi la sentenza contro, ogni lor differenza, che con essi avevano, da uomini nella profession delle leggi grandemente scienziati facessero veder prima, e solo quel litigio cominciassero, nel quale molto notoria altrui era la lor buona ragione. E che per mostrarsi lontani da ogni macchia di rapacitá e di violente tirannide, piú contento mostrassero di sentir, allora che non solo avevano perduta la lite, ma che fino vi erano stati condennati nelle spese, che si rallegrassero di aver riportata la sentenza favorevole;

Che, conforme l’uso delle ben ordinate republiche, per ultimo fine de’ pensieri loro per l’avvenire avessero quella santa pace universale de’ loro Stati, che tanto felicita que’ popoli che la godono; e che la soverchia ambizion loro sfogassero nel far acquisto della segnalata gloria di ben governar i popoli che Iddio ha conceduti loro, non. con l’empio mezzo degl’incendi, delle rapine e dell’effusion di copia grande di sangue umano, affettar gli Stati altrui;

Che ne’ delitti de’ poveri la severitá usassero delle crudeli pene pecuniarie; ma i superbi facoltosi punissero nella vita e facessero pagar loro composizioni di sangue, solo affine che al mondo tutto facessero conoscere che gli altrui eccessi vendicavano per zelo di giustizia, non per avarizia di danari: colui essendo grave nemico della pubblica pace, al quale il caldo delle ricchezze serviva per incentivo alla superbia, per isprone a commetter delitti;

Che ogni regola del buon viver virtuoso, che desideravano di veder ne’ sudditi loro, piú si forzassero ottener col buono [p. 33 modifica] esempio della lor vita, che con qualsivoglia straordinario rigor di leggi: non essendo possibile proibir a’ popoli que’ vizi, ne’ quali essi veggono il prencipe loro tutto immerso;

Nel governo degli Stati loro non usassero quella trascuraggine che tanto è propria de’ prencipi che posseggono regni immensi, non quella soverchia accuratezza che tanto inquieta i popoli, solita vedersi ne’ prencipi che con un ingegno grande dominano uno Stato picciolo: ma navigassero con la sicura tramontana «Ne quid nimis»;

Solo gli eccessi gravi de’ sudditi loro punissero col rigor tutto delle leggi: i piccioli o mostrassero di non vedere né sapere, o (come si conviene a’ prencipi, che uomini governano, non angeli) liberamente perdonassero; che ne’ mediocri poi usassero pene esattamente misurate al delitto, e che come la morte fuggissero di soverchiamente in un delitto presente incrudelire contro un misero per spaventar gli eccessi futuri; e che sopra tutte le cose studiassero che non mai in qualsivoglia reo si vedesse castigo alcuno, che nel mezzo della severitá delle leggi, o in minuir la pena o in cambiare il castigo o con la liberalitá di donar i beni confiscati, chiaramente non rilucesse la clemenza del prencipe;

Che le private ingiurie non meno che le pubbliche offese col pietoso braccio della giustizia mai sempre vendicassero, e che ne’ disgusti, che da alcun suddito loro ricevevano, non le famiglie ma solo odiassero il reo: col castigo del quale fornissero i loro rancori, e fuggissero il costume di conservar essi e di trasmetter agli eredi loro quegli odii eterni, quelle diffidenze immortali, che, facendo cader gli uomini nella disperazione, non solo a’ prencipi erano di sommo pericolo, ma grandemente odiose altrui rendevano le monarchie;

Che quanto prima procurassero tutti di liberare i popoli loro dal morbo, che tanto travaglia gli animi, affligge i corpi e consuma le facoltadi altrui, dell’eternitá de’ litigi; e che sopra ogn’altra cosa da disordine cosí brutto si guardassero di cavar utile di provento alcuno: tutto affine di fuggir l’odio pubblico, del quale si incaricarebbono allora che i popoli si avvedessero [p. 34 modifica] che tanto disordine serviva per sanguesughe da cavar con tante pessime soddisfazioni i danari dalle viscere de’ loro afflitti popoli; i quali non altro piú crudele e penoso inferno provando in questa vita presente, che il tormento del piatire e la pena di trovarsi nelle mani tanto rapaci de’ giudici, degli avvocati, de’ notai e degli sbirri, officio di ogni buon prencipe era di piú tosto co’ suoi dispendi liberar la sua greggia da tanti scorticamenti, che servirsi di essi per una ricca ma però molto empia mercatanzia;

Che i grani, gli oli, i vini e le altre cose pertinenti al cotidiano vitto degli uomini, che producevano gli Stati loro, anco nelle estreme abbondanze e nella copia di una redundante superfluitá conservassero, e in ogni possibil modo fuggissero di mercatantarle essi alle nazioni straniere; perché, dell’abbondante raccolto dell’anno venturo niuno potendosi assicurare, non altro piú mortal fallo potevano commetter i prencipi, che delle penurie anco mandate da Iddio esserne incolpati essi;

Che, il maggior vantaggio che abbiano le republiche sopra le monarchie essendo l’esser libere dall’impedimento delle donne, ogni prencipe lontano dalla dolcezza del comandare e da’ pubblici negozi tenesse la moglie e ogni altra donna del suo sangue, come istromenti che, con l’imprudente e avaro modo di proceder loro, in molti principati avevano cagionate lugubri tragedie; e che per cosa fermissima tenessero che non altra piú vera sentenza aveva detta il gran politico Tacito, che «Non imbecillem tantum et imparem laboribus sexum; sed, si licentia adsit, saevum, ambitiosum, potestatis avidum»1.

Letti, stipulati e giurati che furono i presentí capitoli, lo stesso gran cancelliere caramente ricordò a que’ gran monarchi della Dieta che, acciò il mondo non vedesse l’esempio scandalosissimo della novella Libertá degli olandesi e zelandesi, che di ogni altra sorte di privato interesse si spogliassero tutti; e che se (come per ogni termine di buona prudenza e di ottima ragion di Stato strettamente erano obbligati) non volevano [p. 35 modifica] dar aiuti agli spagnuoli, acciò piú commodamente avessero potuto mostrare al mondo non esser possibile a’ popoli ribelli con la sedizione delle armi comperarsi la libertá, che almeno non dovessero somministrar loro aiuti: essendo somma imprudenza e mortai conseglio con esempio tanto brutto precipitar le cose proprie per voler sconcertar le altrui. Alle parole del gran cancelliere que’ monarchi tutti (tanto i prencipi, nati, allevati e perpetuamente vivuti nell’arte tiberiana della simulazione, assertivamente con la bocca sanno prometter quello che non detta loro il cuore!) con mirabil consenso risposero che in ogni modo fosse fatto quello, che nel loro secreto sapevano certo di non voler in modo alcuno eseguire.

  1. Tacito, libro iii degli Annali.