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Ed i liberali del C. N. R. rimastivi, nella massima parte i più tepidi ed utilitarii, repugnavano da qualsiasi azione, che non fosse concordata col Governo di Torino; ed aveano per l’intervento francese nella nostra guerra scemata la loro avversione contro il già tanto odiato Luigi Napoleone. Ciò che, nei più dei casi, non era già saviezza o prudenza, ma vivo desiderio di non turbare i loro propri interessi con mutamenti dello stato di cose in cui essi trovavano il loro personale tornaconto.

A questo deve aggiungersi che, annessa la Toscana, morto Cavour, avea prevalso nel partito al Governo la «Consorteria Toscana», la quale assai poco o nulla avendo fatto per l’unità, essendo essa rimasta fino all’ultimo istante ligia al Granduca, per ironia della storia, si trovava ad aver parte preponderante nel reggere la risorta Italia.

E questa infausta «Consorteria» aveva mutato del tutto lo spirite del partito che era stato di Cavour. È mentre questi si serviva, da uomo positivo che era, degli interessi per convergerli ai più alti scopi nazionali, i «consorti» credevano, e taluno forse anche in buona fede, di lavorar in prò di quelli, promuovendo egoistici interessi di partito e di casta. E secondo questi regolavano la politica dello Stato.

Fu questo prevalente spirito esclusivista e gretto nel Governo, dopo la morte di Cavour, che funestò l’Italia nel primo decennio della sua vita indipendente. E, fra l’altro, tanto maleficamente agì sulle cose di Roma, favorendo quelli elementi che mon avean punta fretta di restituirla all’Italia.

Contro questo andamento di cose moveva aspri lamenti tutta l’emigrazione romana, la quale era numerosa ed impaziente, specie a Torino, a Firenze, a Bologna. E faceva gravi accuse contro i dirigenti del C. N. R. in Roma, in specie, per il malo uso che essi facevano dei fondi del Comitato e della sovvenzione mensile di cinquemila lire che ricevevano dal Governo di Torino.

In questo generale intepidimento della politica del C. N. R.