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a ciascun dei pittori presenti, la sua, finchè venne a mancar l’uditorio. Mason ed io, però, fummo dallo Stankevich assai bene trattati per l’indirizzo dell’arte nostra.
Questo seguiva nel 1853. Dopo più di quarant’anni, pochi giorni or sono, mi son imbattuto, qui in Roma, in questo bizzarro polacco ormai curvo sotto il peso di molti lustri. E fra l’altro gli domandai che ci fosse di nuovo in arte. Mi rispose:
— Nulla c’è di nuovo e nulla vi sarà, fino a che la fotografia regnerà sovrana.
Torno al 1853.
Per umidità presa, lavorando in campagna, avendo un giorno forte dolor di denti, per farmelo cessare avrei fatto qualunque sacrificio fuorchè quello di farmi cavare un sol dente. Allo scopo io avea perfino preso il detestato sigaro. Incontrato Stankevich, ad esso meravigliato dissi la ragione che mi avea fatto un camino ambulante. E Stankevich allora mi disse con assai comica gravità:
— Purtroppo addolora di separarsi dai lavoratori della nostra vita. Difatti un di questi che mi ha abbandonato io me lo tengo in tasca.
Così dicendo cavò di tasca un dente e proseguì:
— Vedi? Può darsi che a lui dolga, ma a me non duole!....
Una sera, ad Albano, eravamo in parecchi in un’osteria. C’erano: Villers paesista tedesco, il paesista Alessandro Castelli, Franz Dreber e molti altri. Stavamo intorno ad una tavola col bicchiere davanti, cianciando allegramente. Molti cani venivano sotto la tavola e ci regalavano pulci in abbondanza, tramandando punto piacevole odore; e noi li cacciavamo con urla. Entrò un capitano tedesco; questi, udendo alcuni della nostra compagnia parlare la sua lingua, e vedendo scintillare il vino nei bicchieri, ci domandò con molto bel garbo di unirsi alla nostra allegra brigata. E noi applaudendo gli facemmo posto sulle nostre panche.