Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XVI
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Estrema difesa di Roma
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XVI.
ESTREMA DIFESA DI ROMA.
LA CAPITOLAZIONE E L'ENTRATA DEI FRANCESI.
I Francesi si afforzavano su le posizioni conquistate il 21 giugno. Ed anche da parte nostra si muniva il meglio possibile la nuova linea. Quegli ultimi giorni della difesa della città, pur non essendovi più la menoma speranza, tutti raddoppiammo di ardore.
Fu appunto in quei giorni che a me toccò un caso che dimostra da quale arcana sorte, specie in guerra, sia governato il destino della vita umana.
Faceva parte della nostra prima linea di difesa una collina con sopra una casetta, la quale si estendeva da Roma verso i Francesi. Noi avevamo diligentemente fortificato questa posizione avanzata con fossati e con alti e spessi mucchi di sacchi di sabbia.
Una notte io montavo come sentinella morta al di fuori della linea dei sacchi. Ricordo che c’era gran buio. Bisognava, quindi, star con gli occhi bene aperti e le orecchia intente. Ma bisognava, pure, tenere le narici ben turate a cagione di un cavallo morto, che da qualche giorno andava putrefacendosi poco lungi dalla posizione.
Ci fu, quella notte, un tale che mi pregò che gli cedessi il mio turno di fazione avendo egli gran necessità di restituirsi ad una data ora a casa. Accettai di buon grado; me ne andai a far la mia solita ispezione negli ospedali. Tornato che fui per riprendere il mio turno di fazione, trovai la collina in possesso del nemico e quel tale, che aveva voluto montar la fazione in mia vece, strangolato e gettato a far compagnia al cavallo in putrefazione.
Si voleva, prevedendo imminente la entrata dei Francesi nella città, continuare a combattere per le vie. Si innalzarono parecchie barricate. E a questi preparativi per la resistenza nella città sopraintendeva Enrico Cernuschi, avendo al lato lo scultore livornese Temistocle Guerrazzi ed il giovane ingegnere romano Leonardi.
Cernuschi volle rinnovare, per la difesa nelle vie, specie contro la cavalleria, i «triboli» di Cesare; i quali erano arnesi a molte acuminate punte, che lanciati, da qualunque parte posassero in terra, molte punte rimanevano sempre volte in aria. Datine i modelli, pubblicò che la Repubblica ne avrebbe comprati quanti gliene fossero stati presentati. I fabbri romani in breve ne fabbricarono in quantità esuberante. Cernuschi, allora, fece affigger questo manifesto che assai, in quei gravi giorni, si prestò ai motteggi:
«Fabbri ferrai!
«Cessate di far triboli. La Patria ne ha abbastanza».
I reggitori, però, come si sa, decidevano che non dovesse esercitarsi la estrema difesa di Roma sulle barricate nelle vie.
Il Governo repubblicano non volle trattar esso, con i Francesi, la resa della città. Per questa interamente se ne rimise al Municipio.
Io, del Municipio facendo parte, non mancai di trovarmi al mio posto quando venne il côrso Filippi, capitano di artiglieria, che fu il primo dei Francesi entrati in città. Egli parlò molto scioltamente in italiano. E, fra tante cose, disse che l’artiglieria francese non vedeva il momento di abbracciare ed onorare leroica artiglieria romana.
E, dicendo «eroica» all’artiglieria romana, non può dirsi davvero che egli esprimesse un vacuo complimento.
Non appena la resa di Roma fu nota alla plebe, questa subito si gettò su le barricate a rubarne il legname. Oscenamente le donne festeggiavano i Francesi gridando:
— Evviva, evviva, adesso torneranno i nostri padroni!
Andato al quartiere della Guardia Civica in Santa Maria in Trastevere, trovai la Guardia che faceva la parata allo sfilar delle soldatesche nemiche. Ne era alla testa un sergente con la medaglia di Vicenza. Gliela strappai dal petto; e comandando «fianco destro per fila destra» mandai i militi in quartiere. Qui vi era l’aiutante maggiore, che indispettito mi si volse domandandomi:
— Comanda lei?
— Per tutt’oggi io — risposi — domani voi.
Me ne andai poi al Corso. Nel portone di palazzo Sciarra trovai un prete sventrato con le budella avvolte attorno al collo. AI Caffè delle Belle Arti, sotto palazzo Fiano mentre sfilavano i Francesi vidi il dott. Diomede Pantaleoni. Il popolo sfilava ed urlava contro di quelli; pare che il dott. Pantaleoni, invece, si mostrasse contento dell’entrata dei Francesi o che so io. Non compresi bene, perchè io mi trovavo dell’altra parte della strada e fra me e lui sfilavano i Francesi. Ma vidi bene che ad un tratto, il popolo, voltata la schiena a questi, assaliva inveendo un’uomo, ed era questo il dott. Pantaleoni. Che, piccolo e snello, cavato fuori lo stocco dal bastone, con lo stesso difendendosi, potè salvarsi saltando su una vettura che passava.
Sfilavano tuttora i Francesi quando giunsi per il Corso al Caffè Nuovo, che era al mezzanino di palazzo Ruspoli. Non vi era dentro più un tavolino, tutto al passaggio delle truppe straniere avean gettato dalla finestra.
Mentre entravano in Roma i Francesi, Garibaldi radunava sulla piazza di San Giovanni in Laterano tutti quei volontari che volevano seguirlo in nuove imprese. Ne raccolse alcune migliaia, con i quali uscì da Roma per destinazione ignota. Sono sicuro che così facendo Garibaldi non ebbe altro in animo che vuotare Roma, in momenti in cui non c’era governo, di elementi pericolosissimi. Questo non mi disse chiaramente, ma me lo fece intendere. Nei casi più gravi e disperati ancor più rifulge in tutta la sublimità sua la grande anima dell’eroe. Quel che fece e quel che ebbe a soffrire dopo aver lasciato Roma narra la storia.
La sera dell’entrata dei Francesi in Roma finalmente mi coricai nel mio letto per dormire. Non mi svegliai se non alle due e mezza del giorno appresso.
Che era nel frattempo accaduto?
Quelli di mia famiglia se ne erano tornati nel palazzetto comune di San Francesco a Ripa; e vi avean dato alloggio ad alcuni ufficiali dello Stato Maggiore francese. Difatti, destatomi, sentivo parlare nel cortile in lingua francese. Fattomi alla finestra vidi mia sorella Angela, con in mano un «pelone» della Guardia, discorrere con un ufficiale nemico. Essa mi avea più Alessandro Castellani. Nino Costa. Donne che imbarcano legna ad Anzio. volte detto di voler sposare il primo francese che fosse entrato in Roma. A tal vista imbracciai il fucile; ma venni trattenuto e disarmato da un vecchio domestico di famiglia.
Cessato questo primo mio impeto, lasciai la casa paterna per mai più ritornarvi.