Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo IV
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IV.
A ROMA NEL COLLEGIO BANDINELLI.
Nel tempo ch’io rimasi nel Collegio di Montefiascone morì Don Pasquale. La qual morte mi fu estremamente dolorosa. Uomo di gran cuore, di gran sentimento artistico, ignorante come una talpa. Da lui non ho appreso che una brutta calligrafia ed una molto dubbia ortografia: «Giggi», «Pariggi» e simili.
Nello stesso lasso di tempo avvenne anche la morte di mio padre; la quale io sentii un po’ meno di quella di Don Pasquale. Mio padre io avea visto di rado. A volte per punirmi col bastone, a volte per condurmi in chiesa al Gesù dai santi; ed a volte, con i ghiottoni, alla fiaschetteria della Palombella. Badiamo: egli era molto sobrio, ma la serata era interminabile ed il fiaschetto di Orvieto, poi, era allungato da discussioni di affari.
Mio padre ha lasciato questo testamento che venne ispirato dall’avvocato Armellini cognato di mio fratello Antonio: al figlio maggiore due parti, agli altri figli una parte ciascuno. Ma i minorenni, sotto la tutela della madre, fuori degli affari ed il loro capitale in mano dei maggiorenni al cinque per cento. Tutti gli effetti per uso di casa fossero apprezzati e comprati da quelli della famiglia. Così venne fatto; e ricordo, fra l’altro, che lenzuola di finissima tela vennero pagate cinquanta centesimi l’uno. I minorenni, naturalmente, non venner chiamati ad adire a questa vendita.
Gli affari andavano assai prosperosamente. Fra altre imprese avea, in quel tempo, la Ditta Costa, l’appalto delle Grasce e Consumo di Roma e Comarca, il quale dava centinaia di migliaia di scudi di guadagno. Si viveva largamente, v’erano sedici cavalli nella stalla, si tenevan molte carrozze, molti domestici, una lauta tavola. I minorenni mai han goduto delle carrozze, quantunque le distanze per andar a scuola fossero grandissime. Essi per vitto ed alloggio pagavano ciascuno 25 scudi al mese. Somma per quell’epoca enorme.
I miei fratelli, per ragioni di affari e di decoro famigliare, davano grandi e molto sontuosi pranzi. Queste spese straordinarie essi gravarono sulla eredità, che, morendo ci lasciò nostra madre. Per dare una idea di questi conviti, dirò che uno ne diedero in onore della Duchessa di Sassonia per l’occasione della venuta di lei per comunicarsi nella Chiesa di San Francesco a Ripa.
Altro gran banchetto offrirono, quei miei fratelli, a Gregorio XVI con gran seguito sul Lago di Paola, ch’essi aveano per la pesca in affitto dai Caetani.
Lasciato il Collegio di Montefiascone, io, col più piccolo dei fratelli, Luigi, venni messo nel Collegio Bandinelli in Roma. Questo, di impianto toscano, tenuto a convitto, era molto per bene e si trovava accanto a San Giovanni dei Fiorentini.
Vi eravamo tenuti come gentiluomini. Per esempio non venivano a mensa le parti fatte, ma girava il vassoio delle pietanze dal quale ciascuno poteva, senza abuso, servirsi a suo piacimento. Ciascuno avea camera a sè. Ma, Dio mio, alle finestre c’era la gelosia con stecche messe in modo che lasciavano vedere solo le stelle e la porta ne veniva, la notte, chiusa a catenaccio. Inoltre nella porta v’era un pertugio, dove non di rado apparivano le pupille del Rettore.
Questo Rettore, Monsignor Cardona, era un vero gentiluomo. Bello, alto, viso ovale, occhi cerulei, aveva bellissime mani fatte per essere inanellate da cardinale. Ed infatti egli venne più tardi nominato Preside dell’Accademia Ecclesiastica e fu cardinale papeggiante.
Si capisce come le stelle dei cielo non bastino a chi è chiuso in una specie di prigione. La porta chiusa dal di fuori è peggio che aver al piede la catena del galeotto. Altro, in tali condizioni, non si pensa che a poter dare uno sguardo a questa valle di lacrime, infrangere i serrami della porta.
Eccomi, dunque, a far mobile, con astuzia di carcerato, una stecca della persiana ed a me apparisce la scalinata di San Giovanni dei Fiorentini ed il primo piano della casa di contro, nel quale abitava la signora Apolloni, donna di forme esuberanti, proprio il sogno dei collegiali.
Per aprir la porta della mia camera provvidi, di notte, così: per muovere dal di dentro il catenaccio occorreva qualche cosa di simile ad un rampino, che, intromesso fra la porta ed il suo battente, il catenaccio facesse saltare. Tale arnese ottenni, da buon Cristiano, togliendo Cristo dalla Croce, che tenevamo a capo al letto, ed usandone un braccio come rampino. La nostra camerata era al secondo piano; uscito dalla mia camera scesi al primo piano dove, in un corridoio, v’era una finestra senza grata e sotto questa finestra era un lampione a due bracci. Scavalcato il davanzale, per scendere mi giovai dei bracci del lampione e venni pure aiutato dalla sentinella della vicina caserma. Perchè, con dei regali di sigari, m’ero fatti amici molti soldati della caserma stessa.
Messo piede a terra, subito mi diedi a correr come un pazzo. Ponte Sant’Angelo, Borgo, eppoi l’Orso, furono il percorso di quella mia prima libera passeggiata notturna che compii fumando, — io che non fumavo e che mai ho fumato — cantando e studiandomi di fare ogni cosa a me proibita. Bisogna sapere come l’uniforme del collegio fosse la marsina da società con cilindro e cravatta bianca; così quando io mi imbatteva in notturni passanti, mi mettevo a serio ed avevo l’aria di un giovanottino che usciva da qualche ricevimento.
Al ritorno al collegio, essendo spenta la poesia della fuga, volli riaccenderla fermandomi sotto la finestra della signora Apolloni a fischiare e tossire fino a che essa l’aprì ed affacciatasi, ridendo consigliò il ragazzo a tornarsene a letto. E mi domandò:
— Ma come ha fatto, lei, ad uscir fuori?
— Dalla finestra: — risposi.
— Vada, vada, — soggiunse sempre ridendo la formosa donna, — mi divertirò molto a vederla arrampicarsi; ma non si faccia male!...
Mi arrampicai per dove ero sceso ma con maggior facilità, perchè all’insù vedevo la strada che si doveva fare, ma alquanto imbizzito e mortificato per le risate della signora Apolloni.
Per diverse sere il giuoco delle mie scappate notturne andò benone. Ma, in una calda notte di estate, non appena messa una gamba fuor della finestra mi percosse l’orecchio un:
— «Chi è là?»
Riconobbi subito la voce del Rettore Monsignor Cardona. E mentre il buon uomo perdeva il tempo a domandare alla fazione del vicino quartiere se avesse visto entrare ladri, io ratto me ne tornai in camera; ma non ebbi il tempo di rifar la manovra per richiudere il chiavistello. Il Rettore, percorsi subito i due corridoi delle camerate, trovò il mio chiavistello aperto. Ma o che avesse qualche soggezione, o che ancor gli durasse il timor dei ladri, il fatto sta che egli si limitò a richiuder la mia porta con la chiave.
Ma, la mattina dopo, mi chiamò nel suo studio e mi raccontò, bonario, il caso della notte; ed aggiunse che non potevo essere stato altro che io alla finestra nel corridoio del primo piano, avvalorando l’accusa con l’asserzione della sentinella che nessuno era entrato dal di fuori e col fatto che avea trovata aperta la mia porta. Soggiungeva esser sicuro di avermi ben chiuso la sera innanzi. Mi domandò, infine, a qual scopo io fossi uscito di camera e come avessi fatto ad uscirne.
Risposi ch’io avevo potuto uscir di camera con l’aiuto di Cristo che io avea strappato dal martirio della Croce; e che lo scopo di uscire era di far prendere fresco alle gambe. Ed il Rettore a rispondermi pacato che Cristo era là sulla Croce per essere pregato, simbolo di divina pazienza e che il fresco si poteva prendere, per tutta la persona, dalla finestra della mia camera. AI che io replicai: che Cristo era morto sulla Croce per il bene degli uomini, per scarcerare le anime buone dal Limbo; e che la gelosia della finestra impediva che tutta la persona prendesse aria, mentre lo scirocco dà sopratutto alle gambe.
A me pareva che il bravo gentiluomo fosse per scoppiare dalle risa; guardarlo in viso io non osava, ma vedeva ballar la pancia sotto la sua sottana. Egli finì col prendermi con molta amorevolezza una mano, traendomi verso la porta e battendomi su una spalla e spingendomi fuor della stanza mi disse:
— Vedo bene che lei è troppo grande per star in collegio. Io parlerò alla sua signora madre perchè lo ritiri.
Fu nel collegio Bandinelli che cominciò per me l’insegnamento artistico, avendo principiato a disegnare sotto la direzione del prof. Durantini, un brav’uomo dalle idee, in arte, un po’ ristrette secondo il gusto dei classici del Primo Impero.
Monsignor Cardona fu di parola: parlò a mia madre. Dopo di che io venni ripreso in casa e fu nel 1845.