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mente, per lo strano caso, suscitar il riso di colei di cui io avea disturbato il sonno.
E questo alquanto mi confortava.
Ma c’era poi, a rendermi timido, selvaggio, non intraprendente, l’educazione avuta in famiglia. In questa io non ero stato mai considerato come un essere. Deriso, battuto anche malato in letto, oppresso lo spirito, abbandonato, tutto ciò mi avea fatto ripiegare in me stesso; rendendomi taciturno e riottoso, riscattando la mia inerzia, in certi momenti, con eccessi. Infine io non mi credevo degno di amore ritenendomi al di sotto di tutti, senza personalità. In fondo, però, il mio cuore era buonissimo. In casa dicevano di me:
— Giovanni ha buon cuore, ma carattere impossibile. È anche di talento, è peccato che non si possa metter negli affari perchè ha delle idee così strane.... È un vero originale!...
Questa parola «originale», in una casa fratesca come la mia, era un qualificativo da condanna dell’Inquisizione.
Alla uscita dal collegio il mio danaro mi fruttava, presso i fratelli, il cinque per cento; la retta in famiglia era di venticinque scudi mensili, ed io, così, mi trovavo con più di ottanta scudi al mese da sprecare. La qual somma era vistosa per quei tempi e per un giovanotto, come io era, senza educazione, senza conoscenze di famiglia, senza nessuna nozione di affari. Nulla me ne aveano appreso, perchè degli affari, di proposito, nemmeno si parlava alla presenza dei minorenni; nè mai eravamo ammessi in computisteria.
Il fratello maggiore, Antonio, tornato ch’io fui a casa dal collegio, con una certa aria di paternità, mi diceva:
— Adesso, Giovanni, per voi bisognerà che cerchiamo un impiego al di fuori delle cose di famiglia.
A questo discorso io risposi ringraziando e dicendo al fratello ch’io, per me, sentivo un avvenire al di fuori di un impiego e della famiglia.