Quanto Anfitrite gira
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XIII
Quanto Anfitrite gira
Sul carro ondisonante.
Quanto quaggiù rimira
L’occhio del Cielo errante;
Mentr’ei va fiammeggiante
L'orrida notte saettando intorno;
Non ha regno sì vile,
Che di cosa gentile
Alla sentenza altrui non sembri adorno;
Ma per pregio sublime
Aman le glorie prime.
Alma messe d’odori,
Avorj preziosi,
Oriental colori
Fan gli Arabi famosi,
Gl’Indi novelli ascosi,
Già da Nettun caliginoso ed otro,
I cui campi profondi,
Con zefiri fecondi.
Solcò primiero il Savonese aratro,
Hanno d'oro i lor fonti,
E d’oro hanno i lor monti.
Ben al pensiero alato
Andrian le note appresso
Ma non senza peccato
È lungo dir concesso;
Ma qui dal bel Permesso
Mandan le Muse violate il crine?
Perchè sul vario canto
Tessa d’Italia il vanto;
La qual se d'ogni onor varca il confine,
È sol, che i frutti suoi
Sono immortali Eroi.
Non ha Castalia nostra
Oggi Muse sì mute,
Che senza biasmo in giostri
Escon oro e virtute:
Or tu saette acute,
Anima, chiedi al biondo arcier di Delo:
E s’ei le dà pungenti,
Sian segno i lumi ardenti.
Onde s’instella di Toscana il Ciclo,
Gli altri Italici egregi
Avran poscia lor fregi.
Qual dall’eccelsa fera,
Che i Frigj boschi ordiro,
In memorabil schiera
Già mille Duci uscirò:
Cotal Arno rimiro
De' gran Medici tuoi numero invitto;
Ma mia cetra e mia mente
Argo non è possente
A far con tanti Eroi sommo tragitto.
Io con Giovanni solo
Farò de' remi un volo.
Umile di lui speme
Fiero Aquilon disperga,
E già tra l’onde estreme
L'involva e la sommerga:
Alla co’ Regi alberga
Virlute, che del ciel guarda le porte:
E se fede mortale
In questo corso è frale,
I gemelli Ledei rendanla forte.
E 'l nipote sovrano
D’Eaco e d’Oceano.
Qual non colse corona
D’eterna altera gloria
La destra onde risuona
Più fresca ognor memoria?
Lume d’ogni altra istoria
Al sol d’Achille disparisce e cedo.
E cesse armata in guerra
Già la Meonia terra.
Là ’ve ci condisse procelloso il piede,
E delle turbe oppresse
Fe' sanguinosa messe.
Vaga Vergine orrenda,
Sul Xanto allor sen venno,
Ivi vibrò tremenda
Termodontea bipenne;
Ma poco al fin sostenne,
Benchè si forte la Tessalic’asta,
Che trafitta il bel seno,
In sull'ampio terreno
La guancia impresse scolorita e guasta
E gio per Paria ombrosa
L'anima disdegnosa.
Posso l’acerbo ed aspro
Fato narrar il Cigno,
Ma petto di diaspro,
La lingua di macigno
Chiede il cauto sanguigno
Dell’iraconda insuperabil destra
Steso Troilo, stese
Ettore, e lo scoscese,
Quasi infocalo tuon, pianta sllvestra:
Stese Mennone ancora
Lagrime dell’Aurora.
Or su, non solo infonde
Apollo arte di cetra,
Ma d’Aganippe all'onde
Presagio anco s’impetra.
Lo stral di mia faretra
Trarrò, che solo in verità s'acqueti.
Qual per cotanti illustri
Tra gli Escidi illustri
È il figlio altier della cerulea Teti.
Tal fia quinci a mille anni.
Tra i Medici Giovanni.
Note
- ↑ Giovanni, figlio naturale del granduce Cosimo I, fu molto adoperato in pace e in guerra dal fratello Ferdinando I e dal nipote Cosimo II. Militò con gloria sotto A. Farnese nelle Fiandre; fu Generale della Repubblica di Venezia. Dovette la sua grande reputazione a’ suoi talenti per a fortificazione e per l’artiglieria; nella quali arti di guerra in quel secolo avevano gli Italiani in preferenza su tutti. Morì nel 1621.