Pultava/III
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L’abbandono in che si trova lo sgomenta. Nessuno gli viene incontro; il cavallo spumante lo riconduce al palazzo. Entra. “Dov’è Maria?” è la sua prima parola. I servi tremanti esitano a rispondere.... Colpito di stupore, Mazeppa passa alla stanza di Maria; la trova vuota e muta. Scende nel giardino; erra qua e là fra i cespugli, nel boschetto ombroso, lungo il vivaio; non scopre vestigio della sua diletta. “È fuggita!” Chiama a sè i fedeli servitori, le agili guardie. Accorrono al cenno del signore. I cavalli nitriscono. Suona intorno l’ordine di partire a galoppo, e immantinente volano in ogni direzione.
Passa il tempo prezioso, e Maria non torna. Nessuno ha udito, nessuno ha veduto dove essa sia andata. Mazeppa digrigna i denti dalla rabbia. I suoi servi tremano e tacciono. Gonfio il cuore d’amarissima angoscia, l’etmanno si rinchiude nella sua stanza. Sta tutta la notte accanto al letto della bella, senza chiuder occhio, infranto dal cordoglio e dal rimorso. La mattina le guardie ricompariscono l’una dopo l’altra. I cavalli appena possono più reggersi in gambe; le cinghie, le unghie, le briglie, le selle sono rotte, lacerate, intrise di spuma e di sangue; ma nessun messo reca notizie di Maria.
La traccia di lei sparve come un raggio nell’aere, e sua madre terminò nell’esilio e nella solitudine la misera esistenza.
III.
Il dolor che prova Mazeppa non gli toglie il proseguir lo svolgimento delle sue macchinazioni. Perseverante nelle sue imprese, continua le trattative col monarca svedese. Ma per meglio coprire le sue mene secrete e ingannare chi fida in lui, si confina in un letto, e finge sognati mali. Si circonda d’una turba di medici, geme, invoca il cielo e gli chiede la sua guarigione. Le fatiche della guerra, le pene della vita, l’hanno ridotto agli estremi. Già è pronto a lasciar questo mondo caduco per il mondo eterno. Brama i soccorsi della religione da lui oltraggiata, e un arcivescovo viene a sparger l’olio santo sul crin canuto dello spergiuro Mazeppa.
Mosca indarno aspetta gli ospiti desiati, e prepara di nascosto giuochi solenni, in onore dello Svedese, fra mezzo alle antiche tombe nemiche. Ma Carlo volge subitamente indietro i passi, e porta la guerra nell’Ucrania.
Il gran giorno s’appressa. Mazeppa torna in vita. Quel moribondo, che ieri stava per scendere nella fossa, ecco risorge, ecco sfida il magnanimo Pietro. Impugna e vibra la spada davanti al suo esercito schierato, e galoppa impetuoso verso le sponde della Desna. Poco fa curvato e rotto dal peso dell’età, a un tratto egli si drizza sano e forte, simile a quell’astuto porporato che buttò via le grucce, quando ebbe in fronte la tiara. La incredibil notizia vola sull’ale della fama. L’Ucrania freme di sdegno, e grida: “Egli tradisce Pietro, e umilia ai piedi di Carlo le nostre disonorate insegne.” Lo sdegno rapido si spande come fiamma; arde la guerra civile.
Chi pennelleggerà l’ira che invade Pietro? L’anatema rimbomba nelle cattedrali; il boia incenerisce l’effigie di Mazeppa. Il consiglio supremo cassa l’etmanno, e gli nomina un successore. Pietro richiama dai deserti dell’Ienisei le famiglie di Cocciu-bei e d’Iscra. Unendo le proprie lacrime alle loro, egli le colma di favori e di cortesie, e loro rende i titoli e i beni. L’antagonista di Mazeppa, il valoroso Palei, passa dalle steppe dell’Ucrania, ove languiva esiliato, negli accampamenti dello Zar. La ribellione, abbandonata a sè medesima, si affievolisce e sfascia. L’audace Ceccel1 e il principe dei Zaporoghi lascian la testa sul patibolo. E tu pure morrai, favorito della vittoria, che la corona getti per l’elmo, tu pur morrai, dacchè sei giunto in vista delle mura di Pultava.
Lo Zar muove a Pultava con tutte le sue coorti. Vi piomba come il fulmine. I due eserciti si assediano l’un l’altro in mezzo alla pianura. Così il gladiatore, già battuto in vari incontri, anticipatamente pascendosi di sangue, s’avventa all’avversario da gran tempo aspettato. Il potente Carlo non vede intorno a Pietro le masse imbelli disperse a Narva, ma innumerevoli schiere ben disciplinate, ben armate, leggiere, pazienti, minacciose e irte di sfolgoranti baionette.
Carlo ha detto: “Dimani la battaglia.”
Il sonno regna negli accampamenti. In una sola tenda, si ode ancora un susurro di voci:
“Sì, Orlic mio, io riconosco che ci siamo troppo affrettati di allearci a Carlo. Egli non ha nessuna delle doti che si richiedono in un buon generale. Saprà vincere due o tre volte; andare di galoppo a domandar da cena al suo nemico;2 motteggiare gentilmente sulle bombe che gli cascano vicino;3 approssimarsi di notte, in gran silenzio, alle trincere nemiche; saprà levar di sella un Cosacco, e rendergli ferita per ferita,4 ma non sa lottar contro un emulo potente e perseverante; vorrebbe governar la sorte come si governa un reggimento, a suon di tamburo; è sconsiderato, ostinato, impaziente, irritabile; confidando follemente nella sua stella, stima superflua la prudenza; abbagliato dai suoi primi successi, non pone mente alla attuale superiorità delle forze russe; va a darvi di cozzo senza tema; vi si fiaccherà le corna. Vecchio come io sono, io non doveva fanatizzarmi per quel temerario; mi lasciai illudere dall’apparenza, come un inesperto e debile fanciullo.
Orlic. Aspettiam l’esito della pugna. È tempo ancora d’entrare in trattative con Pietro, e di riparare il nostro fallo. Lo Zar sconfitto da noi non ci ricuserà il suo perdono e la sua alleanza.
Mazeppa. No, è troppo tardi. Lo Zar dei Russi non può riconciliarsi meco. Già da gran tempo la mia sorte è decisa. È tanto ch’io ardo d’ira e di rancore! Ascolta quel ch’io sto per dirti. Un giorrno, sotto le mura d’Azoff, io sedeva a mensa nella tenda del feroce Pietro. Il vino ferveva nelle coppe, e non meno di quello bolliva il nostro sangue incalorito dalla discussione. Mi sfuggì dalle labbra una parola acerba. I convitati impallidirono. Il principe infuriato lasciò cader la coppa, e minaccioso mi tirò pei canuti baffi. Fu forza ch’io inghiottissi quell’oltraggio; ma in cuore giurai di vendicarlo. Ho fin qui nutrito la vendetta in seno, come una madre il caro pargoletto. Aspettavo il momento propizio. È giunto. Il cielo m’ha eletto a punitor di Pietro; il nome di Mazeppa non gli escirà mai dalla memoria. Io sono la spina della sua corona. Volentieri darebbe le sue più grandiose città, le sue più belle ore di vita per potermi tener un’altra volta per i baffi.... Ci resta tuttora una speranza...... L’aurora determinerà per chi parteggeremo.
Dopo ch’ebbe così parlato, il fellone tacque e s’addormentò.
La nuova aurora splende all’oriente. Già i cannoni mugghiano sui poggi e nelle valli. Un purpureo vapore s’alza, ondeggiando per l’aria indorato dai raggi mattutini. I reggimenti serrano le file; i bersaglieri si sparpagliano per le macchie. Le bombe scoppiano; le palle fischiano; le fredde baionette avanzano. Li Svedesi attraversano il fuoco delle trincere; la cavalleria fluttua e vola; l’infanteria la segue, e la rinforza colle sue masse pesanti e compatte. Il lugubre campo traballa e arde in mille luoghi; ma appare chiaro da vari segni che l’incostante fortuna questa volta combatte con i Russi. Le legioni svedesi, rispinte dall’artiglieria moscovita, si scompigliano, cadono stese al suolo come mèsse falciata. Rosen si ricovera nelle gole dei monti; il prode Slipenbac si arrende prigioniero. I Russi incalzano gli Svedesi, li sbaragliano truppa per truppa; s’oscura lo splendore delle loro bandiere, e, grazie all’assistenza del Dio delle battaglie, ogni nostro passo avanti è un trionfo. Allora la voce ispirata di Pietro esclama: “Coraggio, per Dio!” Circondato di offiziali, lo Zar esce della sua tenda. Li occhi suoi scintillano di gioia. Il suo sembiante incute spavento. I suoi moti sono violenti. È bello, è tremendo come un angelo sterminatore. S’inoltra. Viene il suo destriero fedele. Impetuoso e tranquillo, il nobile animale freme annasando da lontano la strage e il fuoco, scuote la criniera, butta faville dagli occhi e superbo del suo cavaliero, si precipita nel più fitto della mischia.
Il sole entra nel meriggio e versa torrenti di fiamma. Come i mietitori, i guerrieri riposano. I Cosacchi volteggiano all’intorno. I reggimenti sparsi si riformano. I bellici istrumenti tacciono. Il cannone più non folgoreggia dai colli. Nella vasta campagna echeggia un immenso evviva. Pietro si mostra ai suoi soldati.
Passa rapidamente davanti alle truppe, potente e sereno come Marte. Collo sguardo misura il terreno. Lo scortano in schiera folta i suoi compagni fidi fra tutte le vicende della sorte, in tutte le fatiche del governo e della guerra, i Sceremetieff, i Bruce, i Bour, i Repnin.
Carlo, frattanto, sdraiato in una bara portata dai suoi servitori, pallido, immoto, gravemente rito, fa la rassegna delle sue truppe decimate. Lo seguono i suoi generali. Sta immerso in profonda meditazione. Il suo aspetto esprime l’agitazione che gli sconvolge il cuore. Diresti che la guerra desiata ha tolto a Carlo il senno e la ragione. Fa un gesto colla destra, e immantinente li Svedesi assaliscono i Russi.
E l’esercito dello Zar marcia contro a quello del re, in mezzo a un velo di lampi e di fumo. Incomincia la battaglia, la battaglia di Pultava!
Nell’incendio della lotta, fralla grandine rovente dei proiettili, le falangi si urtano come muraglie vive, cadono al suolo disfatte, son supplite da altre fresche, che anche esse vanno tosto a mordere la terra. Le baionette s’incrociano. Li squadroni vestiti d’acciaro volano come nembo procelloso. Risuonano le briglie, le sciabole; i cavalieri s’aggrediscono con furore, si tagliano a pezzi. Le palle di metallo accatastando cadaveri su cadaveri, rimbalzano, rugghiano, sbranano, rotolano nella polvere, e bollono nel sangue. Li Svedesi, i Russi, rovesciano, trafiggono, trinciano, mielono. Da per tutto, rombo di tamburi e di cannoni, urli, gemiti, calpestii, nitriti; dappertutto la morte e l’inferno.
In mezzo alla confusione e al tumulto, i capitani contemplano tranquillamente la battaglia, giudicano ogni evoluzione di truppe, predicono la perdita o la vincita d’ogni assalto, e ragionano fra sè a bassa voce.
Ma chi è quell’eroe canuto, ritto accanto allo Zar? Sostenuto da due Cosacchi, acceso di sublime emulazione, osserva con occhio esperto i movimenti dei due eserciti. Egli non monterà più a cavallo, e al suo richiamo non accorreranno più i Cosacchi da ogni parte. Il vecchio Palei imbiancò nell’esilio, e già sta vicino alla fossa. Ma perchè lampeggiano i suoi occhi? Perchè la sua fronte scabra si copre d’un’ombra di furore più nera della notte? Che sentimento lo fa rabbrividire? Forse egli ha scorto tra il fumo del campo il suo nemico Mazeppa, e a quella vista orrenda maledice la sua vecchiezza imbelle.... Sì. Mazeppa tutto pensieroso considerava la battaglia, attorniato d’una turba di Cosacchi ribelli, di parenti, di anziani, e di guardie.
Si spara uno schioppo in vicinanza. Mazeppa rivolge la testa. Il fucile tuttora fuma fralle mani di Voinarovschi. Un giovine Cosacco, colpito a morte, stramazza a pochi passi di distanza; il suo corsiero cosperso di polvere e di spuma, sentendosi libero, fugge di carriera, e si perde nella rosseggiante campagna. Il Cosacco si slanciava contro l’etmanno, colla spada in mano, colla disperazione in volto. Mazeppa s’accosta al moribondo per interrogarlo, ma già ha spirato l’anima. Le sue pupille spente tuttora insultano l’assassino di Cocciu-bei, il nemico della Russia; e la sua lingua paralizzata articola ancora le sillabe adorate del nome di Maria.
L’ora della vittoria è giunta. I Russi incalzano; li Svedesi cedono. O glorioso istante! o glorioso miracolo! Facciamo un ultimo sforzo, e li Svedesi si danno alla fuga. La nostra cavalleria li insegue; le spade si spuntano e si spezzano a trucidarli; i morti coprono il piano in mucchi così spessi, come li sciami delle locuste nere.
Pietro da un gran convito.5 Raggiante di felicità e di gloria, egli siede all’alto della mensa. Arrivano in mezzo alle acclamazioni dei soldati tutti i generali russi e svedesi. Pietro accoglie con amorevolezza gli illustri prigionieri, e fa un brindisi in onore dei suoi maestri nella grande arte della guerra.
Ma dov’è il più cospicuo fra quelli ospiti, dov’è il nostro più esimio maestro, quel reale dottor di guerra, cui Pietro ha finalmente superato e vinto? Dov’è Mazeppa il perfido apostata? Perchè il re di Svezia non fu invitato al banchetto? Perchè l’etmanno non fu inviato al patibolo?
Il re e l’etmanno fuggono insieme a cavallo a traverso le steppe tacite e nude. La sventura li ha congiunti. La vergogna, l’ira, e il pericolo vicino infondono al monarca nuove forze. Egli oblia la sua profonda ferita. Fugge colla testa bassa, inseguito dai Russi, e appena la caterva tumultuosa dei servi può tenergli dietro.
Il vecchio etmanno vola al suo fianco, girando la vista intorno sul vasto orizzonte del deserto. Giungono ad una villa.... Perchè raccapriccia Mazeppa? Perchè passa sì rapido davanti a quella abitazione? Forse quel cortile vuoto, quel giardino, quella porta aperta verso il prato, gli richiamano alla mente qualche antico orribile evento? O profanatore d’ogni cosa sacra! Riconosci quella dimora altre volte si gaia, nella quale, rallegrato dal vino, tu scherzavi a mensa in mezzo ad una felice famiglia? Riconosci l’umile asilo ove viveva l’angelo di pace; il boschetto, nel quale rapisti la bella durante una oscurissima notte?.... Lo riconosci?
Le tenebre abbuiano le steppe che si estendono lungo le rive del ceruleo Dnieper. I due capitani raminghi si adagiano sull’erba fralle rupi della sponda. Il giovine eroe dorme placidamente, e più non si ricorda di Pultava. Ma il vecchio suo compagno è inquieto; non può gustare un istante di riposo. Tutto a un tratto, una voce lo chiama nelle tenebre. Si riscuote, mira; vede una figura che si china sopra lui con un gesto minaccioso. Egli rabbrividisce come sotto alla scure. Una donna coi capelli sparsi, cogli occhi fiammeggianti e cavi, magra, squallida, livida, lacera, sta lì davanti a lui, sotto i raggi della luna.
Mazeppa. È un sogno?... oppure sei tu, Maria?...
Maria. Piano, piano, amico! È poco che mio padre e mia madre sono andati a letto.... fermo.... potrebbero udirci....
Mazeppa. Maria! Misera Maria! Torna in te.... Dio mio.... che hai?...
Maria. Ascolta. Oh che furberia! Che sciocca favola hanno inventata! Essa mi ha detto in secreto che il mio povero padre è morto, e m’ha mostrato di nascosto il capo bianco di lui.... Ohimė.... come sottrarsi alle calunnie? quel capo non era d’uomo, ma di lupo.... Essa voleva ingannarmi!... Come non si vergogna di straziarmi?... E perchè mi strazia? Affinchè io non me ne vada teco oggi. Sarà mai possibile?”
Il suo amante la ode con immensa compassione. Frattanto Maria, trascinata dalla sconvolta fantasia, seguita a sragionare.
“Mi ricordo,” dice, “quel campo; quella alle grezza strepitosa, quella plebe, quelle due teste.... Mia madre mi conduceva a quella festa... Ma dove stavi tu?.... Perchè da te disgiunta vo io vagando nell’orror della notte? Andiamo a casa. Presto!... Si fa tardi.... Ah che folli pensieri mi assalgono.... Ti tenevo per un altro, buon vecchio.... Lasciami. L’occhio tuo è spaventoso e beffardo. Tu sei deforme.... Egli, è bello.... arde d’amore il suo sguardo, spira grazia e voluttà il suo linguaggio.... i suoi baffi son più candidi che neve, e i tuoi rosseggiano di sangue.”
E la fanciulla piange e ride ferocemente, e più agile d’una cervetta saltella, corre, e sparisce nella oscurità.
L’ombra si diradava. L’oriente si tingeva di color di porpora. I cosacchi accendevano il fuoco e facevan cuocere il riso. Le guardie menavano i cavalli all’acque pure del Dnieper. Carlo si desta. “Su, su, Mazeppa, álzati, è tempo di partire; il giorno spunta.” Ma l’etmanno non dormiva. L’angoscia lo opprime e gli toglie il respiro. Sella in silenzio il suo corsiero, e parte col monarca. Tremendo fu l’ultimo sguardo, l’ultimo addio di Mazeppa agli Stati perduti per sempre.
Cento anni passarono. Che rimane di quei potentati alteri, imperiosi, violenti? Sparvero dalla faccia della terra; e con essi sparve ogni vestigio delle loro sanguinose lotte, delle loro depredazioni, delle loro conquiste. Tu solo, vincitore di Pultava, erigesti un monumento durevole al tuo nome, nell’impero del settentrione, da te creato e incivilito. In quella parte ove una lunga fila di molini alati circonda i bastioni diroccati di Bender, là dove gli armenti mugghianti vagano tranquillamente intorno alle tombe degli eroi, vedonsi gli avanzi sparsi d’un tugurio; tre gradini del quale, mezzo sepolti nel suolo e ammantati di musco, serbano la memoria del re Carlo. Solo coi suoi servitori palatini, quel temerario guerriero sostenne fra quelle mura l’impeto dei battaglioni turchi, e arrese la spada come Mazeppa la clava. Ma si cercherebbe invano nelle vicinanze il sepolcro dell’etmanno. Non resta traccia di lui. Solamente, una volta l’anno, l’eco della antica cattedrale ripete quel nome maledetto.
Le due vittime innocenti di Mazeppa giacciono sotto la stessa lapida. La chiesa ha collocato le loro ossa fra quelle dei credenti e dei giusti. Tuttora vivono in Dicagne le alte querce piantate in loro onore dagli amici piangenti.
In quanto a Maria.... La tradizione non parla di essa. Un velo impenetrabile copre i suoi patimenti, le sue sventure, la sua fine. Ma di quando in quando un cantore ceco dell’Ucrania, modulando davanti alli abitanti d’un villaggio li inni composti da Mazeppa, cita per incidenza ai giovani cosacchi il nome della colpevole e infelice Maria.
fine.
Note
- ↑ Ceccel combattè l’esercito di Mencicoff.
- ↑ Ciò fece Carlo in Dresda, dal re Augusto. Vedi Voltaire, Histoire de Charles XII.
- ↑ «Una bomba!» sclamò il secretario di Carlo. — «Ebbene, ripigliò il re, che hanno le bombe che fare colla lettera ch’io ti detto?» Ma ciò successe più tardi.
- ↑ Carlo visitando di notte li accampamenti russi s’accostò a un crocchio di cosacchi seduti intorno a un fuoco. Sparò il suo schioppo e ne ferì uno. I cosacchi risposero con tre colpi, uno dei quali ferì Carlo alla gamba.
- ↑ L’empereur moscovite, pénétré d’une joie qu’il ne se mettait pas en peine de dissimuler, recevait sur le champ de bataille les pri sonniers qu’on lui amenait en foule, et demandait àtout moment: “Où est donc mon frère Charles?...” Alors, prenant un verre de vin: “A la santé, “dit-il,” de mes maîtres dans l’art de la guerre!” Renschild lui demanda qui étaient ceux qu’il honorait d’un si beau titre, “Vous, Messieurs les généraux suédois,” reprit le Tsar. “Votre Majesté est donc bien ingrate,” reprit le comte, “d’avoir tant maltraitè ses maitres.” Voltaire, Histoire de Charles XII.