Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/277

236 pultava.

gliano, cadono stese al suolo come mèsse falciata. Rosen si ricovera nelle gole dei monti; il prode Slipenbac si arrende prigioniero. I Russi incalzano gli Svedesi, li sbaragliano truppa per truppa; s’oscura lo splendore delle loro bandiere, e, grazie all’assistenza del Dio delle battaglie, ogni nostro passo avanti è un trionfo. Allora la voce ispirata di Pietro esclama: “Coraggio, per Dio!” Circondato di offiziali, lo Zar esce della sua tenda. Li occhi suoi scintillano di gioia. Il suo sembiante incute spavento. I suoi moti sono violenti. È bello, è tremendo come un angelo sterminatore. S’inoltra. Viene il suo destriero fedele. Impetuoso e tranquillo, il nobile animale freme annasando da lontano la strage e il fuoco, scuote la criniera, butta faville dagli occhi e superbo del suo cavaliero, si precipita nel più fitto della mischia.


Il sole entra nel meriggio e versa torrenti di fiamma. Come i mietitori, i guerrieri riposano. I Cosacchi volteggiano all’intorno. I reggimenti sparsi si riformano. I bellici istrumenti tacciono. Il cannone più non folgoreggia dai colli. Nella vasta campagna echeggia un immenso evviva. Pietro si mostra ai suoi soldati.

Passa rapidamente davanti alle truppe, potente e sereno come Marte. Collo sguardo misura il terreno. Lo scortano in schiera folta i suoi compagni fidi fra tutte le vicende della sorte, in tutte le fatiche del governo e della guerra, i Sceremetieff, i Bruce, i Bour, i Repnin.

Carlo, frattanto, sdraiato in una bara portata dai suoi servitori, pallido, immoto, gravemente fe-