Puerili (Leopardi)/Le rimembranze
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I
LE RIMEMBRANZE
Idillio.
Era in mezzo del ciel la curva luna,
e di Micon la povera capanna
sol piccola da un lato ombra spandea.
Chino sul destro braccio, ed appoggiando
5alle ginocchia il cubito, dell'uscio
sul facile gradin sedea Micone.
Egli era triste e muto. Il tenerello
Dameta, il figliuolin, che ad ogni istante
temea la mamma udir chiamarlo al sonno,
10scherzavagli d'intorno, e, saltellando,
la mano gli prendeva, or d'una cosa,
or d'altra il ricercava: un panierino
mostravagli talor da lui tessuto,
talor raccolto un fresco fior, talora
15nella socchiusa man lucido insetto
sorpreso in aria da sagace colpo;
e il rimirava in faccia, e avidamente
plauso chiedea col guardo, e col sorriso.
Quel, serio e taciturno, a stento ai detti,
20o a fuggitivo riso i labbri apriva.
Alfin proruppe:
micone
O amabile Dameta,
di', figlio mio, del tuo maggior fratello
non ti ricordi tu? più non rammenti
25il tuo Filino? Ei t'ha lasciato, e un anno
è che noi vedi più. Le prime rose
spuntavano, come or, su quella fratta,
quando, i suoi giuochi abbandonati, il vidi
seder pallido e muto. Io gli chiedea:
30— Figlio, perché qui sei? perché non giuochi?
perché non vai con tuo fratello al prato?
Su! scendi a sollazzarti. Hai forse male? —
— No, padre — ei mi diceva — no, nulla io sento,
ma stanco io sono, e qui riposo; or ora
35tornerò con Dameta a trastullarmi. —
Cosi sempre ei dicea, ma sempre il male
più gli apparia sul viso. Un di di festa
alfine ei si levò l'estrema volta,
poi più non sorse. Oh! come, allor che a casa
40la sera mi vedea tornar dal campo,
lieto in chiamarmi mi tendea le mani,
e la mia mi baciava, e mi chiedea
se stanco fossi, e sempre a sé vicino
m’avria voluto. Un giorno alfin (dimani
45quel di funesto riconduce il sole)
mi levai, corsi a lui, chino sul letto
gli diedi un bacio, e come stasse il chiesi.
Ei più non rispondea: l'occhio mi volse,
cui luccicante lacrima copria:
50ma nulla dir potè, più non dischiuse
il moribondo labbro. Un opportuno
rimedio al male, il vecchio Alcon, quel saggio,
cui si spesso vedesti e cui si spesso
della villa consultano i pastori,
55indicato ci avea. Per procacciarlo,
impaziente alla città mi volsi.
Saliva il sole in cielo e la marina
di lontano splendea; ma la campagna
era tacita ancor. Passai non lungi
60a quell'alto palagio, che alla luna
or vedi biarrcheggiar dietro alle piante,
colà vicino alla maestra via.
Della villa i signori eran sepolti
nel dolce sonno del mattin. Pur vidi
65aperta una finestra, intorno a cui
sporgea ferrea ringhiera, e dentro l'ampia
camera signoril, sul pavimento
e il lucido apparato, che l'opposta
parete ricopria, dal sol dipinta
70l'immagine mirai della finestra:
a cui dinanzi con negletta veste
un dei servi passar vidi, che intento
sulla scopa pendea. Quanto lugubri
per me fùr quei momenti! Alla cittade
75giunsi, tolsi il rimedio e qua tornai.
Fra speme e fra timor, tremante, incerto
entrai sospeso... Morto era Filino.
Pallido il rimirai: finito io vidi
il respirar sulle gelate labbra:
80serrate le palpebre, e rilucenti
pel ghiacciato sudor Tumide chiome.
Ahi mio Filino! Da quel tempo ancora
quel mesto orror, quei funebri momenti,
quel tristo di dimenticar non posso.
dameta
85Ben men sovvengo anch'io: che nel levarmi
quella mattina, oltre l'usato io vidi
trista la mamma. Al mio Filino io tosto
correr voleva: ella il vietò, mi disse
che ancor dormiva, e uscir mi fece al prato.
90Ma, nel tornar con festa e saltellando,
pianger la vidi. Io m'acchetai, pian piano
le venni appresso, e, presale la gonna,
mesto le dimandai perché piangesse.
Ella china abbracciommi, ed appoggiando
95alla mia la sua fronte: — Ah! figlio — disse, —
caro Dameta mio, Filino è morto. —
Allor piansi ancor io. La mamma invano
trattenermi volea: poi ch'ella il guardo
rivolse altrove, al letticciuolo io corsi
100del mio caro Filiti. Fiso dapprima
il rimirai, poi sullo smorto viso
mille baci gli diedi, e colla mano
toccai la fredda guancia, e gli occhi chiusi
di riaprir gli cercai. Deh! quanto io piansi
105in veder come più non si movea!
— Filin! Fratello! — io gli diceva, — oh Dio!
tu non mi vedi più... Che far giammai
potrò senza di te? Quanto t’amava!
quanto m'amavi! Alla selvetta, al prato
110sempre eravamo insieme: oli! quante volte
corremmo a gara, e a gara tra le foglie
cogliemmo i più bei fior! quante sull’erba
la sera assisi al raggio della luna,
cantammo insiemi Tu m'insegnavi il suono
115sopra le canne a modular, che spesso
di tua man m'apprestavi; o a far panieri
per empirli di fiori; o a lanciar sassi
a un albero lontan. Spesso nel bosco
tendemmo insidie agli augelletti, e insieme
120ci partimmo la preda. Entro un canneto
spesso nascosto io l'amor tuo cercai
deludere un momento: ansioso allora
tu di me givi in traccia. Il riso mio
o lo scrosciar delle vicine canne
125mi tradiva talor: tu mi scoprivi
e lieto a me correvi, e, in abbracciarmi,
del mio crudo piacer mi riprendevi.
Oh quanto ci amavamo! Ah! tutto tutto
è finito per noi. Caro fratello
130tu mi lasciasti... Al giuoco, in casa io sempre
solo restar dovrò? No, che la vita
menar più non potrei... Caro Filino,
ah! tu moristi, ah! morir voglio anch'io. —
Egli piangea; tra le ginocchia il prese
135il buon Micone, e gli asciugava il pianto,
e consolando il già.
micone
Diman condurti
alla cittade io vo' diman la tomba
ti mostrerò di tuo fratello, e voglio
140che venga insiem con noi la mamma ancora.
Ah figlio! ah tu sei morto! il padre tuo
che si t'amò, dimenticar sapresti?