Prosopopea di Pericle (Lucas)
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Nell’inclita famiglia
D’Atene un dì non ultimo
96Splendor e maraviglia,
A riveder io Pericle
Ritorno il ciel latino,
Trïonfator de’ barbari,
100Del tempo e del destino.
In grembo al suol di Catilo
(Funesta rimembranza!)
Mi seppellì del Vandalo
104La rabbia e l’ignoranza.
Ne ricercaro i posteri
Gelosi il loco e l’orme,
E il fato incerto piansero
108Di mie perdute forme.
Roma di me sollecita
Sen dolse, e a’ figli sui
Narrò l’infando eccidio
112Ove ravvolto io fui.
Carca d’alto rammarico
Sen dolse l’infelice
Del marmo freddo e ruvido
116Bell’arte animatrice;
E d’Adrïano e Cassio,
Sparse le belle chiome,
Fra gl’insepolti ruderi
120M’andò chiamando a nome.
Ma invan; chè occulto e memore
Del già sofferto scorno
Temei novella ingiuria
124Ed ebbi orror del giorno;
Ed aspettai benefica
Etade in cui sicuro
Levar la fronte e l’etere
128Fruir tranquillo e puro.
Al mio desir propizia
L’età bramata uscío,
E tu sul sacro Tevere
132La conducesti, o Pio.
Per lei già l’altre caddero
Men luminose e conte,
Perchè di Pio non ebbero
136L’augusto nome in fronte.
Per lei di greco artefice
Le belle opre felici
Van del furor de’ secoli
140E dell’obblio vittrici.
Vedi dal suolo emergere
Ancor parlanti e vive
Di Perïandro e Antistene
144Le sculte forme argive:
Da rotte glebe incognite
Qua mira uscir Bïante
Ed ostentar l’intrepido
148Disprezzator sembiante;
Là sollevarsi d’Eschine
La testa ardita e balda,
Che col rival Demostene
152Alla tenzon si scalda.
Forse restar doveami
Fra tanti io sol celato,
E miglior tempo attendere
156Dall’ordine del fato?
Io che d’età sì fulgida
Più ch’altri assai son degno?
Io della man di Fidia
160Lavoro e deli’ ingegno?
Qui la fedele Aspasia,
Consorte a me diletta,
Donna del cor di Pericle,
164Al fianco suo m’aspetta.
Fra mille volti argolici
Dimessa ella qui siede,
E par che afflitta lagnisi
168Che il volto mio non vede.
Ma ben vedrallo; immemore
Non son del prisco ardore:
Amor lo desta, e serbalo
172Dopo la tomba Amore.
Dunque a colei ritornano
I fati ad accoppiarmi,
Per cui di Samo e Carnia
176Ruppi l’orgoglio e l’armi?
Dunque spiranti e lucide
Mi scorgerò d’intorno
Di tanti eroi le immagini
180Che furo Ellèni un giorno?
Tardi nepoti e secoli
Che dopo Pio verrete,
Quando lo sguardo attonito
184Indietro volgerete,
Oh come fia che ignobile
Allor vi sembri e mesta
La bella età di Pericle
188Al paragon di questa!
Eppur d’Atene i portici,
I templi e l’ardue mura
Non mai più belli apparvero
192Che quando io l’ebbi in cura.
Per me nitenti e morbidi
Sotto la man de’ fabri
Volto e vigor prendevano
196I massi informi e scabri;
Ubbidïente e docile
Il bronzo ricevea
I capei crespi e tremoli
200Di qualche ninfa o dea.
Al cenno mio le Parie
Montagne i fianchi apriro,
E dalle rotte viscere
204Le gran colonne usciro.
Si lamentaro i Tessali
Alpestri gioghi anch’essi,
Impoveriti e vedovi
208Di pini e di cipressi.
II fragor dell’incudini,
De’ carri il cigolío,
De’ marmi offesi il gemere
212Per tutto allor s’udío.
Il cielo arrise: Industria
Corse le vie d’Atene,
E n’ebbe Sparta invidia
216Dalle propinque arene.
Ma che giovò? Dimentichi
Della mia patria i numi,
Di Roma al fin prescelsero
220Gli altari ed i costumi.
Grecia fu vinta, e videsi
Di Grecia la ruina
Render superba e splendida
224La povertà latina.
Pianser deserte e squallide
Allor le spiaggie Achive,
E le bell’arti corsero
228Dal Tebro sulle rive.
Qui poser franche e libere
Il fuggitivo piede,
E accolte si compiacquero
232Della cangiata sede.
Ed or fastose obbliano
L’onta del Goto orrore,
Or che il gran Pio le vendica
236Del vilipeso onore.
Vivi, o Signor! Tardissimo
Al mondo il ciel ti furi,
E con l’amor de’ popoli
240Il viver tuo misuri.
Spirto profan, dell’Erebo
All’ombre avvezzo io sono;
Ma i voti miei non temono
244La luce del tuo trono.
Anche del greco Elisio
Nel disprezzato regno
V’è qualche illustre spirito
248Che d’adorarti è degno.