Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia/I. Primo articolo del Giornale de' letterati d'Italia

I. Primo articolo del Giornale de' letterati d'Italia

../ ../II. Prima risposta del Vico IncludiIntestazione 6 luglio 2021 25% Da definire

Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia II. Prima risposta del Vico

[p. 197 modifica]

I

PRIMO ARTICOLO DEL «GIORNALE DE’ LETTERATI D’ITALIA» Fine principale di questo dotto signore si è il dare a conoscere quale sia stata la filosofia degli antichi popoli dell’Italia; e, perché ciò non si può dimostrare da’ loro libri, non essendone veruno giunto a noi, donde apprendere ciò si possa, promette egli d’andarlo raccogliendo dall’origine e dal significato di vari vocaboli della latina favella. Imperciocché — dice egli nel proemio (p. 125), — postomi a considerar l’origini della lingua latina, molte voci io v’osservai cosi dotte, che certamente dall’uso del volgo essere provenute non possono, ma piú tosto da qualche dottrina intrinseca a quella nazione che le usava, non essendo inverisimile che arricchito sia un linguaggio di maniere filosofiche di dire, ogni qual volta molto siavi in uso la filosofia. Quindi è — conchiude — che gli antichi romani, essendo stati affatto d’ogni scienza sforniti infino a’ tempi di Pirro, e per altro, senza intenderne la forza del significato, essendosi serviti di vocaboli pregni di filosofici sentimenti, egli è d’uopo che altronde dalle circonvicine nazioni abbianli appresi. E queste furono quinci quelli che professavano l’italica filosofia, colá trapiantatavi insino dall’Ionia, e quindi i vecchi toscani, i quali esso pruova essere stati molto dotti in ogni sorta di scienza, e principalmente nella teologia. Anzi è fuor d’ogni dubbio che da questi ricevettero i romani, non che le cose spettanti alla religion degli dèi, ma ancora la favella e le frasi usate da’ pontefici nelle sacre cerimonie. [p. 198 modifica]

Divide egli questa sua opera filosofica in tre libri, cioè a dire, in Metafisica, in Fisica e in Morale. In questo primo libro, ovvero di Metafisica, intitolato al sapientissimo signore Paolmattia Doria, prendesi a trattar di quelle maniere di favellare, dalle quali conghietturar possiamo quali fossero l’opinioni degli antichi sapienti dell’Italia intorno al primo Vero, al sommo Dio e alle menti umane. E lo divide in otto capitoli, confessando di essere stato stimolato a porvi mano da tre suoi dottissimi amici, li signori Agostino Ariano, Giacinto di Cristoforo e Niccolò Galizia. Primieramente egli afferma (p. 131) appo i latini questi due vocaboli «verum» e «factum» essere termini convertibili ; il verbo «inlelligere» significare il medesimo che «leggere perfettamente» e «conoscere con evidenza»; e ’l verbo «cogitare» significar ciò che noi volgarmente diciamo «pensare» e «andar raccogliendo». E però e’ conghiettura essere stata opinione degl’italiani antichi sapienti, in Dio essere il primo Vero, e infinito e perfettissimo, essendo lui e il primo facitore e il facitore di tutte le cose, e il suo Vero a lui rappresentando gli elementi delle cose tutte, si estrinsechi si intrinsechi. E, perché il sapere non è altro che un comporre gli elementi delle cose, e’ conchiude che l’intelligenza è propria del solo Dio, il quale, contenendo in sé tutte le cose, legge, non che l’esterno di quelle, ma anche l’interno; lá dove è proprio della mente umana (la quale è finita e fuor delle cose) il solo pensare, cioè il raccórre, non tutte intiere le cose, ma le sole estremitá e quel eh’è al di fuori, per dir cosi. Quindi e’passa a dimostrare (p. 133) che, nel solo Dio essendo il vero perfetto, non abbiam noi scienza piú certa della teologia rivelata, cioè di quella che mediante la fede abbiamo ricevuta dal medesimo Dio. Iddio sa ogni cosa, contenendo in sé gli elementi, onde ogni cosa e’ compone; ma l’uomo studiasi di sapere ogni cosa per via di divisione, sicché dire possiamo che la scienza umana sia come una notomia dell’opere della natura. Imperocché, per esempio, noi sogliam dividere l’uomo in corpo e in anima, l’anima in intelletto e in volontá, astrarre [p. 199 modifica] ! - PRIMO ARTICOLO DEL «GIORNALE DE’ LETTERATI» 199 dal corpo la figura e il moto, e da queste come da qualunque altra cosa, l’ente e l’uno. Ed ecco l’origine delle scienze umane: delle quali la metafisica contempla l’ente, l’aritmetica l’uno e le sue moltiplicazioni, la geometria la figura e le sue misure, la meccanica il moto intorno al centro, la fisica il moto dal centro, la medicina il corpo, la loica la ragione, e la morale la volontá. Tuttavia queste scienze nell’uomo son, la maggior parte, imperfettissime e lontane dal vero; e noi, avendo le cose sol fuor di noi, conoscerle non possiamo se non per via d’astrazione, volgendo a nostra utilitá quel eh’è puro difetto della nostra mente. E da tal astrazione son prodotte due scienze le piú utili, perché le piú certe, la geometria e l’aritmetica; e da queste poi ne fu generata la meccanica, onde ne nacquero tutte l’arti all’uman genere necessarie. Laonde, perché queste scienze son facitrici, sono ancor le piú vere, assomigliandosi alla scienza divina, nella quale il vero e ’l fatto son convertibili. Gittati finalmente tai fondamenti, che dalla mente umana, se non tutte, almen conoscansi molte veritá, scende a confutar prima il Cartesio (p. 13S), il quale per regola principale al suo metafisico assegna prima di tutto Io spogliarsi non pure d’ogni pregiudizio, ma eziandio di qualsisia veritá; dipoi gli scettici (p. 141), i quali ogni veritá metteano in dubbio, e dicevano di nissuna cosa potersi avere certezza. Di lá scende al secondo capitolo (p. 143), dove disamina questi due vocaboli «gcnus» e «species», de’ quali il primo — cj‘ ce > — appo i latini significava la «forma», e ’l secondo ciò che nelle scuole chiamasi «individuo», e ciò che noi volgarmente diciamo «simolacro» ed «apparenza». E, perché tutte le sètte de’ filosofi convengono in ciò, che i generi sieno infiniti, però e’ conchiude opinion degli antichi filosofi dell’Italia essere stata che i generi sieno forme infinite, non nell’estensione sua, ma nella perfezione, e, come infinite, trovinsi nel solo Dio; ma che le specie, o cose singolari, sieno simolacri fatti secondo le medesime forme. E, perché il vero e ’l fatto son d’una medesima significazione, egli è d’uopo che i generi delle cose non sieno gli universali delle scuole, ma forme, e forme metafisiche, cioè idee [p. 200 modifica]

e modelli, su’ quali le forme fisiche si lavorano, cioè delle cose singolari. Quindi molte cose utilissime al trattar delle scienze egli deduce: 1. esser migliore il metodo della sintesi per le scienze che quel dell’analisi; 2. quell’arti giugnere piú certamente al suo fine, le quali propongono alla mente l’idea di ciò che deesi fare, che quelle le quali procedon piú tosto per via di conghietture; 3. molto esser pericoloso lo starsi troppo sulle cose generali, ned esservi via piú sicura per incamminarsi all’acquisto della veritá, che’l saper accordare l’universalitá dell’idea a tutte le particolaritá delle circostanze che incontransi in qualsisia cosa singolare. Segue il terzo capitolo (p. 149). Furono sinonimi nella latina favella i vocaboli «causa» e «negocium», che «operazione» significa; e ciò, che quindi ne nasce, e’chiamarono «effetto». Laonde, s’una cosa medesima sono il vero e il fatto, cioè l’effetto, provar che che sia per le cause e’ sará un farlo; e, perché la materia, o sia gli elementi delle cose, son le sue cause, proverá dalle cause colui che agli elementi mal ordinati e disposti dará il suo ordine e disposizione, onde ne risulta la forma della cosa, la quale induce in quella una special natura: il che della geometria è proprio e deH’aritmetica. Quindi (p. 151) egli a lungo molte cose sottilmente discorre, nel capitolo seguente, dell’essenze o virtú delle cose, de* punti metafisici, e degli sforzi al moto, e dello stesso moto: le quali però chi volesse tutte esporre, non farebbe un compendioso estratto del libro, ma un nuovo libro, di cui questo piú tosto sembrerebbe esser l’estratto. Nel quinto capitolo (p. 167) osserva essersi distinti da’ vecchi latini questi due vocaboli «animus» e «anima», di modo che «anima» sia quella con cui si vive, e «animo» quello con cui si sente. Ma, perché l’aria eziandio, cui egli mostra essere il principio comune di tutti i movimenti, fu da’ medesimi chiamata col nome di «anima», quindi egli argomenta, aver giudicato gli antichi sapienti dell’Italia l’animo e l’anima altro non essere [p. 201 modifica] I - PRIMO ARTICOLO DEL «GIORNALE DE’ LETTERATI» 201 negli animali che movimento particolare di aria: la quale, introdotta per via della respirazione nel cuore, e da quello nell’arterie e nelle vene, spinge quivi al moto il sangue; siccome, di lá insinuandosi ne’ canali de’ nervi e agitando il loro sugo, vi cagiona tutti que’ moti che alle facoltá sensitive soglionsi attribuire. Quindi (p. 169) pure deduce che, ’1 vocabolo «brutum» appo i latini null’altro importando che «cosa immobile», lor opinione fosse che le bestie non avessero, come abbiam noi, un interno principio de’ loro movimenti, ma che per se stesse fossero immobili, se non in quanto dalla presenza degli esterni oggetti determinate venissero al moto. Segue il sesto capitolo (p. 173), dove, disaminando il vocabolo «tnens» e scorgendo quello sovente appresso i latini significare ciò che noi diciam «pensiero», e dipoi osservando quelle locuzioni latine, con cui dicevano «metileni homitiibus a diis dari, immilli», va conghietturando essere stato insegnamento de’ primi maestri dell’italiana sapienza che Iddio nelle nostre menti sia il primo autore e principio, non solo di qualsisia nostra idea e pensiero, ma ancora di tutti gli atti della nostra volontá; il che tuttavia poscia dimostra come accordar si possa colla bontá infinita di Dio e colla libertá del nostro arbitrio. Il settimo capitolo (p. 175) tutto spendesi in esaminare con si fatti principi le facoltá della nostr’anima, quali e che cosa elle sieno e che maniera tengano nel loro operare. Considera poi le tre famose operazioni della nostra mente, percezione, giudizio, ragionamento, le quali son l’oggetto della loica, cui egli divide in topica, critica e metodo; di modo che la topica sia la facoltá ovvero l’arte dell’apprendere, la critica del giudicare e ’1 metodo del ragionare. Pone in disamina il metodo geometrico, e in alcune scienze e arti niente utile lo stima, in alcun’altre anzi dannoso che no. Antepone alla fine il metodo della sintesi a quello dell’analisi, essendo, per arrivare al vero, piú sicura la via del comporre che quella del risolvere, conciossiaché, facendo, viensi a conseguire la veritá. Finalmente nell’ultimo capitolo (p. 187) mettesi a considerare i significati di que’ vocaboli «numen». «fatum», «casus», [p. 202 modifica]

  • fortuna»’, indi va conghietturando quali fossero i sentimenti

de’ filosofi antichi dell’Italia in riguardo della divinitá e dell’ordine ed esecuzione de’ suoi eterni decreti e consigli. Al qual capitolo l’autore aggiunge la conclusione di tutta l’opera (p. 191), che altro non è che una brevissima ricapitolazione delle cose dette di sopra con molto meno di brevitá. Onde non è maraviglia che noi una grandissima parte delle cose in questo libro sottilissimamente trattate, senza né pur accennarle, trasandate abbiamo; imperciocché il suo dotto autore pone affoltate, nonché in ogni pagina, quasiché in ogni linea speculazioni innumerabili con tal brevitá, che ’l volerle toccar tutte, comeché leggermente, e’ sarebbe il fare un estratto eguale nella mole a tutto ’l libro. E ciò eziandio ci fa credere che, nel compilar questo libricciuolo, abbia avuto l’autore in pensiero il darci anzi un’idea e un saggio della sua metafisica che la sua metafisica stessa, scorgendovisi specialmente cose moltissime semplicemente proposte, che sembrano aver bisogno di pruova; il che sperasi una volta di aver noi a vedere, quando e’ diaci l’opera compiuta alle stampe. Ma sopra ’l tutto desidereremmo di vedere provato ciò che a tutta l’opera è principal fondamento ed anzi singolare: donde esso raccolga che nella latina favella significhino una stessa cosa «factum» e «verum», «causa» e «?iegocium», ecc.