Poesie della contessa Paolina Secco-Suardo Grismondi/Il viaggio di Genova e di Toscana
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IL VIAGGIO
DI
GENOVA E DI TOSCANA
Quattro volte la Luna il giro usato
Compiè appena nel Ciel poich’io animosa
De’ malori crudei fuggendo l’ira,
Che da lunga stagion teneanmi oppressa,
5L’orride schiene ad affrontar mi accinsi
Dell’altero Apennino, e le beate
Della bella Liguria a veder corsi
A Libertà diletta illustri piagge.
All’ampia scena ch’oltre all’arduo giogo
10Inaspettata innanzi a me si aperse
Di colli digradanti, cui superba
Fanno corona verdi selve ombrose,
Giardin ridenti, e splendidi palagi;
All’aura dolce che d’intorno olezza
15E quelle apriche bea vaghe pendici;
All’affacciarsi dell’auguste mura,
Cui fa tremolo specchio il mar soggetto,
Pur apparve repente e a me benigna
Con rosea faccia la salute arrise,
20Cui tante io porte avea preghiere invano;
Come il fragor cessato, e lo spavento
Di torbida procella, che versando
Impetuosa grandine sonante
Spogliò le selve, e fè de’ campi strazio,
25Di settemplice luce colorato
Appar l’arco di pace, e stan sull’ali
A contemplarlo in dolce calma i venti
Io volli allora de’ miei carmi un serto
Alla invitta offerir Figlia di Giano,
30E gli avvivati studj, e l’arti tutte
D’intensa gara accese, e l’indefesso
Commercio che da tanti estranj climi
A man piena le reca ampj tesori,
E la sovrana Libertà, che intatti
35I suoi vessilli additar gode, e l’alte
Sue magnanime imprese, e il sangue sparso
De’ Canevan, e de’ Pinelli suoi,
Tutto io volgea nell’agitata mente,
Ed al mio plettro già stendea la mano;
40Ma d’improvviso l’Ombra a me davanti
Stette di sacro Vate, che silenzio
Imperiosa, e di cotanto ardire
Quasi sdegnata, alle mie labbra impose.
Ombra del Savonese a verdi allori
45Che velavanti il crine, all’aurea cetra
Che in man reggevi, e più a quel vivo aspetto
Di cui sovente io venerai la immago
Ben ti conobbi, e ben sentii che a pochi
Sol più cari ad Apollo eletti Spirti
50Lice il canto tentar, là ve sì spesso
E le marine, e le silvestri Dive
Corsero a udirti, e di stupor ripiene
De’ focosi inni tuoi fer plauso al suono.
Oh dì felici, che di quello in seno
55Trassi libero suol d’affanni sgombra,
E novella bevendo aura di vita!
Ma da sì cara sede ahi! troppo presto
Allontanarmi è forza, e già su lieve
Legno salpando al mar mi affido, e parto,
60E sol col guardo fiso il lido amato
Io seguo ancor, che fugge, e si dilegua.
Splende tranquillo il Cielo, e senza nube,
Ed un’aura seconda increspa l’acque,
Che percosse da remi mormorando
65Mi portano veloce. In ogni parte
Volan qua e là sovra l’instabil piano
Baldanzose barchette, aperte vele
Quasi liete compagne al mio viaggio
Folle chi crede del Nettunio regno
70Alle infide lusinghe. Oh come tutto
Cambiossi al sorger della nuova aurora
Di tenebroso chiusa infausto velo!
Escon dal carcer loro i più rabbiosi
Figli d’Eolo mugghiando; il mar s’innalza
75E flagellando la smarrita prora
Dal diritto cammin fuor la trasporta;
Vela, o remo non val; di prodi, esperti,
Nerboruti nocchieri è vana ogni opra;
Ovunque io spingo il guardo altro non vedo
80Che sossopra sconvolte onde frementi,
E tetri scoglj, ed inaccesse rupi,
E a quanti ho intorno un gelido timore,
Che mal celar si puote, io leggo in fronte.
Oh come allor de’ miei paterni colli
85La pace sospirai, ove dell’aure
Sol si sente il garrir entro alle frondi,
E di qualche ruscello il mormorìo
Che tra muscosi sassi il corso rompe;
Ma il lido ecco si appressa, ecco lo afferra
90Il faticato legno, e tutti a gara
Balziam festosi in sulla ferma arena.
Lieto forse così poichè molt’ebbe
Cesare all’onde contrastato, e ai venti
Coll’affannato Amicla al fin trovossi
95Salvo di Epiro in quelle stesse rive
Che troppo ardito abbandonate avea.
De’ passati periglj or più non rieda
A me l’immagin trista; il Ciel, la via
Tutto facile arride, ed agii cocchio
100Col variar de’ fervidi destrieri
Già volando mi scorge ai Toschi lidi.
Fernando glorïoso inclito germe
Della Medicea stirpe a queste liete
Piagge, dov’or mi aggiro, abbiette un tempo,
105Ed a pochi nocchier note soltanto,
Forza diede e splendor; Ei di robuste
Le ornò marmoree moli, e qui dell’ire
Del mar cruccioso, e dell’insidie ostili
A mille e mille nazion diverse
110Donò placido asilo, ond’or Livorno
E di ricchezze e d’ogni merce abbonda,
E di popolo immenso ondeggia e ferve.
E Tu, celebre Alfea, che un dì l’impero
Dell’Oceàn reggesti a portar guerra
115Su cento usate e cento armate prore
Oltre all’onde Tirrene in ogni lido,
E a mieter palme, e a debellar nemici
Di Cartago, e di Roma emula invitta,
Non ti lagnar se il crudo alato Veglio
120Che tutto urta e, distrugge, alfin pur volle
Contra te stessa esercitar sua possa.
Lacere le tue membra, è ver, sepolte
Giacquer sotterra, e qualche marmo appena
De’ prischi figli tuoi rammenta il nome.
125Pur dalle tue rovine, e del vetusto
Squallor degli anni ad onta ergesti ancora
Gloriosa la fronte, e ancor dell’Arno,
Che Te parte fastoso, in sulle rive
Torri, templi, palagi, ed archi io veggio
130Mostrarsi orgogliosi, e nel tuo seno
All’ombra amica di Palladie fiondi
L’Arti belle fiorir, fiorir gli studj.
Ma de’ compagni miei sento la voce
Che al dipartir mi affretta; al cocchio uniti
135Nitriscono i cavalli impazienti,
Ne fia lungo il cammin ch’altro omai possa
Me rattener fin ch’io dell’alma innante
Città non giunga, che da Flora ha il nome.
Salve Città regal; novella ovunque
140Per l’ampie tue contrade il piede io volga
Meraviglia lo arresta, e pende il guardo
Fra mille obbietti attonito e confuso.
Cosi d’un cinto in mezzo erboso prato
Giovane pastorella il pie sofferma
145I fior diversi a contemplar, incerta
Qual pria raccolga per ornarne il seno.
Sì, questo è il loco ove tornaron liete
L’Arti sorelle a ricomporsi il crine,
E l’atra nebbia a disgombrarsi intorno
150Ond’eran cinte, quando afflitte esangui
Ivan l’Italia ricercando tutta
Da barbari innondata, e sol di lutto,
Di rapine, di stragi orrido campo.
Molli vivaci forme i bronzi, e i marmi
155Preser docili allor; d’industre al tocco
Pennello creator fur le pareti
Viste animarsi; maestosi, alteri,
Quai già la Grecia, e quai d’Augusto ai giorni
La superba innalzar Roma solea,
160Surser ampj edificj; alfin qui apparve
D’ogni Genio maggior astro novello
Michelangiol divin, che in Vaticano
Il miracol dell’arte al Ciel sospinse.
Nè sorde al nuovo invito, d’Ippocrene
165Stetter lente sul margo allor le Muse,
Che sceser ratte ad abitar le rive
Dell’Arno, e del Mugnon, e fer di dolci
Suonar quest’aere armoniosi accenti.
Perchè fra queste mura a me non lice
170Far più lungo soggiorno, e perchè troppo
Nemica a desir miei l’invida sorte
Sì presto mi richiama ai patrj Lari?
Ma pria ch’io giunga, a loro, oh quai si appresta
Novella gioja a ricercarmi il cuore!
175Come esultar godrò davante ai ricchi
Felsinei colli, e alle famose rive
Del picciol Ren care a Minerva, e a Febo!
Udiron esse dell’umìl mia cetra
Da lunge il suono, e de lor Vati il coro
180I miei non isdegnò timidi carmi
Di sua voce animar, e sotto all’ombra
De’ sacri lauri suoi donarmi un seggio.
Spero avverrà, che più tranquilla un giorno,
E con voce men fioca io le tue glorie
185O Felsina di Eroi madre e nudrice
Possa cantar; nè tanto ingrata allora
Sarò ch’io non rammenti entro a’ miei carmi
E del Panaro, e della Parma i pregi.
Ma di mia Patria in grembo ahi! quale oscuro
190Stuol di pensier funesti a me d’intorno
Solo si aggira, che mi vieta il canto,
E al lagrimare e al lamentar mi chiama!
I mali stessi ond’io sperai, ma invano
Colla fuga sottrarmi, e ottener pace,
195Contro di me s’avventan più feroci,
E la salute, che mostrossi appena
A me cortese, in un momento sparve
Qual lampo, che strisciando il bujo rompe
Di fitta notte, e nel medesmo istante
200Fuggendo par che le tenèbre accresca.
Eterni Numi! se da voi fu scritto
Sun ’n Ciel ch’io tragga di mia vita il corso
Sempre infelice, ed agli affanni in preda,
Deh almen propizio a fidi amici miei
205Lieti e tranquilli ne serbate i giorni!