Poesie (Savonarola)/Lettera di Cesare Guasti

Lettera di Cesare Guasti

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CONTE CARLO CAPPONI




Le Poesie di Fra Girolamo Savonarola debbono a lei queste nuove cure: perchè ella ottenne dal conte Giberto Borromeo di trarne copia dall’autografo; ella pregò il coltissimo abate Luigi Razzolini a trascriverle, per non muover da Milano un manoscritto di tanta rarità; ella si diè a fare ricerche e confronti, di cui le sapran grado i bibliografi; e col farne anche vedere la mano di scritto, volle sodisfare al genio di quelli, che nell’autografo degli uomini grandi credono quasi di contemplare il ritratto della lor mente. Quanto poco rimanesse da fare a me, e com’ella potesse far bene anche questo, sarà facile giudicarlo a chi legge: ma io debbo ringraziarla d’aver voluto che qui il mio nome apparisse, porgendomi nuova occasione di mostrare la reverenza che io professo a questo gran Frate. So che la mia devozione [p. vi modifica]è stata pubblicamente ripresa, e messami poco men che a peccato: ma è un bel peccare con uomini santissimi, come un Francesco di Paola, una Colomba da Rieti, un Filippo Neri, una Caterina de’ Ricci; i quali non crederò mai che ci vedessero meno di un giornalista del secolo decimonono, nè che per canonizzar Fra Girolamo avessero bisogno di conoscere (siccome quel tale vorrebbe) i documenti della vita e i processi della condanna. Ed ella poi sa meglio di me, quel che i processi e i documenti abbiano provato; e chi vi stia peggio, se il Savonarola, o quelli che ne avrebbero voluto disperdere la memoria come le ceneri.

Gli antichi e i moderni contraddittori del Frate han fatto, per lo meno, questo male, che i protestanti lo abbiano potuto impunemente registrare nei loro martirologi: laddove io tengo, e oso dire, che se la riforma del Frate italiano avesse avuto il suo pieno svolgimento, o la riforma del Frate tedesco non sarebbe avvenuta, o ne sarebbero state meno gravi le conseguenze. Lutero diede al capo della società cristiana, quasi che quivi fosse la causa del male che affliggeva le membra; mentre il Savonarola volle somministrati i rimedi a tutte le membra che fossero inferme. Non toccò questi le fondamenta dell’edificio cristiano, che stanno nella Fede, e che non potrebbero abbisognare dell’opera [p. vii modifica]umana, avendole Gesù Cristo basate sopra una salda pietra, e cementate col sangue proprio e del martiri: ma volle riformare la disciplina e il costume, crescere alla Chiesa di Cristo il decoro e la gloria. E a questo spese la vita, e la diede; per questo dettò volumi, che l’autorita infallibile dichiarò scevri d’errore.

Tale essendo lo spirito della sua morale e civile riforma, doveva Fra Grirolamo rifarsi da una parte: nè so come oggi si possa rimproverarlo d’essersi impacciato, lui frate, nelle faccende del secolo, quando egli aveva a combattere contro i vizi del secolo, e quivi più vivamente dov’erano le resistenze più grosse. Se andò in Palagio, e diè forma alla Repubblica; anche scese in piazza, e insegnò ai fanciulli le lodi di Dio, perchè dimenticassero le sconce canzoni, che ripetute dalle tenere labbra insinuavano nei cuori quella corruzione dei costumi, che sempre precorse l’incredulità e l’eresia.

Le Poesie confermano il concetto della sua riforma, e mostrano con quali modi intendesse di recarla ad effetto. Giovine ancora, deplorò le umane rovine della Chiesa, e le morali rovine del Mondo; nelle quali non troverà poetica esagerazione chi conosce le storie. E in queste due canzoni è poesia vera; di cui non scorgo, rispetto ai pensieri, più notabile esempio in quella età. Meno originale è nelle laudi spirituali; [p. viii modifica]poichè già era in Firenze l’usanza di cantarle nelle chiese, e la istituzione dei Laudesi risaliva al milledugento: ma il Savonarola si valse del pio costume a frenarne uno reo, che allora nasceva e cresceva all’ombra de’ Medici; dico quello d’andare per la citta, con carri o trionfi, a empir le orecchie di voluttuose canzoni. Orgie pagane, colle quali riuscì pur troppo di soffocare il grido della morente libertà: arte perfida, che il Frate di San Marco aveva già segnalata ai ciechi Fiorentini con quelle parole: “Il tiranno occupa il popolo in spettacoli e feste, acciocchè pensi a sè, e non a lui!„ Quello che divenisse in poco d’ora la città per opera del Savonarola, testimoni di veduta lo scrissero; e i carnevali santificati con le processioni e le danze de’ fanciulli, e coll’abbruciar degli anatemi, sono a notizia di tutti; chè vivamente gli descrisse Girolamo Benivieni, commentando la canzone: Viva ne’ nostri cor, viva, o Fiorenza, Viva Cristo il tuo re. Chi disse barbarie quei falò, perchè le fiamme consumarono pitture e codici, non ebbe in mente che nella riforma del Frate entravano le Arti belle e le Lettere; alle quali l’austero uomo, altro ministero non consentiva, che quello di rendere gli uomini virtuosi. Se ai mali estremi portò estremi rimedi, potrà incolparsi di zelo; ma nell’intendimento non errò. E fu agli artisti e ai letterati [p. ix modifica]amico e ispiratore; alle arti aprì nei conventi una scuola, alle lettere attese egli stesso, nè i poeti cacciò dalla repubblica e dal tempio.

Nelle Poesie di Fra Girolamo è singolarmente manifesta l’imitazione del Petrarca; meno aperto, lo studio di Dante. Il sonetto per l’Ascensione del Signore è come una parodia di quello in cui messer Francesco si dolse del dipartire di Laura da questa terra; e nelle tre prime canzoni, che sono forse i suoi componimenti più giovanili, non è quasi parola o emistichio, che non sia del canzoniere petrarchesco. Non è quindi maraviglia se da queste fonti derivasse il Ferrarese una vena tutta toscana di versi, anco prima che bevesse alle vive sorgenti del nostro popolo. La sua lingua ha più le pecche comuni del tempo, che le tracce del dialetto nativo: voglio dire, che pochissime parole hanno la ruvidezza de’ parlari lombardi (quali aziale, agiaziare, on, parascito, vargare, quatrosei, tri, per acciaro, agghiacciare, o, parasito, varcare, ventiquattro, tre), mentre molte serbano le maternali forme latine, che ai quattrocentisti della stessa Firenze piacquero tanto, come le stampe di quel secolo e i codici manoscritti ci danno a vedere. E tanto è ciò vero, che le laudi del Savonarola, miste a quelle dei toscani, e dell’elegantissimo fra i toscani del quattrocento Feo Belcari, nulla perdono al paragone: ed ella [p. x modifica]m’insegna, come in un’antica raccolta si vedano attribuite allo stesso Belcari e a madonna Lucrezia Tornabuoni ne’ Medici alcune di quelle laudi, che si hanno nell’autografo del Savonarola, e che a lui intendiamo di mantenere; parendoci delle due più probabile, ch’errasse quegli che raccoglieva (il quale sopra trecento componimenti non seppe di ottantadue dir l’autore), di quello che Fra Girolamo copiasse la roba d’altri in un quadernuccio di suoi studi, e il proprio mescolasse con l’altrui, senza farne alcun motto. E forte ragione parve a lei, come pare anco a me, che quelle laudi non si leggano nella più antica raccolta delle poesie del Belcari, di cui descrisse un esemplare, forse unico, il bibliotecario Fossi nel Catalogo (I, 275) de’ quattrocentisti Magliabechiani.

Tranne, dunque, nell’uso tutto latino dell’h, dei pt, ct, ti, x ec. (che i nostri antichi adoperarono, più per un cotal marchio della razza delle parole, come dice il Salviati, che perchè in fatti l’esprimessero con la voce), io ho riprodotto l’autografo di Fra Girolamo nella sua integrità: perchè molte fogge di scrivere ci mostrano l’etimologia, o la pronunzia di quell’età, diversa un po’ dalla odierna. E di siffatta merce potrà arricchirsi il glossario della lingua italica, se non il vocabolario dell’idioma toscano: duplice lavoro a cui ora intende la Crusca; la quale cita ora [p. xi modifica]le Poesie del Savonarola, come alcune sue prose, fra i testi autorevoli.

E questo è uno degli ultimi onori che vennero resi a Fra Girolamo dalle Lettere; le quali non se ne sono state mai dal celebrarne la memoria, com’ella ben sa, che le opere aduna concernenti al Frate, quasi a corredo della mirabile raccolta di tutti i suoi scritti nelle replicate stampe e nei vari linguaggi. Ma non così han fatto lor debito le Arti; e in Ferrara e in Firenze non è ancora una pietra, che ricordi Frate Girolamo. Che nel luogo dov’egli esalò la grande anima sorgesse nella sua deforme nudità un Nettuno circondato dalle deità del mare e dei boschi, potè tollerarlo e volerlo un Cosimo Medici, applaudirlo la pagana letteratura del secolo decimosesto: noi non dovremmo. Forse i nostri nepoti vedranno levarsi l’immagine del Savonarola dove gli antichi nostri ne videro il rogo: ma fin d’ora chiedo, che il monumento del Domenicano non discordi dalla sua vita e dottrina. Gli Alemanni innalzano oggi la statua a Lutero in Worms, e vi pongono Fra Girolamo a ornarne la base: sfacciata calunnia, da cui debbono rivendicarlo le Arti italiane. Noi intanto protestiamo contro scrivendo, e ridonando alla luce le canzoni del Riformatore cattolico.

Firenze, il 23 di maggio del 1862.

C. Guasti.