Poemi conviviali/Poemi di Psyche/II La civetta
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La civetta
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II
«O tristi capi! O solo voci! O schiene
vaie così come la biscia d’acqua!
Via di costì!» gridava agro il custode
della prigione. Era selvaggio il luogo,
deserto, in mezzo della sacra Atene,
con sue deformi catapecchie al piede
di bigie roccie dalle strie giallastre,
piene di buchi, verdeggianti appena
qua e là di partenio e di serpillo.
Il sole era sui monti, e nell’azzurro
passava fosco a ora a ora un volo
d’aspri rondoni che girava attorno,
sopra la rocca, alla gran Dea di bronzo,
forte strillando. Ed anche in terra un gruppo
di su di giù correva, di fanciulli;
strillando anch’essi. Ed ecco s’aprì l’uscio
della casa degli Undici, e il custode
alzò dal tetro limitar la voce.
Egli diceva: «È per voi scianto ancora?
Ieri da Delo ritornò la nave
sacra, e le feste sono ormai finite.
Non è più tempo di legar col refe
gli scarabei! Non più, di fare a mosca
di bronzo!» Un poco più lontano il branco
trasse, in silenzio. Poi gridarono: «Ohe?
che parli tu di scarabei, di mosche?
È una civetta.» In vero una civetta
tutta arruffata era nel pugno a Gryllo
figlio di Gryllo facitor di scudi,
ch’era il più grande. Ma l’avea pocanzi
in un crepaccio Hyllo predata, il figlio
d’Hyllo vasaio, ch’era il più piccino.
In un crepaccio della bigia rupe,
sotto un cespuglio di parïetaria,
vide due rilucenti Hyllo stateri
d’oro, nell’ombra, e s’appressò; ma l’oro
non c’era più: poi li rivide i due
fissi e tondi nell’ombra occhi d’uccello.
Una civetta della Dea di Atene
immobilmente riguardava il figlio
d’Hyllo vasaio; che con le due mani
all’improvviso l’abbrancò su l’ali,
e la portava. E Coccalo sorvenne
che gliela prese; a Coccalo la prese
Cottalo; e Gryllo a lui la vinse: allora
Cottalo pianse, Coccalo sorrise,
e il piccolino frignò dietro il grande.
Ma Gryllo avvinse con un laccio un piede
della civetta, e la facea sbalzare
e svolazzare al caldo sole estivo.
E dai tuguri altri fanciulli, figli
d’arcieri sciti, figli di metèci,
trassero. E in mezzo a tutti la civetta
chiudeva apriva trasognata gli occhi
rotondi, fatti per la sacra notte.
E il coro «Balla» cantò forte «o muori!»
E nel carcere in tanto era un camuso
Pan boschereccio, un placido Sileno
col viso arguto e grossi occhi di toro.
Dolce parlava. E gli sedeva ai piedi
un giovanetto dalla lunga chioma,
bellissimo. E molti altri erano intorno,
uomini, muti. Ed a ciascuno in cuore
era un fanciullo che temeva il buio;
e il buon Sileno gli facea l’incanto.
«Voi non vedete ciò ch’io sono. Io sono»
egli diceva «ciò che di me sfugge
agli occhi umani: l’invisibile. Ora
s’ei guarda, come fosse ebbro, vacilla;
ma non è lui, non è quest’io, che trema:
trema ciò ch’egli guarda, che si vede,
che mai non dura uguale a sé, che muore.
Io, di me, sono l’anima, che vive
più, quanto più vive con sé, lontana
dal mondo, nella sacra ombra dei sensi.
E s’ella parta libera per sempre,
nella notte immortale, ove si trovi
ella con tutto che non mai vacilla,
ella morrà? non vedrà più?» Qualcuno
«Vedrà» rispose; «Non morrà» rispose.
Poi fu silenzio. Il musico vegliardo
Pan era solo, accanto al suo pensiero
invisibile. Il bello adolescente,
supino il capo, con la lunga chioma
spiovente, lungi dalla nuca, all’aria,
beveva l’eco delle sue parole.
Ed ecco entrò dall’abbaino un canto
d’acute voci: «Balla, dunque, o muori!»
E il custode dal tetro uscio i fanciulli
striduli fece lontanar nel sole,
fuor dell’ombra dei tetti e della roccia.
Ma là, nel sole, molleggiò più goffa
sul pugno a Gryllo, s’arruffò, chiudendo
aprendo gli occhi, la civetta, e i bimbi
ridean più forte. Onde il custode: «O Gryllo
figlio di Gryllo, tu che sei più savio,
dà retta. Sai: codesto uccello è sacro
alla Dea nostra, a cui tu canti l’inno
movendo nudo coi compagni nudi
per la città. La nostra Dea sa tutto,
ché gli occhi ha grigi, di civetta, e vede
con essi per l’oscurità del cielo.»
«No, che non vede» disse Hyllo «né vuole
vedere, e chiude gli occhi tondi al sole.»
«Passero, taci. Tu, Gryllo» il custode
riprese, «grande già mi sei. Conosco
tuo padre, il buono artefice di scudi.
Tu gli somigli come fico a fico.
Fa chetare le tortore ciarliere.
C’è dentro la mia casa uno che muore!»
«Chi? Questa sera?» «Al tramontar del sole!»
«Perché?» «La nave ritornò da Delo.
Ed egli vide un sogno: una vestita
di bianche vesti, che gli disse: O uomo,
il terzo giorno toccherai la terra!
E la cicuta, sì, berrà dentr’oggi.
Tra poco, o Gryllo. Che in silenzio ei muoia!»
Tacquero allora i giovanetti a lungo
pensando all’uomo che così, per mare,
tornava in patria. E Gryllo disse: «È l’uomo
che andava scalzo e passeggiava in aria,
e diceva che il sole era una pietra,
e sapeva che terra era la luna...»
Ed in silenzio trassero alla roccia
tutti, e stettero presso la prigione,
come aspettando. E la civetta, al lento
filo costretta, si posò sul ramo
d’un oleastro che sporgea dal masso
sopra i ricciuti capi dei fanciulli.
Si chinò, s’arruffò, molleggiò, cieca
per la gran luce rosea del tramonto.
E dai tegoli un passero la vide
e garrì contro la non mai veduta,
e vennero altri passeri al garrito;
e il frastuono eccitò le rondinelle,
e fuori ognuna si versò dal nido;
e da un tacito ombroso bosco sacro
venne la capinera e l’usignuolo.
E grande era lo strepito e il bisbiglio,
pur non udito dai fanciulli, attenti
ad una voce che venìa di dentro,
di chi tornava alla sua patria terra
invisibile, e placido parlava
a un’altra barca che incrociò sul mare.
E poi cessato il favellìo di dentro,
un dei fanciulli disse: «Hyllo, tu monta
su le mie spalle, e narra quel che vedi.»
Hyllo montò sul dorso a quel fanciullo,
e sogguardò per l’abbaino: «Io vedo.»
«Hyllo, che vedi?» «Un buon Sileno vecchio.»
«Che dice?» «Dice che andrà via, che il morto
non sarà lui: seppelliranno un altro.»
Il sole in tanto ritraeva i raggi
dai bianchi templi della sacra Atene.
Sola splendea la cuspide dell’asta
che aveva in mano la gran Dea di bronzo.
Brillò d’un tratto e poi si spense; e il sole
calò raggiando dietro il Citerone.
«Hyllo, che vedi?» «Beve.» «La cicuta!»
«Piangono, gli altri; uno si copre il capo
con la veste, uno grida.» «Esso, che dice?»
«Dice di far silenzio, come quando
si sparge l’orzo, presso l’ara, e il sale.»
Ed era alto silenzio, che s’udiva
il passo scalzo su e giù dell’uomo,
e poi nemmeno si sentì quel passo.
«Hyllo, che vedi?» «È sul lettuccio; un altro
gli preme un piede. S’è coperto. Muore...»
«Dunque non esce?» «Ora si scopre. Dice:
Un gallo al Dio che ci guarisce i mali!»
«Che? La cicuta è un farmaco salubre?»
«Uno gli chiude ora la bocca e gli occhi.»
Dunque non parte? è sempre lì? Sì, morto.
E bisbigliando stavano i fanciulli
lungo la roccia, al buio. Ecco e la porta
s’aprì. N’usciva con singhiozzi e pianti
un vecchio, un giovinetto, altri poi molti
tristi gemendo. E dall’inconscie dita
il filo uscì con un lieve urto a Gryllo:
e il sacro uccello della notte in alto
si sollevò con muto volo d’ombra.
E i compagni del morto ed i fanciulli
scosse un subito fremito, uno strillo
di sopra il tetto, Kikkabau... dall’alto,
Kikkabau... di più alto, Kikkabau...
dal cielo azzurro dove ardean le stelle.
E disse alcuno, udendo il fausto grido
della civetta: "Con fortuna buona!"