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la civetta 147

chiudeva apriva trasognata gli occhi
rotondi, fatti per la sacra notte.
E il coro «Balla» cantò forte «o muori!»


     E nel carcere in tanto era un camuso
Pan boschereccio, un placido Sileno
col viso arguto e grossi occhi di toro.
Dolce parlava. E gli sedeva ai piedi
un giovanetto dalla lunga chioma,
bellissimo. E molti altri erano intorno,
uomini, muti. Ed a ciascuno in cuore
era un fanciullo che temeva il buio;
e il buon Sileno gli facea l’incanto.
«Voi non vedete ciò ch’io sono. Io sono»
egli diceva «ciò che di me sfugge
agli occhi umani: l’invisibile. Ora
s’ei guarda, come fosse ebbro, vacilla;
ma non è lui, non è quest’io, che trema:
trema ciò ch’egli guarda, che si vede,
che mai non dura uguale a sé, che muore.
Io, di me, sono l’anima, che vive
più, quanto più vive con sé, lontana
dal mondo, nella sacra ombra dei sensi.
E s’ella parta libera per sempre,
nella notte immortale, ove si trovi
ella con tutto che non mai vacilla,
ella morrà? non vedrà più?» Qualcuno
«Vedrà» rispose; «Non morrà» rispose.


     Poi fu silenzio. Il musico vegliardo
Pan era solo, accanto al suo pensiero
invisibile. Il bello adolescente,
supino il capo, con la lunga chioma